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3. Eurobang

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Il nuovo paradigma imprenditoriale nell’Europa del capitale. Il ruolo delle PMI

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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2. Sviluppo delle Piccole e Medie Imprese in Europa

1. Le piccole e medie imprese svolgono all’interno dell’Europa un ruolo fondamentale nell’offerta di prima occupazione in quanto sono molto importanti sia nella formazione sia nell’assorbimento di manodopera meno qualificata e più debole (donne, giovani, ecc.). Le PMI infatti assorbono il 70% circa dell’occupazione comunitaria (di cui 30% per imprese con meno di 10 addetti) e il 70% circa del fatturato dell’UE; inoltre forniscono un valore aggiunto tra il 65 e l’85% (calcolato per i paesi di cui si hanno a disposizione i dati). Per questo motivo la tendenza alla diminuzione sempre più accentuata del numero delle PMI in Europa è un altro tra i fattori che incidono nell’aumento della disoccupazione totale.

2. Va ricordato che non essendovi un criterio univoco di identificazione delle PMI per i paesi europei si è giunti ad accettare i canoni adottati dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI). In particolare vengono considerate Piccole e Medie Imprese le strutture che abbiano un numero di addetti inferiore a 500, una partecipazione al proprio capitale da parte di una grande impresa non superiore a un terzo ed infine un immobilizzo netto di capitale non superiore a 75 milioni di ECU.

Con questi criteri però si può giungere ad analisi errate in quanto i criteri per qualificare le PMI sono forse eccessivi. Ne è prova il fatto che con queste definizioni le PMI costituiscono il 95% circa del totale delle imprese nell’UE con un’occupazione pari al 75% nei servizi e al 60% nell’industria.

Nel 1991 si è cercato di rimediare a questa situazione con il “Documento di lavoro” sugli aiuti di Stato alle Piccole e Medie Industrie (stabilito dalla Comunità): in base a questo documento infatti per avere un aiuto le PMI devono soddisfare a questi criteri:

a) un fatturato non superiore a 20 milioni di ECU

b) un numero di addetti non superiore a 250

c) una partecipazione al proprio capitale non superiore ad un terzo da parte di una impresa di grandi dimensioni.

Ed ancora: per distinguere tra piccole e medie imprese si definisce piccola l’impresa che:

a) ha un fatturato non superiore a 5 milioni di ECU

b) ha meno di 50 addetti

c) è di proprietà di una grande impresa per non più di un terzo.

Va ricordato comunque che le PMI, pur riscontrando problemi nella complessità degli adempimenti amministrativi e giuridici e dalla difficoltà di ottenere finanziamenti, sono presenti in attività meno sensibili alla concorrenza internazionale, nel settore dei servizi e presentano un accentuato sviluppo in tecnologie innovative. Inoltre godono anche di una maggiore flessibilità, offrendo lavoro spesso ad alto contenuto di precarizzazione, grazie alla maggiore occupazione di giovani e donne e ad una migliore organizzazione interna.

Già dalle delibere in materia della Comunità Europea si è data una notevole importanza allo sviluppo delle piccole e medie imprese; il Consiglio dei Ministri della Comunità già sosteneva, infatti, che “Le piccole e medie imprese siano in grado di contribuire notevolmente al processo innovativo e che esse dovrebbero svolgere una funzione importante nell’attuazione delle azioni comunitarie di ricerca e sviluppo tecnologico, contribuendo così a migliorare la competitività dell’industria su basi più vaste; che pertanto si deve riservare una maggiore attenzione alle specifiche esigenze di tali imprese” [1].

Dal momento che le PMI rispetto alle grandi imprese incontrano problemi nella difficoltà di riconversione e modifica dei processi produttivi, difficoltà nell’accesso ai finanziamenti e limitate capacità imprenditoriali e manageriali, la Comunità Europea ha sempre previsto alcune agevolazioni per promuovere lo sviluppo delle PMI.

Tra gli strumenti finanziari più importanti, vi è il Fondo Sociale Europeo, che ha come scopo istituzionale quello di combattere la disoccupazione, promuovere le pari opportunità nel mercato del lavoro, favorire la creazione di nuovi posti di lavoro e rafforzare la formazione dei lavoratori. Vi è anche la Banca Europea per gli Investimenti che, nata nel 1958, è un ente finanziario che concede prestiti a lungo termine per promuovere lo sviluppo delle regioni meno favorite dell’Europa e lo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, dell’ambiente. La BEI concede, ad esempio, prestiti individuali di alto importo finanziario destinati a coprire fino a metà dell’importo dell’investimento, oppure prestiti globali con i quali ottengono il finanziamento le piccole e medie imprese.

Va inoltre ricordato che nel 1984 il Consiglio della Comunità ha stimolato i paesi membri ad adottare delle politiche attive per promuovere l’occupazione femminile nelle PMI. A questo proposito il Belgio nel 1987 ha promulgato una legge atta a favorire la parità di condizioni di occupazione fra i sessi nel settore privato e nel 1990 queste misure sono divenute obbligatorie anche nel settore pubblico. In Francia la legge del 1983 sull’uguaglianza professionale ha obbligato le imprese con più di 50 lavoratori di preparare un rapporto annuale sull’occupazione maschile e femminile in cui sia dichiarato lo stato di fatto in tema di assunzioni, formazione, carriera, lavoro, retribuzione del personale sia maschile sia femminile. In Spagna negli anni 1988-90 è stato approvato un piano di azione per le pari opportunità tra uomo e donna mentre in Germania è entrata in vigore da poco tempo la legge del 1994 sull’uguaglianza di partenza fra uomo e donna; lo scopo è quello di garantire un incremento della presenza femminile in tutti i gradi e in tutte le mansioni.

La legge sulle “Azioni positive per la realizzazione delle parità uomo-donna nel lavoro” (del 1991) ha raccolto nel nostro Paese la raccomandazione della Comunità del 1984; nel 1992 è stata approvata una nuova legge “Azioni positive per l’imprenditoria femminile” che ha lo scopo di realizzare le pari opportunità uomo-donna nell’imprenditoria.

3. Studi sulla presenza e la diffusione dell’imprenditorialità in Europa, in particolare per le PMI, evidenziano che il terziario risulta essere il settore nel quale si concentrano la maggior parte degli investimenti. Il tasso di investimento, ottenuto dal rapporto tra gli investimenti fissi lordi ai prezzi correnti e il Valore Aggiunto lordo ai prezzi di mercato, evidenzia che la percentuale del tasso di investimento più alto si trova nella branca dei prodotti energetici seguita dal settore agrario. I dati dell’occupazione mostrano che in media il terziario offre lavoro a circa il 60% dei lavoratori dell’UE; in Grecia e Portogallo invece a fronte di più bassi valori nel terziario vi è un’alta percentuale di lavoratori nel settore agricolo.

4. La Tabella seguente mostra la dimensione delle imprese (i dati si riferiscono al 31 dicembre 1996) ed evidenzia il fatto che i servizi rivestono un ruolo sempre maggiore nel sistema produttivo italiano.

3. Le tendenze della “demografia” d’impresa in Europa e i confronti con l’Italia

Dall’analisi precedente e da un’attenta lettura della realtà odierna, sia sociale sia aziendale, si individuano un nuovo ruolo e una diversa funzione delle dinamiche dello sviluppo che vanno relazionate alle connotazioni del soggetto imprenditoriale. La gestione dell’azienda in particolare in Europa, sempre avvenuta nell’interesse di pochi soggetti economici, sta portando sicuramente a forti processi di ridefinizione.

Il capitalismo europeo, nelle sue diverse componenti, spesso non è stato in grado di realizzare imprese con caratteristiche nuove, dotate di dinamismo, di autonomia, con facile accesso ai finanziamenti e soprattutto tali che non siano guidate da vertici ristretti, ma piuttosto da una varietà di soggetti economici.

Si può parlare di conseguenza di condizioni di omogeneità fra tipologia imprenditoriale e modello di capitalismo di tipo renano-europeo e quelli dell’assetto anglosassone.

I rapporti fra lavoratori e impresa stanno sempre più riguardando solo la responsabilità e la contrattazione aumentando ritmi, produttività e quindi lo sfruttamento dei lavoratori, continuamente utilizzati in funzione di forme diversificate di conflitto orizzontale finalizzato alle motivazioni, aspirazioni e compatibilità con gli obiettivi aziendali.

Tra le condizioni di omogeneità che comunque favoriscono la diffusione di un nuovo modello europeo sempre più vicino a quello statunitense-anglosassone va allora evidenziato il forzato incremento di produttività del lavoro dovuto al ruolo delle nuove tecnologie non più incorporate in grandi impianti (diffusione orizzontale), la crisi provocata dei mercati di prodotti standardizzati nonché l’abbassamento delle barriere all’entrata di nuove imprese.

L’impresa europea ormai si diffonde socialmente nel tessuto territoriale attraverso modalità innovative del ciclo produttivo e dell’accumulazione, quindi dello sfruttamento del lavoro, realizzando risultati economici e sociali positivi, come capacità di governo-controllo delle risorse e di tutte le variabili interne ed esterne.

2. Di seguito si riportano alcuni dati demografici dell’assetto d’impresa in Europa [2].

Nell’UE, sono presenti circa 17 milioni di imprese industriali e servizi [3], con circa 102 milioni d’addetti. I cinque più grandi paesi in termini di popolazione e di prodotto nazionale lordo [4] riuniscono intorno a loro l’80%, sia delle imprese sia degli addetti; l’Italia contribuisce con circa 3,5 milioni d’imprese, che occupano poco meno di 14 milioni d’addetti [5]. Il nostro Paese ha circa il 21% delle imprese e il 13% degli addetti nell’area comunitaria, con una dimensione aziendale nettamente più ridotta di quella prevalente dell’UE. In Italia è presente circa il 27% delle imprese industriali, il 18% di quelle delle costruzioni e il 21% delle imprese dei servizi dell’Unione; questi tre macrosettori, in termini d’addetti, costituiscono rispettivamente circa il 15%, il 13% e il 12% del totale dell’occupazione dell’area UE. La dimensione media delle imprese italiane è pari a circa quattro addetti e si confronta con valori pari a 11 per l’Olanda e l’Austria, 10 per il Lussemburgo e l’Irlanda, 9 per la Germania e la Svezia, 7 per la Francia, 6 per la Gran Bretagna, circa 5 per Spagna e Portogallo (la dimensione media per l’UE è di 6 addetti per impresa).

La dimensione media [6]delle imprese è più bassa nei paesi dell’Europa meridionale; per esempio la Grecia evidenzia un valore inferiore a quello italiano, con poco più di due addetti per impresa. Belgio, Danimarca, Francia, Finlandia e Regno Unito presentano una dimensione media delle imprese prossima alla media EUR-15, anche se le rispettive strutture economiche sono significativamente diverse tra loro.

Il sottodimensionamento relativo delle imprese industriali e dei servizi in Italia dipendono solo in parte dalla diversità tra le strutture produttive, essendo sistematicamente verificato in tutti i principali comparti d’attività economica. Ad esempio, la dimensione media dell’industria italiana pari a 9 addetti e quella dei servizi a quasi 3 addetti, contro rispettivamente, circa 16 e 5 addetti nella media dell’Unione Europea. Anche ad un livello settoriale più dettagliato, si verifica un netto sottodimensionamento delle imprese italiane nei confronti dell’area UE: in particolare, nelle imprese del comparto del legno e della carta, nella categoria delle altre industrie manifatturiere, nel commercio all’ingrosso e nei servizi alle imprese, la dimensione media delle imprese italiane è pari alla metà di quella UE. D’altra parte, la dimensione media delle imprese italiane è superiore a quella comunitaria nel caso dei prodotti energetici, nella fabbricazione d’autoveicoli, nella produzione e distribuzione d’energia elettrica, gas e acqua, nei trasporti e nei servizi postali e telecomunicazioni.

Il dato relativo alla concentrazione sintetizza le proporzioni esistenti, in ciascun settore, tra piccole e grandi imprese in termini d’assorbimento occupazionale. Analizzando la distribuzione degli addetti per classe dimensionale delle imprese, si registra una netta prevalenza occupazionale delle piccole imprese, ossia quelle con meno di 50 addetti.


[1] CEE, Filosofia comunitaria e prospettive, Bruxelles, 1995.

[2] Vi sono diversi tipi di indicatori che definiscono la “demografia” delle imprese come ad esempio il tasso di natalità, quello di mortalità, il tasso di sviluppo. Il tasso di natalità è dato dal rapporto tra le nuove imprese e lo stock di imprese esistenti, mentre il tasso di mortalità è dato dal rapporto tra il numero delle imprese morte e il totale delle imprese; il tasso di sviluppo delle imprese invece, è dato dalla differenza tra il tasso di natalità e il tasso di mortalità; vi sono poi gli indici di densità, di dimensione e la struttura sociale. L’indice di densità d’impresa è dato dal rapporto tra il numero di imprese e i chilometri quadrati dell’area geografica considerata; l’indice di dimensione è dato dal rapporto tra il numero di addetti e il numero delle imprese sempre riferiti ad una determinata area geografica o settore; infine la struttura sociale è data dal rapporto tra il numero delle imprese per area geografica e settore e la popolazione residente. Per questi indicatori cfr. Salvatori F. (a cura di), “Impresa e territorio, contributi ad una geografia dell’impresa italiana”; PATRON, Bologna, 1993.

Con il coefficiente di localizzazione imprenditoriale (Per il coefficiente di localizzazione cfr. Vasapollo L., “Sulla localizzazione della funzione imprenditoriale”, in Temi di attualità n.2 del Dipartimento di Contabilità Nazionale ed Analisi dei Processi Sociali, Università degli Studi “La Sapienza”, Roma, 1996.) si arriva poi alla misurazione, in un determinato tempo t, delle intensità della dotazione imprenditoriale di una determinata unità di territorio T. Attraverso questo coefficiente si può arrivare alla costruzione di “mappe” delle ripartizioni territoriali dell’Italia dotate più o meno di imprenditorialità. In questo modo è possibile distinguere i diversi bacini o aree in grado di generare o diffondere imprenditorialità.

[3] Dati omogenei relativi al 1998.

[4] Ci si riferisce a Germania, Spagna, Francia, Italia e Regno Unito.

[5] Dati omogenei relativi al 1996.

[6] Dimensione media = (numero di addetti / numero di imprese).