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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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Anche il secondo candidato è una categoria, quella delle macchine. Ma se le macchine producessero valore, quanto più macchine tanto più il valore prodotto. Al limite, un’economia completamente automatizzata sarebbe quella più produttiva di valore. Ma ciò è incompatibile con una economia capitalistica che è basata sull’esistenza dei proprietari delle macchine (mezzi di produzione) e dei lavoratori, coloro che vendono la loro forza lavoro ai proprietari delle macchine. Dato che il valore è anche il potere d’acquisto della moneta, se i lavoratori dovessero sparire sparirebbe anche il valore e il loro potere d’acquisto: i proprietari dei mezzi di produzione, a chi potrebbero vendere i loro prodotti? Potrebbero venderli l’uno all’altro. Ma in questo caso non vi sarebbero né lavoratori né sfruttamento; non si avrebbe una società capitalistica. Ne consegue che più le macchine rimpiazzano i lavoratori, minore (e non maggiore) è il valore prodotto.

Non rimane che il lavoro. Una volta fatta la distinzione basilare tra lavoro concreto e astratto, ne consegue che solo il lavoro astratto può essere (la sostanza del) valore. A questo punto due obiezioni possono essere sollevate. Primo, “è un pregiudizio supporre che il valore debba essere creato” (Cohen, 1981, p.214, traduzione mia, G.C.). “Ovviamente, i lavoratori creano qualcosa. Essi creano il prodotto. Essi non creano valore, ma creano quello che ha valore” (op.cit., p.218, traduzione mia, G.C.). In questa caso, il lavoro non può essere la sola sostanza del valore (come dimostrato più sopra) perché, in prima istanza, non è la sostanza del valore. Il contro-argomento è come segue. Primo, senza una nozione di valore come lavoro incorporato, non vi può essere una teoria dei prezzi, della distribuzione. Sarà dimostrato più avanti che tutte le teorie dei prezzi che non si basano su una ridistribuzione del valore (lavoro) contenuto nelle merci sono logicamente invalide. E, senza una teoria dei prezzi, non vi può essere una teoria della produzione. Quindi, il concetto di lavoro come sostanza del valore è una scelta necessaria, logica, se vogliamo teorizzare la produzione e la distribuzione. Secondo, se si accetta la nozione di lavoro contenuto, si deve anche accettare allo stesso tempo la nozione che il valore è creato. Che il valore “deve essere creato” è lungi dall’essere un pregiudizio. Si noti che la scelta del lavoro umano come (la sostanza del) valore non è solo l’unica scelta logica. È anche un punto di vista di classe: sono i lavoratori che vogliono sapere chi lavora per chi (cioè chi è sfruttato da chi) nel capitalismo. Quindi, la scelta del lavoro come la sostanza del valore, questo punto di vista di classe e non un altro, si rivela essere l’unico logico.

Possiamo ora fare tre commenti. Primo, anche se non potesse essere provata, la nozione che il lavoro è (la sostanza del) valore non sarebbe un pregiudizio ma sarebbe determinata dal punto di vista di classe, un punto di partenza dell’indagine perfettamente legittimo. Ma supponiamo per un istante che tale nozione non possa essere provata e che sia un pregiudizio. Cohen può solo ‘provare’ (ma si veda la nota 10 precedente) che la teoria del valore lavoro è sbagliata e quindi che anche l’asserzione che ‘il valore è creato’ è sbagliata. Cohen non prova che il valore (1) esiste (2) senza essere creato, indipendentemente da se la teoria del valore lavoro sia giusta o sbagliata. Quindi, incominciare dalla nozione infondata che il valore esiste e non è creato, è ugualmente un pregiudizio, o più propriamente, è un diverso punto di vista determinato dalla classe, un punto di vista determinato da una diversa classe. Secondo, che i lavoratori ‘non creano valore ma ciò che ha valore’ è un altro modo per sostenere che i lavoratori creano i valori d’uso senza creare il valore: “Qualsiasi cosa possa essere responsabile per la grandezza del valore, il lavoratore non riceve tutto il valore del suo prodotto” (op.cit., p. 222). Lo sfruttamento è così definito in termini d’appropriazione di valori d’uso. La sezione 5 dimostrerà che ciò conduce a conclusioni assurde. Terzo, “Qualsiasi cosa” dà l’impressione sbagliata che vi siano molte spiegazioni possibili di che cos’è il valore. Ma in effetti vi è solo un candidato (non a caso questo è l’unico menzionato da Cohen): il ‘desiderio’, (op.cit.,p.220), cioè la domanda. La sezione 5 dimostrerà che la teoria dei prezzi basata sulla domanda e l’offerta non è logicamente difendibile.

La seconda obiezione alla tesi marxiana è che, anche se il lavoro astratto è la sostanza del valore, non vi è alcuna ragione di misurare il valore in termini di lavoro astratto (tempo). Per Reuten, “la tesi che il valore di un bene ha la sua origine nella quantità di tempo di lavoro speso per esso è una tesi sensata, che sia vera o falsa. Però volere anche misurare quel valore in termini di tempo di lavoro sembra una cosa dubbia o perlomeno non ovvia” (1999, p.94, traduzione mia, G.C.). Mi sembra che questa contraddizione sia artificiale. La scelta del lavoro (astratto) come la sorgente del valore implica necessariamente che si scelga il lavoro astratto anche come unità di misura del valore. Se si sceglie l’utilità come la sorgente del valore, si deve misurare il valore in termini di utilità. Ma suggerire che “si potrebbe considerare l’utilità come la sorgente del valore e ciononostante misurare il valore in termini di tempo di lavoro” (p.94) non ha senso. Infatti, in questo caso non vi sarebbe alcuna connessione logica tra ciò che deve essere quantificato (utilità) e ciò che lo quantifica (tempo di lavoro) cosicché il tempo di lavoro sarebbe inutile come misura dell’utilità. Non vi è alcuna confusione (in Marx) tra la sorgente e la misura del valore.  [1]

Il fatto che il lavoro è la sola sostanza del valore è di per sé insufficiente per dimostrare che solo il lavoro dei lavoratori crea valore e quindi plusvalore, cioè che essi sono sfruttati dai capitalisti/manager. La letteratura imprenditoriale, nella misura in cui tratta del valore, sostiene che i capitalisti/manager creano valore proprio come fanno i lavoratori, cioè che non vi è sfruttamento. Quello che rimane da dimostrare è che solo i lavoratori producono valore. Tuttavia, tale dimostrazione non può essere quella proposta nell’ambito dell’ipotesi dei ‘profitti nulli’. Il ragionamento è come segue. Ipotizziamo un’economia capitalistica in cui tutti i profitti sono nulli. In tal caso, in termini della tabella 1 precedente, i lavoratori nel settore 1 dovrebbero essere pagati un valore di 40 e nel settore 2 un valore di 80. Tutto il plusvalore andrebbe ai lavoratori e le merci sarebbero vendute al loro valore. In un’economia capitalistica le merci non sono vendute al loro valore: quindi vi è sfruttamento. Ma questo ragionamento non prova nulla. ‘Dimostra’ che se tutto il nuovo valore andasse ai lavoratori non vi sarebbe plusvalore e quindi non vi sarebbero profitti; e che se una parte del nuovo valore andasse al capitalista vi sarebbe plusvalore e quindi vi sarebbero profitti. Ciò non è altro che una ripetizione del concetto di plusvalore.

In un testo metodologicamente molto ricco, ‘Il metodo dell’economia politica’ nei Grundrisse (1973, pp.100 e seguenti), Marx traccia il processo della produzione concettuale. Essa incomincia con l’osservazione, “una concezione caotica del tutto”, si muove “analiticamente verso concetti sempre più semplici”, fino a quando si arriva a quelle che Marx chiama “le determinazioni più semplici”. Le determinazioni più semplici sono per Marx quei concetti che contengono in nuce, potenzialmente, tutte le altre contraddizioni. Queste determinazioni più semplici non sono raggiunte estraendo un’essenza a-storica dalla realtà sociale ma, al contrario, focalizzandosi sulle differenze essenziali, condensando in esse ciò che è storicamente specifico. Ed è a causa di questa loro natura ‘compressa’ che esse possono servire come punto di partenza per una descrizione sempre più complessa della realtà, sviluppando sempre di più le contraddizioni in esse già contenute (Carchedi, 1973, p.7). [2]

Ora, un’economia capitalistica in cui i profitti sono nulli per definizione, e non in un momento storico particolarmente sfavorevole, come un evento a-tipico, non è un’economia capitalistica per la semplice ragione che non vi sono capitalisti. Quindi non può servire come punto di partenza per dimostrare l’esistenza del plusvalore nel capitalismo. Non è un’astrazione storicamente specifica, non è nemmeno un’astrazione a-storica (che astrae dalle specificità storiche come il ‘lavoro’ in tutte le società). Soprattutto, non è una contraddizione dialettica, non è un concetto di una contraddizione che esiste nella realtà che contiene in se stessa la possibilità di superare se stessa. È una contraddizione logica, un concetto di qualcosa che non esiste, che non è mai esistito e che non potrebbe esistere nella realtà. È un errore logico. Quindi ogni prova dimostrata su questa base non può che essere fallace. Se chiedo “perché c’è sfruttamento in un’economia capitalistica?” la risposta non può essere “ perché non c’è sfruttamento in un’economia non capitalistica”. La risposta non spiega perché c’è sfruttamento nel capitalismo; nel migliore dei casi spiega perché non c’è sfruttamento in un sistema diverso. Nel caso specifico di un’economia capitalista con profitti nulli, non spiega nemmeno questo, dato che il sistema concettuale è un errore logico. Per spiegare lo sfruttamento nel capitalismo, bisogna prendere come punto di partenza un’economia capitalistica (piuttosto che un’economia non capitalista) e incominciare dalla specificità storica dello sfruttamento nel capitalismo. L’unico modo per fare ciò è, primo, dimostrare che solo il lavoro crea valore (cosa che è appena stata fatta) e poi dimostrare che solo il lavoro dei lavoratori (piuttosto che anche quello dei capitalisti/managers) produce plusvalore. Affrontiamo quindi questo secondo punto.

La letteratura economica sostiene che i capitalisti/entrepreneur creano quella parte di valore che prende la forma di profitto, cioè che essi non si appropriano di una parte del valore prodotto dai lavoratori. E che quindi non vi è sfruttamento. Anche qui la prova che ciò è falso sarà per esclusione, cioè inficiando gli argomenti che negano lo sfruttamento. Primo, si ipotizza che gli entrepreneur siano ricompensati perché si astengono dal consumo (per esempio, gli interessi sul capitale risparmiato). Il contro-argomento è che l’astinenza non può creare valore dato che è impossibile creare qualcosa (valore) astenendosi dal suo consumo. Secondo, si propone che gli entrepreneur siano retribuiti perché vendono i loro prodotti. Ma la vendita non può creare valore. Questo è stato dimostrato più sopra considerando due soggetti economici che vendono e comprano reciprocamente la stessa merce. Tanto più ricco diventa uno, tanto più povero l’altro. Non un atomo di nuovo valore è aggiunto alla ricchezza totale dalle loro transazioni. Terzo, si asserisce che gli entrepreneur sono ricompensati perché corrono rischi. Anche qui tale comportamento non ha alcun effetto sul valore delle merci prodotte. Indipendentemente da se il correre rischi debba essere ricompensato o no, la ricompensa deve essere stata prodotta da qualcun altro.

Quarto, gli entrepreneur sono ricompensati per svolgere la funzione manageriale. Quest’argomento è più serio. Prima di affrontarlo, dobbiamo fare un’importante distinzione. Abbiamo visto che il processo produttivo produce sia valori d’uso che valore, i due aspetti delle merci. Dato che i lavoratori non producono per se stessi ma per i capitalisti, tutta una serie di metodi, che vanno dalla più bruta coercizione alle forme più sottili di persuasione, passando attraverso una politica dei salari progettata deliberatamente per incentivare e/o dividere la forza lavoro, è ideata e messa in opera sia dagli entrepreneur stessi che da coloro a cui questa funzione è stata delegata. Così, la tipica funzione dei capitalisti, come agenti del capitale, è quella di controllare e disciplinare il lavoro. Questa è chiamata da Marx nel terzo volume del Capitale la funzione del capitale e questo aspetto del processo di produzione è chiamato il processo produttivo di plusvalore. I lavoratori, d’altra parte, eseguono la funzione del lavoro. Questo significa che essi trattano i valori d’uso sia trasformandoli (e questi sono i lavoratori produttivi, cioè produttivi di valore e plusvalore) o no (e questi sono i lavoratori improduttivi, come nelle attività commerciali). Essi eseguono l’altro aspetto del processo di produzione, il processo lavorativo (il processo che tratta i valori d’uso sia trasformandoli, come nella produzione, o no, come nello scambio). In breve, per Marx, il processo capitalistico di produzione è la combinazione del processo lavorativo e del processo produttivo di plusvalore.

Questo ci permette di concettualizzare la funzione manageriale. Essa comprende sia soltanto la funzione del capitale che una combinazione della funzione del capitale e di aspetti della funzione del lavoro, come per esempio il lavoro di coordinamento e unificazione del processo lavorativo (che include la combinazione dei fattori di produzione). La funzione manageriale è svolta non solo dai capitalisti ma anche da tutti coloro a cui tale funzione è stata delegata: dai massimi direttori, attraverso vari strati di manager, giù fino ai ‘capetti’. Coloro che controllano, nella misura in cui svolgono questa funzione, non partecipano alla trasformazione dei valori d’uso (e quindi non possono creare valore) e neppure trattano i valori d’uso senza cambiarli (come nelle attività commerciali). Piuttosto, essi forzano/persuadono altri a svolgere la funzione del lavoro o la funzione del capitale. Messo nei termini più semplici, se una persona deve forzare/convincere altri a trasformare valori d’uso, essa non potrà partecipare a quella trasformazione. Quindi, i capitalisti e tutti coloro che svolgono la funzione del capitale creano valore solo nella misura in cui essi svolgono la funzione del lavoro e non la funzione del capitale. Ma in questo caso, e solo nella misura in cui essi svolgono la funzione del lavoro, essi non sono i capitalisti o i loro agenti. Nella misura in cui essi eseguono la funzione del capitale, essi non possono creare valore. Se non creano valore, devono espropriare e appropriare, sotto la forma del profitto, una parte del valore creato dai lavoratori. Lo fanno forzando i lavoratori, direttamente o indirettamente, usando la coercizione o la persuasione, a lavorare più a lungo del tempo necessario per produrre i beni salario dei lavoratori, cioè a fornire plus lavoro. La nozione che i capitalisti, i managers e tutto l’apparato burocratico al loro servizio creino valore si basa sulla mancata distinzione tra queste due funzioni. [3]


[1] È Reuten che confonde le carte. Ciò deriva dalla sua convinzione che il lavoro contenuto non può essere misurato. Quindi solo il denaro, e non il lavoro astratto, può essere la misura del valore. Questo è in linea con l’approccio della ‘forma valore’ che sarà discusso nella sezione 6. Là, si dimostrerà che il denaro non può essere la misura del valore nell’assenza di una nozione di lavoro contenuto.

[2] Mi sembra che Cavallaro (2000) interpreti erroneamente i Grundrisse. “Ciò che è complesso non si può mai dedurre dal più semplice” (p.35). Questo è esattamente l’opposto di quello che dice Marx e serve a negare che sia possibile derivare i prezzi di produzione (la forma più complessa del valore) dal valore contenuto (la sua forma più semplice). Cioè ha la funzione di accettare la critica della procedura della trasformazione di Marx.

[3] Alcune funzioni possono comprendere entrambi gli aspetti della funzione manageriale. Ciò, tuttavia, non inficia la distinzione analitica. È sulla base di tale distinzione che una teoria delle nuove classi medie può essere costruita. Si veda Carchedi, 1977.