Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (I)
Ernesto Screpanti
La prima parte di questo articolo è stata presentata nel numero precedente di Proteo |
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Infine la crescita del movimento operaio tende a minare progressivamente
il funzionamento del vecchio tipo di “concorrenza” nel mercato del lavoro. La
pressione sindacale porta gradualmente alla legalizzazione di vari tipi di azione
e organizzazione operaia. Inoltre, l’azione politica - come quella organizzata
dal movimento cartista in Gran Bretagna e da vari tipi di partiti democratici
e socialisti in Europa e America - porta all’estensione del suffragio elettorale,
allo sviluppo di legislazioni di protezione del lavoro e alla crescita della
forza operaia. Il tempo di lavoro viene gradualmente ridotto, le condizioni
di lavoro migliorate. I salari vengono fissati attraverso la contrattazione
collettiva e tendono a crescere oltre il livello della sussistenza, almeno per
una parte consistente della classe operaia. Il mutuo soccorso, l’assistenza
pubblica e gli schemi pensionistici contribuiscono a migliorare le condizioni
di vita dei lavoratori, i quali sono messi in condizione di offrire una parte,
per quanto piccola, del risparmio nazionale.
8. Il capitalismo corporativo
Questa forma di capitalismo è basata su un regime di proprietà
privata diffusa. Le grandi corporation che subentrano alle piccole imprese
familiari sono costituite come società per azioni, hanno un azionariato molto
disperso e una struttura di controllo produttivo articolata nella forma di ampie
e complesse gerarchie organizzative. L’impresa non è più una cosa che appartiene
a una persona o a un gruppo di persone che detengono il controllo residuale,
ma è essa stessa un soggetto economico, cioè un’entità sociale dotata di personalità
giuridica e capace di entrare in rapporti contrattuali con tutti gli altri tipi
di agenti economici (Iwai, 1999). Gli imprenditori sono manager che, formalmente,
agiscono sia come agenti degli azionisti sia come funzionari dell’impresa. Il
loro obiettivo, nel primo ruolo, è il valore dell’impresa, nel secondo, la sua
crescita. In linea di principio non c’è contraddizione tra i due obiettivi,
poiché lo sviluppo è uno degli argomenti della funzione di valutazione dell’impresa
(Screpanti, 1999a; 2001, cap. 6). Tuttavia, come si mostrerà tra poco, una contraddizione
può sorgere a causa del modo in cui la struttura di governo dell’accumulazione
disciplina i manager.
I lavoratori, i quadri e i funzionari sono governati entro
gerarchie interne. I salari sono abbastanza alti da consentire ai lavoratori
di risparmiare un po’ del loro reddito e accumulare ricchezza. Così questi diventano
rentier e, direttamente o indirettamente, proprietari di una parte del capitale
delle imprese. Tuttavia, nella misura in cui i proprietari sono deprivati di
ogni capacità di controllo, i lavoratori restano dipendenti che lavorano sotto
il comando dei manager e come tali possono essere sfruttati.
La riproduzione sociale è sostenuta da tre condizioni. La prima,
che è la stessa che opera nel capitalismo classico, consiste nella non neutralità
delle tecniche. Il cambiamento tecnico è diretto dai manager e incorpora una
funzione di classe: il processo lavorativo è strutturato in modo tale da rendere
efficiente il comando dei manager sui lavoratori e inefficiente il controllo
operaio.
La seconda condizione consiste in una interazione particolare
tra la struttura di governo dell’accumulazione e il regime di proprietà. Il
capitalismo corporativo è istituzionalmente stabile soprattutto perché la sua
struttura di governo, dato un regime di proprietà diffusa, assegna il controllo
e la finanza a manager efficienti, mentre questi agiscono in modo da rinforzare
il regime di proprietà stesso. Lo fanno: 1) alimentando la crescita delle imprese,
cosicché diventa sempre più difficile esercitare il controllo proprietario unificando
le azioni nelle mani di pochi rentier; 2) sostenendo la crescita del
reddito tra tutte le classi sociali, cosicché la diffusione del risparmio e
della ricchezza spinge a una crescente diversificazione degli investimenti tra
i rentier; 3) lanciando e sostenendo progetti di azionariato operaio,
fondi pensioni e simili, cosicché aumenta ancor più la dispersione dell’azionariato.
In questo modo la struttura di governo dell’accumulazione e il regime di proprietà
si sostengono l’un l’altro.
La terza condizione consiste in una specie di razionamento
di classe del credito (Graziani, 1989; Bowles e Gintis, 1996). Le banche e i
mercati finanziari prestano moneta per fare profitti, ma tenendo sotto controllo
il rischio. Perciò tendono a privilegiare debitori che: 1) sono dotati di sostanziose
ricchezze da offrire a garanzia dei prestiti; 2) propongono progetti d’investimento
che sono molto profittevoli e relativamente poco rischiosi; 3) hanno una reputazione
di abilità manageriale. I manager delle imprese esistenti sono normalmente dotati
di queste tre qualità, i lavoratori no. Così i primi godono di un facile ed
economico accesso al credito. Non i secondi. Il che contribuisce a stabilizzare
la struttura di classe.
Ci sono due tipi di capitalismo corporativo, uno orientato
al mercato e uno orientato alle banche, uno che combina il regime di proprietà
diffusa con una struttura di governo basata sui mercati delle imprese e uno
che la combina con una struttura di governo basata sul controllo bancario.
Nel capitalismo corporativo orientato al mercato gli
speculatori finanziari svolgono un ruolo molto importante, in quanto si specializzano
nella raccolta e l’elaborazione delle informazioni sulle performance aziendali,
in altri termini nella valutazione delle imprese. I mercati finanziari godono
di un alto grado di efficienza informativa “debole” nel senso di Fama, cosicché
le valutazioni degli speculatori si riflettono immediatamente nei valori di
mercato delle imprese. Perciò le imprese efficienti, oltre a godere di crescenti
flussi di cassa propri, sono premiate con alte valutazioni di mercato e non
hanno difficoltà a raccogliere finanza esterna con emissione di azioni e obbligazioni.
Un’altra categoria di operatori che svolge una importante funzione
di governo è quella degli scalatori, i quali sono specializzati nella valutazione
del divario tra la profittabilità potenziale e quella effettiva, in altri termini
dell’efficienza dell’azione dei manager. Quando questo divario è percepito come
positivo, cioè quando il valore di mercato dell’impresa è considerato inferiore
ai valori fondamentali, i manager sono giudicati inefficienti. Allora scatta
la scalata. Gli scalatori cercano di riunificare la proprietà e ritrasformare
l’impresa in una cosa (Iwai, 1999). Una volta acquisito il controllo, essi cercano
di realizzare il pieno potenziale del valore d’impresa smembrandola o licenziando
i manager (Milgorm e Roberts, 1992; Barca, 1994a; 1994b). Questo processo funziona
sia come strumento disciplinare che come meccanismo selettivo. I manager infatti
devono continuamente fronteggiare il rischio di scalata. Se sono efficienti,
sono premiati non solo con lo sviluppo e la disponibilità di finanza esterna,
ma anche con un potere crescente (apportato dallo sviluppo), un buona reputazione
e un alto prestigio (apportati dallo sviluppo e dalla valutazione di mercato),
la sicurezza del loro posto (assicurata da una valutazione a prova di scalata)
e alte paghe (che sono spesso legate al valore di mercato). Se sono inefficienti,
il mercato mette a rischio la loro paga, il potere, il prestigio, la reputazione
e, soprattutto, il loro posto di lavoro.
I principali difetti di questo tipo di struttura di governo
sono noti. Il valore di mercato delle imprese è fortemente influenzato dalle
aspettative degli speculatori. Ma questi, che solitamente hanno una buona esperienza
nella gestione di portafoglio e nel trading, non sono insider delle
imprese e non hanno informazioni migliori di quelle dei manager sulle prospettive
di profittabilità e di crescita, specialmente la profittabilità e la crescita
di lungo periodo. Perciò formano le proprie aspettative sulla base di variabili
informative di breve periodo, profittabilità immediata, pagamento dei dividendi,
bilanci, rapporti price-earning e simili. Questo fenomeno è responsabile
del cosiddetto shortermism dei manager, cioè della loro predisposizione
ad adeguarsi alle aspettative degli speculatori privilegiando obiettivi di breve
termine a detrimento degli investimenti più innovativi e rischiosi e delle prospettive
di crescita di lungo periodo (Stein, 1989; Zeckhauser e Pound, 1990; Bresnahan,
Milgrom e Paul, 1991). Inoltre, poiché gli speculatori hanno un orizzonte di
breve periodo, essi non sono nemmeno interessati alla formazione di aspettative
a lungo termine, e spesso concentrano la propria attenzione nella stima delle
aspettative degli altri speculatori piuttosto che nella valutazione dei fondamentali.
Il che immette volatilità nei valori di mercato. Di conseguenza il capitalismo
corporativo orientato al mercato, benché sia istituzionalmente stabile, esibisce
una certa fragilità finanziaria e una tendenza all’instabilità dinamica. Bolle
speculative e crash di borsa spesso producono effetti che travalicano
i mercati finanziari e colpiscono l’economia reale, in tal modo intensificando
la ciclicità dello sviluppo.
Il capitalismo corporativo orientato alle banche differisce
da quello orientato al mercato in quanto funziona con una struttura di governo
basata sulle gerarchie esterne. Pacchetti di controllo, anche minoritari, vengono
usati per formare delle “coalizioni” piramidali di imprese guidate dalle banche.
Una “banca principale” domina una coalizione usando un insieme variegato di
strumenti, oltre al controllo azionario: le deleghe di voti dei suoi clienti,
il potere esercitato nell’assistenza alle operazioni di aumento di capitale
ed emissione di obbligazioni, l’influenza dei suoi membri nei consigli di amministrazione
(o gli Aufsichtsrat), lo scambio e il prestito di deleghe con altre banche
e simili. Le banche hanno rapporti di clientela, monitoraggio e supervisione
con le imprese sottoposte, e sono capaci di raccogliere attendibili informazioni
sulle performance dei loro manager, le opportunità d’investimento e le prospettive
di crescita. In altre parole sono insider e, in quanto tali, sono meglio
equipaggiate degli speculatori e degli scalatori per valutare i fondamentali
e il potenziale di sviluppo di lungo periodo. Il management di una banca principale
esercita un notevole potere di controllo sui manager delle imprese sottoposte,
fino al punto di poterli licenziare, e tuttavia gli concede normalmente ampia
autonomia decisionale e si limita per lo più a valutarne e disciplinarne l’efficienza
nella performance di lungo periodo.
Una gerarchia esterna è in grado di assolvere a tutte e tre
le funzioni di una struttura di governo. Quella finanziaria opera attraverso
l’assegnazione selettiva del credito e l’assistenza negli aumenti di capitale.
Le banche sono interessate alla profittabilità di lungo periodo dei loro investimenti.
Perciò usano le loro informazioni interne per canalizzare i flussi di finanza
alle imprese efficienti, innovative e dinamiche, mentre tendono a razionare
il credito a quelle inefficienti e molto rischiose. In questo modo la finanza
contribuisce a sostenere l’accumulazione del capitale. Le funzioni disciplinare
e selettiva operano non solo attraverso l’assegnazione differenziale del potere,
delle paghe e del prestigio assicurata dai differenziali di sviluppo, ma anche
attraverso un sistema di promozioni e rimozioni dei manager tra le imprese controllate.
Il capitalismo corporativo orientato alle banche ha molti vantaggi
rispetto a quello orientato al mercato, il più importante dei quali è che protegge
i manager dall’influenza degli speculatori miopi, evitando in tal modo lo shortermism,
e inducendoli a concentrare i propri sforzi sullo sviluppo di lungo periodo.
Inoltre, controllando i flussi di credito, le banche contribuiscono anche a
ridurre la fragilità finanziaria del sistema. Infine, dato che le disponibilità
finanziarie non sono condizionate dalla volatilità causata dalla speculazione,
anche l’instabilità dinamica è fortemente ridotta. La stabilità istituzionale,
d’altra parte, è rinforzata dalla capacità delle banche di tenere sotto controllo
la struttura proprietaria delle imprese soprattutto per quanto riguarda le scalate
ostili.
Ci sono segni che inducono a pensare che le due strutture di
governo, quella orientata al mercato e quella orientata alle banche, tendano
a integrarsi nel capitalismo contemporaneo. Ciò è suggerito, ad esempio, dalla
tendenza a rinforzare e sviluppare i mercati della corporate governance
nel sistema giapponese e in quello tedesco, da una parte e, dall’altra, dalla
tendenza degli investitori istituzionali, soprattutto i fondi pensione, a svolgere
un ruolo più attivo nel controllo delle grandi imprese nel sistema anglo-sassone.
Potrebbe così accadere che gli sviluppi futuri del capitalismo portino alla
formazione di un nuovo sistema di governo dell’accumulazione che combini gli
aspetti migliori degli altri due. Ma è ancora presto per poter teorizzare un
nuovo modello di forma capitalistica.
9.Il capitalismo di Stato
In un sistema a capitalismo di stato la proprietà privata è
abolita o ridotta a un’istituzione spuria e marginale. Il capitale produttivo
è proprietà pubblica. Poiché lo stato “esprime la volontà e gli interessi degli
operai, dei contadini e degli intellettuali, dei lavoratori di tutte le nazioni
e i gruppi etnici del paese”(URSS, 1978, art.1) [1], la proprietà dei mezzi di produzione
assume la forma di “proprietà statale (di tutto il popolo)” (art.10). “La proprietà
statale è patrimonio comune di tutto il popolo” (art. 11). Perciò (quasi) tutti
i cittadini sono lavoratori dipendenti dallo stato. Essi hanno “il diritto di
scegliere la professione, il genere d’occupazione e il lavoro in conformità
della vocazione, della capacità, della preparazione professionale e dell’istruzione”
(art. 40). Ma hanno anche un dovere al “rigoroso rispetto della disciplina del
lavoro” (art. 60). Il datore di lavoro, d’altra parte, cioè “lo Stato, esercita
il controllo della misura del lavoro” (art. 14) e, “combinando gli incentivi
materiali e morali” (art. 14), “assicura l’incremento della produttività del
lavoro, l’aumento dell’efficienza della produzione e il miglioramento della
qualità del lavoro” (art. 15). I salari non sono fissati attraverso il mercato
o la negoziazione, ma sono determinati dallo “stato, basandosi sull’aumento
della produttività del lavoro” (art. 23).
Evidentemente una prima condizione perché si tratti di un sistema
capitalistico è assicurata: il rapporto di lavoro è l’istituzione fondamentale
che regola l’utilizzazione del lavoro. Ma anche una seconda condizione è assicurata:
la libertà contrattuale è riconosciuta a tutti i cittadini-lavoratori.
Tuttavia perché si tratti di un sistema capitalistico vero
e proprio si deve verificare un’altra condizione: il comando del lavoro nel
processo produttivo deve essere finalizzato all’estrazione di un plusvalore
da usare per sostenere l’accumulazione del capitale. E in effetti lo stato “assicura
l’aumento della produttività del lavoro” in forza dell’autorità che esercita
nel processo produttivo. Esso inoltre ha “la direzione dell’economia”, che attua
“sulla base dei piani statali di sviluppo economico [...] combinando la gestione
centralizzata con l’autonomia economica e l’iniziativa delle aziende [...] A tal
fine fa attivo uso del calcolo economico, del profitto, dei costi di produzione,
di altre leve e stimoli economici” (art. 16). L’obiettivo economico principale
dell’azione statale è “l’aumento della ricchezza sociale” (art. 14) ovvero,
per essere precisi, “lo sviluppo dinamico, pianificato e proporzionale dell’economia”
(art. 15), in altre parole, l’accumulazione bilanciata del capitale.
La struttura di governo dell’accumulazione è basata su gerarchie
interne ed esterne che possono esser combinate in vari modi. Ad una estremità
c’è la possibilità di concedere un’ampia autonomia ai manager delle imprese
di stato, che possono essere dotati di estese prerogative di comando sul processo
lavorativo e sulle decisioni d’investimento, ma anche sul processo di mercato,
potendo fissare i prezzi dei propri prodotti e scambiarli liberamente nei mercati
delle merci. Lo stato si occupa dello sviluppo e dell’efficienza complessivi
monitorando i manager, assegnandogli eventualmente norme di prezzo o quantità,
assistendoli finanziariamente, imponendogli vincoli di bilancio e orientandoli
con la pianificazione indicativa e/o negoziata. Le imprese possono essere legate
le une alle altre e allo stato attraverso varie forme di gerarchie esterne,
anche di natura finanziaria. Questo è il modello del capitalismo di stato
decentralizzato. Ad esso sembra approssimarsi la Cina d’oggi.
All’altro estremo c’è la possibilità di una completa internalizzazione
della gerarchia, con l’economia nazionale ridotta a una singola immensa impresa
e i manager locali ristretti al ruolo di direttori di divisione privi di ogni
vera capacità decisionale sui processi di produzione, d’investimento e di mercato.
In questo caso solo i beni finali sono venduti sul mercato, mentre i beni d’investimento
sono scambiati a prezzi amministrati in uno spazio economico di pseudo-mercati
interni. La finanza affluisce attraverso i canali gerarchici nel processo di
esecuzione delle decisioni centralizzate. Questo è il modello del capitalismo
di stato centralizzato. È stato approssimato storicamente dall’Unione Sovietica
staliniana. In entrambi i modelli, comunque, quello centralizzato e quello decentralizzato,
le funzioni selettive e disciplinari sono svolte attraverso la struttura gerarchica
del potere e delle remunerazioni, in un modo non dissimile da quello vigente
nelle strutture di governo del capitalismo corporativo orientato alla banca.
Insomma, se si guarda all’istituzione fondamentale che regola
l’utilizzazione del lavoro e alla struttura di governo dell’accumulazione, il
capitalismo di stato è una forma di capitalismo perfettamente definita.
Certo ci sono ancora alcuni che credono che una tale sistema
cesserebbe di essere capitalista e diventerebbe socialista se il controllo dello
stato, cioè del proprietario dei mezzi di produzione, fosse affidato al partito
dei lavoratori. Ma sembra legittimo avere dei dubbi a tale proposito. Tanto
per cominciare, se persiste una divisione del lavoro fondamentale tra una classe
lavoratrice che ha l’obbligo del “rigoroso rispetto della disciplina del lavoro”
e una classe politica specializzata nell’attività “amministrativa”, e se vengono
perpetuate alcune forme di disuguaglianza basilari nella distribuzione dell’informazione,
della conoscenza, della competenza politica, del reddito ecc., [2]
difficilmente si può credere che i produttori siano in grado di controllare
la produzione o anche soltanto il “partito dei produttori”.
[1] Tutte le citazioni che compaiono
in questo paragrafo sono tratte dalla Costituzione dell’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche del 1977 (URSS, 1978).
[2] Sul ruolo svolto
da queste forme di asimmetria nell’assicurare la riproduzione di un sistema
di potere e sfruttamento di classe si rinvia a Screpanti (2001, capp. 2, 3).