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Per la critica del capitalismo

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Ernesto Screpanti
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Professore, Università di Siena

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Ernesto Screpanti

 

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Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (II)

Ernesto Screpanti

Questo saggio viene presentato in due parti; la prima qui di seguito, mentre la seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero di Proteo

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Introduzione

Il paradigma dei diritti di proprietà, elaborato dai classici e da Marx per definire il capitalismo, domina ancora oggi il pensiero economico, non solo quello marxista, ma anche gran parte di quello neoclassico e istituzionalista. Secondo questo paradigma il capitalismo è un sistema economico in cui il controllo della produzione e dell’allocazione delle risorse sono assicurati dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. È una concezione che si è andata formando sulla base dell’osservazione del sistema economico inglese del primo ’800 e sembra strano che prevalga tuttora, nonostante il pionieristico lavoro di Berle e Means (1939) e il filone di ricerca da esso aperto. Sembra particolarmente strano che predomini anche nel pensiero marxista, visto che Marx è stato il primo economista ad aver teorizzato in modo rigoroso la tendenza alla crescente separazione tra proprietà e controllo (1964, III, capp. 23, 27). Eppure fenomeni come l’affermazione della public company, il capitalismo di stato, il capitalismo finanziario, la rivoluzione manageriale, la rivoluzione dei fondi pensione sono sotto gli occhi di tutti. E sebbene la proprietà privata dei mezzi di produzione sia sempre più diffusa nel capitalismo contemporaneo, esistono tuttavia diversi assetti istituzionali che sembrano aver tolto alla proprietà gran parte del suo potere di controllo nel processo produttivo, nell’allocazione delle risorse e nel governo dell’accumulazione.

La ricerca recente ha portato a chiarificare la natura del diritto di proprietà, ad esempio mostrando che esso può essere ridotto all’unione di due diversi diritti, quello al reddito residuale e quello al controllo residuale (Grossman e Hart, 1986; Hart e Moore, 1990). Il primo consiste nel diritto a percepire i redditi prodotti dall’uso dei mezzi di produzione in eccesso rispetto ai redditi fissati contrattualmente; il secondo consiste nel diritto a controllare i mezzi di produzione per gli usi che travalicano gli obblighi stabiliti contrattualmente. La tesi prevalente è che il diritto residuale di controllo assicuri il rapporto d’autorità che consente di piegare l’attività lavorativa alla produzione del profitto residuale. E tuttavia vari tipi di processi economici si sono affermati nel capitalismo contemporaneo - come la crescita delle mega-imprese globalizzate e la diffusione di investitori istituzionali che raccolgono il risparmio tra vasti strati della popolazione, anche operaia - che hanno contribuito a spingere a livelli mai visti prima il fenomeno della separazione tra proprietà e controllo, ovvero tra diritti al reddito residuale a diritti al controllo residuale.

L’osservazione di questi fenomeni pone al ricercatore due ordini di problemi teorici di grande rilevanza. Il primo riguarda la necessità di una definizione generale di capitalismo. È possibile inquadrare le diverse forme istituzionali di capitalismo affermatesi nella storia in un unico tipo ideale chiamato modo di produzione capitalistico? E se sì, qual è l’istituzione fondamentale del capitalismo, quella che è comune a tutte le forme istituzionali? Il secondo riguarda la definizione delle forme stesse. Come possono esser distinte le une dalle altre? Ed è possibile classificarle entro uno schema semplice e significativo che consenta di metterne in luce sia le differenze che somiglianze? [1]

Nella prima parte di questo saggio si tenterà una soluzione al primo problema, avanzando la tesi che l’istituzione fondamentale del capitalismo è il contratto di lavoro [2] e non la proprietà privata dei mezzi di produzione. La questione cruciale è che l’estrazione di un reddito residuale dall’uso dei mezzi di produzione presuppone il controllo del processo produttivo, ma la detenzione del controllo residuale dei mezzi di produzione non garantisce il controllo degli agenti economici che li usano. E le macchine da sole non producono niente. I lavoratori non possono essere diretti, comandati e sfruttati se non hanno assunto nei confronti del datore di lavoro un obbligo all’obbedienza. Questo obbligo però non è generato dai diritti di proprietà, bensì dal contratto di lavoro. Ne consegue che il controllo residuale sul processo produttivo può essere esercitato anche da soggetti economici che non detengono alcun diritto di proprietà sui mezzi di produzione, ma che tuttavia sono in grado di assicurare che il processo produttivo venga piegato alla produzione di un sovrappiù e che questo venga usato per sostenere l’accumulazione del capitale. Il che implica la seguente definizione provvisoria di capitalismo: un modo di produzione in cui si estrae plusvalore dall’uso del lavoro salariato e si impiega il plusvalore per alimentare l’accumulazione del capitale.

Nella seconda parte del saggio si affronterà l’altro problema, proponendo uno schema di classificazione delle diverse forme di capitalismo. Verranno introdotti i concetti di “regimi di proprietà” e di “strutture di governo dell’accumulazione”, e verrà mostrato che la funzione svolta dai primi nella distribuzione del plusvalore è separabile da quella svolta dalle seconde nella disciplina dell’attività d’investimento. La classificazione emergerà dall’individuazione dei modi in cui diversi tipi di regimi di proprietà possono combinarsi con diversi tipi di strutture di governo.

I. IL CONTRATTO DI LAVORO. Alcuni tipi di contratto che possono essere usati per mobilitare il lavoro

Si consideri un soggetto economico, B, che decide di intraprendere un’attività volta alla produzione di profitti e di coinvolgere a tal fine dei lavoratori, L. Si faranno per ora le seguenti ipotesi sullo stato del mondo. Tutti gli individui sono auto-interessati ma leali, e nessuno nasconde informazioni. Non è difficile raccogliere le informazioni rilevanti per effettuare i calcoli di convenienza e i calcoli stessi non sono troppo complicati. Tutti gli individui hanno lo stesso grado di avversione al rischio. Tutti gli accordi sono semplici e immediati. Non esistono costi di transazione. I mezzi di produzione e le abilità dei lavoratori non sono vincolati a una particolare produzione e in ogni momento possono essere disinvestiti senza perdita di valore, a parte il normale deprezzamento. Infine è in vigore il “principio di equivalenza”, un criterio di valutazione negli scambi in virtù del quale il prezzo di ogni merce coincide col valore attuale dei suoi rendimenti attesi e col costo sostenuto per produrla. Il problema è: che tipo di accordo proporre ai lavoratori per indurli a produrre profitti?

Prima di rispondere a questa domanda è necessario osservare che le ipotesi fatte non hanno alcun intento descrittivo. Servono a sostenere un ragionamento controfattuale. Sono state tolte tutte le condizioni che nella corrente letteratura neoistituzionalista vengono addotte a giustificazione del contratto di lavoro: razionalità limitata, incompletezza e asimmetria informativa, opportunismo, differenziazione sociale dell’avversione al rischio, costi di controllo, costi di transazione, specificità degli investimenti. Si vuole mostrare che anche in questo strano mondo c’è motivo per fare ricorso al contratto di lavoro, che nessuna di quelle condizioni particolari è necessaria per l’esistenza di tale tipo di contratto. Si spera così di portare alla luce la ratio del contratto di lavoro. Anche a tal fine è stato assunto un principio di equivalenza che nessuno ha mai visto in funzione nel mondo capitalistico, benché sia in funzione in gran parte della teoria economica moderna [3] essendo implicito nell’ipotesi di concorrenza perfetta. È proprio a tale livello di astrazione che si riesce a afferrare la vera natura del contratto di lavoro.

La quale si comprende bene facendo un confronto con altri tipi di transazione che possono essere usati per mobilitare il lavoro. Ne vengono considerati quattro: di società, di mandato, d’opera, di mezzadria.  [4] I due soggetti, B e L, stipulano un contratto al tempo to in vista dello svolgimento di un’attività produttiva che verrà completata al tempo t1. A L verrà pagato un reddito, w, la cui entità potrà essere definita al tempo to o al tempo t1. In cambio L svolgerà un’attività lavorativa, x, nel periodo del processo lavorativo, t1-to. I vari tipi di contratto si differenziano per diverse caratteristiche, e in particolare per l’oggetto scambiato, per il tempo in cui viene deciso w, per il tempo in cui viene decisa x, per il soggetto che decide x. Nella tabella 1 vengono mostrate schematicamente le caratteristiche principali dei cinque tipi di contratto.

Nel contratto di società due o più soggetti conferiscono beni o servizi per l’esercizio di un’attività economica in comune allo scopo di ripartirne i profitti. Esistono diversi tipi di società, ma qui, per lasciare il discorso più semplice possibile, si ipotizzerà che il capitale o è conferito da tutti i soci in parti uguali o è preso a prestito dalla società. In ogni caso si assume che tutti i soci conferiscano servizi del lavoro di uguale valore, cosicché gli utili, al netto degli interessi sul capitale, [5] verranno ripartiti in parti uguali. Non c’è nessuna differenza tra B e L. L’oggetto della transazione in questo tipo di contratto è l’insieme dei servizi del lavoro che i soci apporteranno nel processo produttivo. La misura del contributo lavorativo dei vari soci viene stabilita al momento della stipula del contratto, però gli specifici servizi prestati verranno decisi nel corso del ciclo produttivo, cioè nel periodo t1-to. Il potere decisionale spetta a tutti i soci e comunque, anche se uno di essi viene eletto direttore, la sua facoltà decisionale proviene dalla volontà dei soci. Infine il tempo in cui vengono decise le remunerazioni è t1, cioè il momento della chiusura del processo produttivo e della divisione degli utili. Questo tipo di contratto non può generare sovrappiù per nessuno se le quote dei redditi, al netto dell’interesse, coincidono con il valore dei servizi lavorativi. Ciò che accadrà se il valore aggiunto coincide con la somma degli interessi e del valore dei servizi apportati dai lavoratori.

Col contratto d’opera il soggetto L si impegna a compiere un servizio o un insieme di servizi per B senza vincolo di subordinazione. Si obbliga a fornire una specifica opera e non a prestare genericamente energia lavorativa. Il soggetto B, in questo caso, chiederà a ogni lavoratore di vendergli precisamente le prestazioni desiderate. I lavoratori accetteranno volentieri se i servizi del loro lavoro verranno remunerati equamente. La remunerazione viene stabilita al momento della stipulazione del contratto, to. Anche la natura dei servizi è definita al tempo to. Il modo in cui i servizi vengono prodotti, però, sarà un problema di L. Ciò che conta è che al termine stabilito questi sia in grado di consegnare il risultato della sua attività come concordato. Anche in questa caso accade che nessuno dei due soggetti potrà guadagnare un profitto. Per la precisione ciò accadrà se il valore del servizio prodotto è uguale al reddito pagato da B a L e quest’ultimo è uguale al costo sostenuto da L per produrlo.

Nel contratto di mandato il mandatario, L, si impegna a compiere degli atti per conto e nell’interesse del mandante, B. Il mandatario mantiene una completa autonomia decisionale. In questo caso i lavoratori lavoreranno autonomamente nell’impresa del signor B, prenderanno liberamente tutte le decisioni produttive. Ma lo faranno nell’interesse di lui. Questi, conoscendone la lealtà, non ha alcun dubbio sulla loro volontà di erogare lo sforzo e l’intelligenza necessari per raggiungere gli scopi loro preposti. I servizi lavorativi vengono decisi da loro nel corso del processo produttivo. I lavoratori saranno pagati equamente e i loro redditi saranno proporzionali al valore dei servizi erogati. Il loro compenso può essere definito al momento della stipulazione del contratto [6] e, vigendo il principio di equivalenza, coinciderà col valore dei servizi. I redditi residuali spettano a B, ma coincideranno con gli interessi sul capitale.


[1] Questi problemi sono stati affrontati anche in altri lavori (Screpanti , 1994; 1998; 1999a: 2001), ai quali si rinvia il lettore per approfondimenti.

[2] Marx aveva capito il ruolo svolto dal rapporto di lavoro nel creare le condizioni della produzione di plusvalore. Già nelle sue prime opere economiche aveva compreso che nel contratto di lavoro “l’operaio libero [...] vende se stesso, e pezzo a pezzo” (Marx, 1945, p. 19). Poi nel Capitale (1964, I, pp. 372-3) aveva chiarito che la direzione capitalistica nel processo lavorativo assume la forma di un dispotismo politico e che “l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l’ordine del generale sul campo di battaglia”, cosicché “agli operai salariati la connessione dei loro lavori si contrappone [...] come autorità del capitalista, come potenza di una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro volontà”. L’idea che il contratto di lavoro è una condizione istituzionale fondamentale dello sfruttamento capitalistico è stata sviluppata da Ellerman (1992) in un approccio giusnaturalista e da Screpanti (1994; 1998) in un approccio marxista.

[3] Il principio di equivalenza era presente anche nei classici inglesi e fu assunto perfino da Marx e Engels, che lo chiamavano “legge degli scambi” o “legge del valore”.

[4] Nell’usare tali concetti si farà uno sforzo di astrazione da ogni specifico sistema legale contemporaneo.

[5] Il saggio d’interesse è determinato politicamente e istituzionalmente. Dal punto di vista teorico può essere assunto come fissato ad un livello arbitrario e, volendo, può essere posto uguale a zero. Marx mantiene quest’ipotesi nei primi due volumi del Capitale e nelle prime quattro sezioni del terzo volume. Lo fa per isolare l’analisi dello sfruttamento nel processo produttivo dalle condizioni di circolazione del capitale monetario.

[6] Ma può essere anche deciso in parte al termine del ciclo produttivo, se una sua componente viene fatta dipendere dai risultati conseguiti. In questo caso però il contratto assume caratteristiche che lo assimilano a quello di mezzadria.