Per contrastare le “riforme istituzionali”. Capitalismo, federalismo, democrazia
Salvatore D’Albergo
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Parallelamente - dal 1980 in poi, sino all’interruzione dei
lavori della Commissione Bicamerale D’Alema, imposta peraltro da Berlusconi
senza incidenza di una sinistra passiva - si è sviluppata una iniziativa
espressamente rivolta a elaborare le “revisioni costituzionali” indotte
dalla legislazione controriformatrice iscritta negli indirizzi politici
egemonizzati dal craxismo, e alla lunga coonestate da una Corte Costituzionale
corriva al prevalere nella dottrina giuridica dell’idea che entro il modello
costituzionale di democrazia sociale possano convivere - “bilanciandosi”,
così si è detto - le opposte concezioni dei rapporti economico-sociali, quella
volta all’egualitarismo emancipatorio, e quella volta alla riaffermazione del
primato dell’“economico-privato” sul “pubblico-sociale”: e tale
iniziativa - anziché prendere posizione frontale contro i Principi Fondamentali
e la Prima Parte della Costituzione, - ha focalizzato obliquamente un attacco
sistematico alla Seconda Parte della Costituzione medesima, ritenendosi decisivo
intaccare la strumentazione della forma di governo con cui i principi di
democrazia sociale potevano divenire operanti, strumenti che infatti davano alla
democrazia politica italiana una configurazione tale da consentire un giudizio -
reiteratamente diffuso - sulla c.d. “anomalia” del caso italiano.
Ciò comporta una importante precisazione su un punto
teorico-politico mal assimilato dal marxismo, a causa del vuoto interpostosi tra
visione filosofica e visione politico-istituzionale della qustione dello stato,
“vexata quaestio” che ha visto l’inserimento in tale vuoto di un marxismo
dogmatico elaborato dai gruppi dirigenti comunisti interessati solo a coprire di
un manto teorico pseudo-marxista le scelte tattiche volta a volta suggeritigli
dalle congiunture politiche nell’asprezza della lotta di classe sia nei paesi
del “socialismo reale” sia nell’Europa occidentale: precisazione che
chiama in causa il c.d. “specialismo giuridico” mediante il quale - dal
canto suo - la cultura borghese è riuscita quasi sempre a condizionare la
coerenza di una analisi marxista raramente disposta a perseguire una stretta
connessione tra incidenza “economica”, e incidenza “politica”, della
critica del capitale: sì che nella questione dello Stato, teoria generale e
teoria analitica si integrano correttamente se si tiene ben presente la
relazione che - con le cadenze della storia dei conflitti sociali - si è venuta
variamente a configurare tra le “forme di Stato” e le “forme di governo”.
È in tale ambito, infatti, che le culture giuridiche “borghesi” si sono
mantenute conseguenti ai loro obiettivi ideologici, privilegiando funzione e
analisi delle “forme di governo” su funzione e analisi delle “forme di
Stato”, proprio allo scopo di far dipendere la regolazione dei rapporti
sociali - storicamente dominati dal capitale - da forme della “politica”
coerenti (grazie al loro variegato “autoritarismo”) con la gerarchizzazione
dei rapporti esistenti nella società civile.
Ne è derivato che le mistificazioni sulla teoria marxista
dello stato - sino al punto che prevale l’idea addirittura della sua “inesistenza”
(Bobbio) - si sono potute alimentare a misura del disconoscimento dei caratteri
peculiari della Costituzione italiana del 1948 rispetto alle altre costituzioni
borghesi, caratteri identificabili nella stretta interrelazione posta tra
Principi Fondamentali e Prima Parte - da un lato - e Seconda Parte - dall’altro
lato -, a seguito di una novità di grande rilievo che è consistita del
rovesciamento tra la concezione della forma di governo e la concezione della
forma di stato proprie del costituzionalismo liberale fatta propria poi sia
dalla cultura socialdemocratica sia dalla cultura fascista: rovesciamento che i
partiti di massa nella Assemblea Costituente del 1946-47 attuarono con un
duplice obiettivo caro ai comunisti, alla sinistra cattolica e ad una parte di
socialisti, che era quello di non limitarsi a respingere la tradizionale idea
derivante già dalla rivoluzione francese di premettere un “preambolo” -
cioè una premessa enfatica ed inefficace - ad una costituzione intesa solo come
luogo della disciplina dei rapporti tra “autorità politica” e libertà “civili
e politiche”, facendo allora della teoria della democrazia “sostanziale” -
in nome dell’intreccio e non della separatezza tra democrazia
politica/economica/sociale - il perno di una nuova e conseguente democrazia “formale”
cioè modificando la profondamente la forma di governo parlamentare di tipo
liberale (oltre ad avere respinto pregiudizialmente la forma di governo
presidenzialeperorata non solo dai neo-fascisti assenti alla Costituente, ma dal
partito d’azione e per esso dal giurista Calamandrei), con l’obiettivo di
fare della sovranità popolare l’antitesi della sovranità dello
stato-apparato, incentrato sul primato degli esecutivi su parlamenti intesi come
luogo di “teatro”, e non di canalizzazione di autonomie politiche
organizzate nei partiti e nei movimenti. Tale precisazione è indispensabile per
comprendere come lo snaturamento progressivo della sinistra estrema sia stata l’effetto
di trascinamento della strategia delle “riforme istituzionali” per rimuovere
con il blocco delle lotte sociali a partire dalla fine degli anni settanta -
quelle applicazioni del modello costituzionale di forma di governo che si erano
potute realizzare nella stretta connessione tra lotte sociali/rete delle
assemblee elettive nel “comtinuum” comuni, province, regioni e “centralità”
del Parlamento: ciò che aveva consentito una operazione di democratizzazione,
il cui punto più qualificante fu espresso nella riforma della Rai-tv come
luogo-cardine dei poteri centrali, precedentemente esclusivi in una materia
così essenziale alla soggettività di cittadini e di organizzazioni politiche e
sociali, donde quella replica tuttora espressiva altamente del ruolo di
Berlusconi, passato da proprietario di radio e televisioni “locali” a parte
del “duopolio” radiotelevisivo, con il supporto della leadership di un “polo”
politico pretendente di sostituirsi ai partiti democratici - in crisi - alla
guida del Paese.
L’accennato snaturamento - con il prevalere nel Pci dei “miglioristi”
anticipatori della deriva del Pds, agevolata a sua volta dall’appannamento
dell’ingraismo post-berlingueriano - ha avuto come referente decisivo l’influenza
di una elaborazione culturale divenuta pervasiva di tutta la cultura
politico-istituzionale degli anni ottanta (dispiegatasi nei lavori di ben tre
Commissioni Bicamerali Bozzi, De Mita/Jotti, e D’Alema, nel periodo
1983/1997), sotto l’egida di Gianfranco Miglio, professore di Scienza della
politica, cattolico tradizionalista, nemico dichiarato ed acerrimo di quello che
egli denunciava come “parlamentarismo assoluto” perché foriero della c.d.
“democrazia integrale”; il quale aveva assunto come asse del suo operare
teorico/politico “verso una nuova costituzione” (contenuto in due tomi, nel
nome di un enfatizzato “gruppo di Milano”, la tesi secondo cui la Repubblica
italiana sarebbe passata da un “primo” modello “formale” - iscritto
nella carta costituzionale del 1948 - ad un “secondo” modello derivante
dallo “scostamento” del sistema politico “reale” dal c.d. modello di
regime “occidentale”, come effetto dell’incidenza delle lotte sociali e
politiche di Pci e Cgil: donde l’auspicio di passare alla “terza Repubblica”,
quando all’inizio degli anni novanta la Costituzione del 1948 era uscita
ancora indenne dai varchi aperti con le “riforme istituzionali” sino allora
avviate - e poi riprese nel corso dell’ultimo decennio dai governi
Amato/Dini/Ciampi - perorando per la prima volta espressamente la causa del
superamento dei Principi Fondamentali, come riconoscimento che obiettivo reale
era quello di sostituire al modello formale della Costituzione democratica e
antifascista “fondata sul lavoro” un nuovo modello fondato sull’incremento
della ricchezza secondo la logica del capitalismo organico.
Quel che, quindi, occorre rilevare, è che l’ambizione di
restituire pienezza di autonomia al capitalismo privato - con un attacco
sistematico all’intervento pubblico nell’economia e allo “Stato sociale”
che (beninteso, in forme assistenzialistiche) su tali premesse si era potuto
avviare - ha come suo presupposto la rifondazione, in antitesi al modello di
costituzione di una democrazia di massa, di un sistema di potere decisionale che
è proprio dei sistemi “autoritari” anglosassoni - descritti
mistificatoriamente come “democratici”, addirittura in senso “classico”
nonché di quelli “totalitari” appartenenti al medesimo “genus”
decisionista e antisociale. Il nucleo centrale delle teorie decisioniste proprie
della forma di stato “liberal-democratiche” è rappresentato dall’idea che
“l’Esecutivo sta al centro dell’apparato statale ed ha di fatto il
controllo più o meno pieno della funzione legislativa e dei flussi della spesa
pubblica” (Bognetti, Revisione della forma di governo e revisione delle
disposizioni costituzionali vigenti in materia economica, p. 258),
distinguendosi solo - in nome della c.d. “ingegneria costituzionale” cara a
Sartori - tra preminenza del Presidente della Repubblica (tipico il caso Usa),
preminenza del Primo Ministro (tipico il caso della Gran Bretagna), o a duplice
preminenza come nel caso del c.d. “semi-presidenzialismo”, escogitato dal
gollismo ma recepito dalla socialdemocrazia mitterandiana senza riserve degli
stessi comunisti, per garantire quella che propriamente è un “bicefalismo”
che subordina in ogni caso il parlamento e l’organizzazione sociale e politica
che era stata alla base del rilancio della democrazia dopo la caduta del
nazi-fascismo.
Ma l’ingegneria costituzionale della fine del XX secolo non
mira solo a riallacciarsi all’autoritarismo dello stato liberale ottocentesco,
in quanto l’evoluzione dei rapporti tra società e stato sulla spinta della
“questione sociale” sollecitata dai partiti di massa sia interclassisti che
classisti, ha coinvolto la stessa cultura dominante ad una estensione della
normativa costituzionale ad ambiti che - sul presupposto della “governabilità”
e di uno spostamento di equilibrio della funzione normativa dalla “legge”
verso il “regolamento”, con una “delegificazione” volta a sommarsi al
carattere dipendente del voto parlamentare nella legislazione ordinaria -
riguardano l’uso delle risorse finanziarie, e lo stesso rapporto tra autonomia
privata e autonomia pubblica nell’esercizio delle funzioni produttive, a tal
fine utilizzando il peso delle vicende che hanno visto trascinare lo
stato/nazione nelle spire delle istituzioni sovranazionali ove primeggiano le
autorità monetarie.
Ecco che, allora, nel passaggio dalla Commissione Bozzi, a
quella De Mita/Jotti e D’Alema, si è assistito ad una operazione incrementale
di scostamento da ogni principio di democrazia, sia “politica” - essendosi
addirittura sfociati ad una sorta di modello semipresidenziale alla francese, in
nome della c.d. democrazia “immediata” raffigurata con l’immagine della
“Monarchia repubblicana” da Duvergere; sia “economico-sociale”, in tale
prospettiva essendo passati dall’ipotesi (peraltro mistificatoria) delle
regioni “forti” - con un’enfasi mutuata da certo filosofeggiare “in
senso forte” - del modello De Mita-Jotti, all’ipotesi esplicita “federalista”,
da un lato ignorando le preclusioni dell’art. 5 dei Principi Fondamentali
relativi all’unità e indivisibilità della Repubblica, e dall’altro lato
assimilando le suggestioni provenienti dalle cadenze dei Trattati europei nel
segno di una “sussidiarietà” peraltro usata capziosamente: perché altro è
la sussidiarietà tra normative comunitarie e normative statali, altro è la
sussidiarietà delle funzioni “pubbliche” rispetto all’esercizio delle “autonome
iniziative” dei privati, camuffati lessicalmente da “cittadini” quando
notoriamente si tratta di soggetti economico-sociali dotati di personalità
giuridica, e non di persone fisiche.
Poiché i tentativi durati circa ventanni di modificare la
forma di governo parlamentare benché non giunti ancora in porto hanno via via
stratificato passi rilevanti nella direzione controriformatrice - sia con il
modificare in senso “maggioritario” le leggi elettorali, sia dando luogo al
“presidenzialismo locale” con l’elezione diretta di sindaci, presidenti di
provincia e presidenti regionali - si tratta di annotare come nella lentezza del
processo di “modernizzazione” le forze della destra sociale e politica
abbiano avuto un sostegno imprevedibile nel pervicace “neofitismo” degli ex
comunisti resisi disponibili a quella visione di c.d. socialismo liberale - o
liberalsocialismo - che si è tradizionalmente configurato come base ideologica
di un conformismo al capitalismo, rivolto a omologare gli assetti di potere dell’Europa
a quelli degli Usa, ad onta di differenze storico-sociali che risultano
incancellabili, ed anzi tali da favorire nella c.d. “globalizzazione” una
combattuta e difficile ma incontenibile esigenza di internazionalizzazione dei
movimenti che rivendicano l’autonomia delle società nazionali del dominio di
un capitale finanziario sempre più intollerabilmente distruttive di risorse
sociali e naturali.
Né si può e deve tacere l’insufficienza del comportamento
delle residue forse che si richiamano genericamente al comunismo, poiché i
pilastri della strategia controfirmatrice sono stati criticati “passivamente”,
sia mediante l’accettazione in linea di principio del primato dell’esecutivo
aderendo all’idea del “premierato”, e della sua variante germanica nota
nel nome del “cancelierato” -, sia mediante il cedimento verso la deriva “federalista”,
deriva che trova come sua concausa determinante il deficit culturale che tuttora
caratterizza la discussione del federalismo, ignorandosi che la forma
federalista rappresenta come insegna proprio il prototipo cui si usa guardare -
quello nordamericano - una forma più moderna di unità dell’organizzazione
del potere politico-burocratico, in quanto forma di elevazione delle classi
dirigenti del c.d. decentramento nazional/statale al rango tradizionalmente
detenuto dalle classi dirigenti centrali, come comprova il tanto richiamato caso
della Germania che vede gli esponenti degli esecutivi dei vari Ladd componenti
della Camera corrispondente.
Ma non solo va chiarito che il federalismo non ha mai
rappresentato lo strumento di autonomia delle comunità degli “stati-membri”
rispetto allo Stato federale, ad ogni buon fine esclusivo nelle competenze più
qualificanti dello stato di diritto come lo Stato/nazione; ché negli sviluppi
più recenti che tengono conto del dispiegarsi di una governabilità fondata
sull’intreccio tra poteri statali e poteri sovranazionali - il caso dell’Unione
Europea insegna - il federalismo si palesa come strumento istituzionale più
idoneo al rilancio di quella “sussidiarietà” del “pubblico” rispetto al
“privato” che è parte della dottrina sociale cattolica, ma che ha ricevuto
concretezza di esaltazione dai principi del corporativismo fascista proprio in
Italia, laddove nella “carta del lavoro” del 1927 si era sancito che l’intervento
dello Stato nella produzione economica deve manifestarsi “soltanto quando
manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata”, ciò che concorre a fare
giustizia della tesi di comodo accolta dalla stessa sinistra odierna che parla
insensatamente di “federalismo solidale”, quando la c.d. solidarietà
riguarda solo la dialettica delle classi dirigenti nell’uso del governo dall’alto
delle risorse.
Né, per capire davvero l’origine reale del senso comune
federalistico che si è fatta strada in Italia, va sottovalutato come terreno di
incubazione di tale orientamento sia stata - come una sorta di pregiudiziale -
la proposta avanzata da Miglio nel 1900 di usare la “secessione” del Nord -
vagheggiata, più o meno irrazionalmente, dal “leghismo” che incombe dal
1987 - come strategia per sostituire addirittura questa Costituzione, cioè
facendo di una “frattura istituzionale” imperniata sulla spaccatura “tra
due Italie” quella che è stata chiamata “la nostra Algeria”, per fare del
passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica l’equivalente del passaggio
dalla Quarta alla Quinta Repubblica francese.