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Società e processi immateriali

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Mauro Fotia
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per Proteo (4)

Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

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Verso una comunicazione politica egemonizzata

Mauro Fotia

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4. Impresa come protagonista politico

Ma l’impresa sociale generalizzata non può esaurire la sua azione nell’ambito della società civile, la deve estendere necessariamente anche alla sfera della società politica, assumendo il ruolo di soggetto di potere.

Certo fenomeni come il dissesto dell’ecosistema, l’impoverimento delle risorse naturali, la turbolenza dei mercati finanziari, la destrutturazione del mercato del lavoro, l’esplosione dell’individualismo e della diversità, la rivoluzione dei generi, l’avanzata della criminalità nei Paesi dell’ex blocco sovietico, il narcotraffico, gli ingenti flussi migratori verso i Paesi sviluppati non possono non suscitare attenzione e preoccupazione. Solo nel mercato del lavoro dei Paesi industrializzati si contano trentacinque milioni di disoccupati, ed in generale, lavoratori con diminuita capacità contrattuale, sfruttati, precarizzati. Mentre vasti processi di desocializzazione generano in questi stessi Paesi cento milioni di cittadini collocati sulla soglia di povertà e nei Paesi in via di sviluppo un miliardo e trecento milioni di persone il cui reddito giornaliero è inferiore al dollaro (Kapstein, 2000).

L’esigenza di visibilità tuttavia costringe l’impresa a diventare protagonista politico, direttamente coinvolto nella gestione della cosa pubblica. La sua gestione virtuale dei vari settori pubblici diventa professionale, ed i compiti della comunicazione si differenziano. Quelle che prima erano chiamate “relazioni pubbliche” oggi vengono identificate come “affari pubblici”, definizione adottata da subito dalle grandi società americane, per sottolineare l’ingresso dell’impresa nel campo politico - strategico (Battelart, 1998, 99).

In questo ruolo informativo cioè, naturalmente l’impresa non va vista come un’entità o luogo fisico. Poiché essa, attraverso l’informazione, opera nel cyberspazio, in uno spazio informativo virtuale, cioè al quale accede attraverso le linee telefoniche.

Il potere, in realtà, si è spostato dalle sue sedi tradizionali. Castelli, palazzi ed altre strutture architettoniche che ospitavano burocrazie governative o uffici di grandi compagnie si stagliavano nei centri cittadini e sfidavano le forze di opposizione e i dissidenti a tentare l’assalto dei loro fortilizi. Questi di sicuro non sono spariti, ma non costituiscono più una rappresentazione necessaria del potere, anzi, non sono neppure uno dei suoi tratti essenziali.

Viene a formarsi una sorta di “telecittà mondiale” (Latouche, 1995, 31) nella quale la scomparsa dello spazio nazionale, da secoli luogo della regolazione dei rapporti politici, snatura la dialettica relazionale pubblica, dopo avere naturalmente messo in crisi l’identità culturale di ciascun Paese. E poiché tutti o quasi gli aspetti di questa telecittà risultano permeati dagli effetti della rivoluzione elettronica, ad un totalitarismo comunicazionale sociale si aggiunge un totalitarismo comunicazionale politico. è infatti tale rivoluzione che porta il modello manageriale di comunicazione e di formazione della corporate image a imporsi nell’intera società come l’unico modo di comunicare ad entrare nelle istituzioni statali, e nelle collettività politiche territoriali e a indurle a ricostruire i loro rapporti con i cittadini o con la società civile, ricorrendo all’esperienza e alla fantasia del marketing.

D’altro canto, in seno alla “telecittà mondiale” si svolge la competizione feroce tra i giganti dell’industria mondiale per la conquista e la concentrazione in poche mani dei maggiori e più avanzati strumenti multimediali della comunicazione. Tale comunicazione è divenuta più spietata a seguito a) della fine del mondo bipolare, della fine cioè di un mondo dominato dalla rivalità tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica, b) dell’avvento del neoliberismo, sorto dalle rovine dell’universo ideologico precedente, e mosso dall’aspirazione ad estendersi a tutto il pianeta e ad occupare lo spazio lasciato libero dai socialismi, non solo all’Est ma anche al Sud, c) dei contrasti economici di nuovo tipo che vedono scontrarsi tra loro i già ricordati tre poli più ricchi della terra: gli Stati Uniti, con il Canada e il Messico, i quindici Paesi dell’Unione Europea, il Giappone con le altre “tigri” asiatiche (Ramonet, 1999, 112).

Poiché il genoma delle nuove forme di organizzazione della comunicazione finalizzate alla produzione e al consumo risiede nel capitale intellettuale, i grandi proprietari dei media tendono a conquistare ed omologare le menti, vale a dire, ad asservirle, spesso cooptandole nelle forme più selvagge o adescandole con prospettive di successo e di ingenti profitti (Martufi - Vasapollo, 108-110). Quello che non era riuscito loro nelle prime due fasi della rivoluzione informatica-caratterizzate, la prima dai grandi terminali non intelligenti utilizzati solo dalle grandi imprese, la seconda, dai personal computer entrati anche nei piccoli uffici e nelle case - riesce invece, come rilevano Martufi e Vasapollo, nella terza fase, caratterizzata dall’avvento degli strumenti multimediali. Questi consentono ai grandi detentori degli apparati informatici la realizzazione di un vero e proprio “impero del capitale”. Ed è il caso forse di ricordare che, su un piano scientifico, il termine “impero”, prescelto dal libro del quale discorriamo, rispetto ai termini “dominio” o “egemonia”, evoca, in aggiunta all’idea di subalternizzazione intellettuale, il concetto di sfruttamento (Barrett Braun, 1970; Braun, 1973).

 

5. Comunicazione totalitaria e declino della democrazia

Appare dunque evidente come il consenso nelle società contemporanee denominate democratiche sia nella sostanza nient’altro che il frutto delle opinioni e dei programmi politici enucleati, coordinati e sedimentati dai pochi soggetti proprietari e gestori dei media della comunicazione mondiale. Soggetti dietro ai quali stanno altrettanti pochi protagonisti dell’economia globale. Le idee e i progetti varati da questi gruppi ristretti diventano espressione della volontà popolare solo se i gruppi stessi riescono a travestirli come problemi di interesse generale e a convincere le classi politiche ad adottare le loro proposte (Vidich, 1999, 41-43; Herman - Chomsky, 1998).

Per cui non ci si può sottrarre dal ricavare alcune istruttive conclusioni sulla natura e sulla portata della democrazia della nostra era.

La prima di queste ci dice che a monte di ogni processo decisionale sta il potere economico e che è errato pensare, come cominciano a fare taluni (Ramonet, 1999, 44), che quello mediale sia il secondo e non più il “quarto potere”, secondo la definizione tradizionale. Il potere mediale in realtà non è solo fortemente connesso col potere economico, ma è sua parte costitutiva e forma con esso un tutt’uno integrato. E il potere politico naturalmente subisce i pesanti condizionamenti di questa struttura di dominio unitario.

La seconda conclusione ci ricorda come il dibattito politico e le discussioni pubbliche siano diventate un’«arte perduta» (Lasch, 1995, 134). Il ruolo dell’informazione sembra infatti essere quello di far circolare un’ingente quantità di notizie, non di incoraggiare il dibattito o la discussione. Il rapporto tra informazione e dibattito, insomma, è divenuto antagonistico non complementare. Soltanto sottoponendo le nostre idee e i nostri progetti all’esame del dibattito, arriviamo a capire cosa sappiamo e cosa abbiamo ancora bisogno di imparare. Finché non dobbiamo difendere le nostre opinioni in pubblico, esse restano appunto delle opinioni, nel senso peggiorativo che al termine dava Lippman: delle convinzioni non ben definite, fondate su impressioni casuali e assunti arbitrari. è l’atto di articolare e difendere i nostri punti di vista che li eleva al di sopra della categoria delle “opinioni”, conferisce loro una forma e una definizione e permette agli altri di riconoscerle come espressione di un’esperienza che è anche la loro. In breve, noi comprendiamo i nostri punti di vista, spiegandoli agli altri.

«Il tentativo di convincere gli altri ad abbracciare le nostre convinzioni, naturalmente, comporta il rischio di finire per adottare, a nostra volta, le loro. Dobbiamo entrare con l’immaginazione negli argomenti dei nostri oppositori, se non altro allo scopo di confutarli, e possiamo finire per farci persuadere da coloro che cercavamo di convincere» (Lasch, 1995, 4). La discussione è rischiosa ed imprevedibile; ma in questo sta la democrazia. La discussione, in altri termini, non è solo preziosa per il consenso democratico, è indispensabile.

Una terza conclusione si collega con la cosiddetta «politica spettacolo». Essa ci sollecita a renderci conto del fatto che la sostituzione dell’esperienza diretta, e degli eventi che la costituiscono, con l’informazione simbolicamente mediata - o degli eventi reali con pseudo-eventi - non ha reso l’attività governativa più razionale ed efficiente, come sia i tecnocrati che i loro detrattori oggi presumono. Al contrario, ha prodotto una diffusa atmosfera di irrealtà che finisce col confondere gli stessi responsabili del potere decisionale. L’epidemia di inintelligibilità si propaga a tutti i livelli della compagine amministrativa. Non si tratta solo del fatto che i propagandisti restano vittime della loro stessa propaganda; il problema è grave. Quando i politici non hanno altro scopo che quello di vendere la loro leadership al pubblico, non hanno bisogno di standard intelligibili per definire gli obiettivi degli specifici indirizzi politici o per valutarne il successo o il fallimento (Lasch, 1992, 93).

Una quarta conclusione ci mostra come un’altra situazione di inintelligibilità e di smarrimento provenga dalla «censura democratica» delle informazioni. Questa, all’opposto della censura autocratica, non si fonda sulla soppressione o sui tagli, sull’amputazione o la proibizione di notizie, ma sull’accumulo, sulla saturazione, sull’eccesso, sulla sovrabbondanza delle informazioni. I danni provocati sui cittadini e sugli uomini politici sono evidenti. I primi sono letteralmente asfissiati, crollano sotto una valanga di dati che impediscono loro di orientarsi, di maturare dei giudizi, di fare delle scelte. I secondi sono schiacciati da una colluvie di rapporti, incartamenti, più o meno interessanti, che li mobilitano, li occupano, saturano il loro tempo, li distolgono dall’essenziale, rendendo difficile la presa di decisioni e a volte ritardandole.

Una quinta conclusione si connette, infine, con la differenza esistente tra tempo mediale e tempo politico. Una delle ragioni che spingono spesso i media a lasciarsi sedurre dalle menzogne sta appunto in tale contrasto. Il tempo politico, in regime democratico, deve essere lento, per consentire alle passioni di quietarsi. Non si ha soluzione democratica dei problemi, se al posto della ragione prevalgono le passioni. Il tempo mediale, invece, ha raggiunto il limite estremo della velocità: l’istantaneità. L’urto fra questi due momenti crea degli scarti che possono rivelarsi tanto più pericolosi quanto più delicate sono le questioni delle quali si tratta. La cosa appare più evidente se si riflette che l’elemento decisivo per valutare un’informazione non sembra essere la verità ma la rapidità con cui essa si diffonde, e la rapidità, che, ormai come s’è appena detto, tende a divenire istantaneità, in democrazia, è un criterio pericoloso (Ramonet, 1999, 75-77).

 

6. Per concludere

Se a quest’insieme di riflessioni si aggiunge la considerazione dei grossi nodi che insorgono ogni qual volta si tenta di progettare una democrazia di tipo cosmopolitico, ci si rafforza nella convinzione che la nuova comunicazione globale, nata dalla connessione dei settori tecnologici della telefonia, della telematica e dell’informatica - convenute e fuse nel multimediale e in Internet - ripropone sotto le sembianze della mondialità il vecchio problema di una democrazia internazionale, ovverosia, di un contratto politico fra più Stati rimasto perennemente insoluto.

Che, anzi, ci si trova costretti a riconoscere che, come denunciano Martufi e Vasapollo, con il dispiegamento del cyberspazio globale, nasce il rischio della strutturazione del potere (oltre che del sapere) per mano di una o più potenze egemoni, decise a mantenere le loro situazioni di predominio. Il fatto che la storica decisione di Bruxelles del 1995, quella di affidarsi al libero mercato, per favorire l’espansione delle autostrade informatiche, su suggerimento degli Stati Uniti, sia stata legittimata solo dal principio della competitività, deve essere un serio motivo di preoccupazione per gli uomini del ventunesimo secolo.

I quali, avvertiti sui rischi per la libertà e gli altri diritti fondamentali, provenienti da una «repubblica mercantile universale», devono prendere atto che l’unico luogo dove ancora si struttura in concreto una cittadinanza resta il territorio nazionale. E che un compito rilevante nel quale essi possono impegnarsi rimane, come suggeriva Fèlix Guattari poco prima della sua scomparsa, quello di «inventare un nuovo insieme di riferimenti per aprire la strada a una riappropriazione e a una riclassificazione simbolica degli strumenti di comunicazione e di informazione, al di fuori delle formule martellanti del marketing». Nel frattempo una cosa importante per il cittadino odierno è certamente quella di guardare ai livelli dove si decide l’architettura dei grandi sistemi di comunicazione con somma attenzione.