Quinto, si ipotizza che gli entrepreneur sono
ricompensati per l’introduzione di innovazioni. Anche qui bisogna fare una
distinzione. Se le nuove tecnologie sono applicate al processo lavorativo, l’entrepreneur
ha svolto uno degli aspetti della funzione del lavoro e così ha contribuito
alla creazione di (plus)valore. Se l’introduzione di nuove tecnologie è un
aspetto della funzione del capitale, l’entrepreneur è parte di un processo di
espropriazione e appropriazione di plusvalore.
Per concludere, si può sostenere che i capitalisti e i
manager creano valore solo perché non si fa la distinzione tra produzione e
realizzazione di valore, o tra fattori oggettivi della produzione e motivazioni
soggettive, o tra la funzione del capitale e la funzione del lavoro. Capire ciò
significa allo stesso tempo dimostrare che solo i lavoratori possono creare
valore, cioè che solo il lavoro astratto può essere (la sostanza del) valore.
Quale metafisica?
4. La critica della regressione all’infinito
Molte altre critiche sono state fatte oltre a quelle discusse
in precedenza. La prima è il tema della regressione all’infinito. Questa,
come ho detto nel mio saggio precedente (2001b), sostiene che per calcolare il
valore degli input di un periodo, bisogna calcolare il valore degli input del
periodo precedente in un movimento senza fine a ritroso. La risposta è stata
che tale ragionamento renderebbe impossibile qualsiasi scienza, compresa quella
su cui si basa la critica. [1] Un punto temporale di partenza in un’indagine
non può che essere un punto arbitrario.
Se questo è il caso, c’è un modo per calcolare il valore
degli input? Si, c’è. Per fare ciò, dobbiamo renderci conto che regredire
all’infinito nel tempo non solo non ha senso, non solo è un’assurdità
metodologica, sarebbe anche sbagliato dal punto di vista del calcolo. Molto
semplicemente, il valore di un computer nel 2001 è dato da quello che l’economia
ritiene che esso valga nel 2001 e non da quello che ritiene che i suoi input
valessero nel 2000, più il valore degli input di tali input nel 1999, ecc.
Differentemente da quello che sembrano pensare gli economisti sraffiani, la
società è interessata nel valore attuale del computer, non nel suo valore
storico. Se nel 2001 il mio computer, che mi è costato Euro 1.500, diventa
improvvisamente obsoleto, il suo valore sarà zero perché nel 2001 nessun
valore si sarebbe dovuto impiegare nella sua produzione (la spiegazione per gli
economisti neo-classici è che la domanda è caduta a zero). Se, per qualche
ragione, altri computer simili fossero distrutti, il suo valore aumenterebbe
perché, visto dal 2001, più valore sarebbe dovuto essere impiegato per la
produzione di quel tipo di computer (una cosa che gli economisti neo-classici
percepiscono come il risultato di una diminuzione dell’offerta). Se l’economia
funziona così, perché teorizzarla differentemente? Perché chiedere che Marx
la teorizzi differentemente? Una volta capito questo, il calcolo del valore
degli input è svolto come segue.
Supponiamo che vogliamo considerare un certo ciclo produttivo
che incomincia ad un punto nel tempo, t2, e finisce ad un altro punto nel tempo,
t3. Per esempio, t2 potrebbe essere il primo di gennaio del 2000 e t3 il 31
dicembre dello stesso anno. Vogliamo sapere il valore (ore di lavoro) contenuto
nei mezzi di produzione (input) che entrano, a t2, nel periodo t2-t3. A tal fine
incominciamo dalla dimensione monetaria. Conosciamo il prezzo monetario pagato
per i mezzi di produzione a t2. Sappiamo anche il prezzo pagato per la forza
lavoro a t3 (i salari in genere sono pagati alla fine del periodo, cioè sono
anticipati dai lavoratori ai capitalisti; ma il ragionamento non sarebbe
inficiato se i salari fossero pagati a t2) e i profitti realizzati a t3 (tutti
in termini monetari). Possiamo quindi calcolare i prezzi di produzione (i prezzi
a cui i tassi di profitto sono uguali) a t3. Tutto questo in termini monetari.
Ma in termini di valore (lavoro)?
Dato un apposito sistema di rilevazione, registrazione e
compilazione di dati, le ore di nuovo lavoro speso durante t2-t3 possono essere
calcolate e poi ridotte a unità confrontabili attraverso la doppia riduzione da
lavoro complesso a lavoro semplice e da lavoro più intensivo a lavoro meno
intensivo (si veda Carchedi, 2001b). Questi corrispondono ai salari e profitti
in termini monetari pagati a t3. Possiamo quindi calcolare il tasso:
(salari più profitti)/(ore di nuovo lavoro)
che ci dà l’espressione monetaria di una unità del nuovo
lavoro erogato durante t2-t3. Dato che sia il valore che la moneta sono
quantità omogenee, ciascuna unità di moneta rappresenta una certa quantità di
valore, sia che questo valore sia contenuto nei mezzi di produzione, o nei mezzi
di consumo della classe lavoratrice, o nei mezzi di lusso dei capitalisti.
Applicando questo tasso ai prezzi monetari dei mezzi di produzione comprati a
t2, otteniamo la valutazione sociale di quei mezzi di produzione a t3, come il
punto finale di t2-t3. Se ora ripetiamo la stessa procedura per il precedente
periodo t1-t2, otteniamo la valutazione sociale dei mezzi di produzione a t2,
come il punto finale di t1-t2 e come l’output di t1-t2. Dato che i mezzi di
produzione come output di t1-t2 sono gli stessi mezzi di produzione come input
di t2-t3, conosciamo il loro valore all’inizio di t2-t3. Il nuovo valore
prodotto durante t2-t3 è quindi aggiunto a questo valore, in linea con la
procedura di Marx. [2]
Non c’è alcun bisogno di regredire nel tempo all’infinito. [3]
Una procedura simile può essere ripetuta per i beni di
consumo che rappresentano i salari. Primo, calcoliamo il tasso a t3:
Salari/(salari più profitti)
in termini di denaro, e poi applichiamo questo tasso al
totale delle nuove ore di lavoro dopo che sono state omogeneizzate. Il risultato
ci dà le ore di nuovo lavoro che compongono il valore della forza lavoro. Le
ore lavorate in più di questa somma costituiscono le ore di pluslavoro erogato
durante il periodo t2-t3. A differenza di quanto asseriscono i critici, non vi
sono due misure quantitativamente differenti del valore della forza lavoro,
supponendo naturalmente che uno segua la procedura corretta, quella di Marx.
[4]
Da quanto sopra si può vedere che ogni critica della nozione
di lavoro astratto di Marx come un concetto solamente naturalistico (Lippi,
1977) o solo un concetto socialmente determinato, è profondamente errata. Vi è
una dimensione oggettiva, l’erogazione di una data quantità di energia umana,
e vi è una dimensione sociale. L’erogazione di energia umana in astratto è
un dato oggettivo; tuttavia la sua misurazione è socialmente determinata. Più
specificamente, per quanto riguarda il lavoro passato, si è dimostrato
in precedenza che il valore dei mezzi di produzione non è ottenuto sommando le
ore di lavoro che sono state necessarie per produrli più quelle contenute nei
loro input più quelle contenute negli input di quegli input, ecc. ecc.
Piuttosto, il loro valore è quello che la società giudica che esso sia (in
termini d’ore di lavoro) nel momento in cui essi entrano nel processo di
produzione. Per quanto riguarda il nuovo valore, anche la doppia
riduzione da lavoro complesso a lavoro semplice e da lavoro più intenso a
lavoro meno intenso si basa su criteri socialmente determinati.
5. La critica della circolarità
Il lettore si ricorderà che la procedura della
trasformazione di Marx è stata criticata anche a causa, si asserisce, di un
ragionamento circolare. Cioè, gli stessi mezzi di produzione entrano nel
processo di produzione al loro valore non trasformato e ne escono, come output,
al loro valore trasformato. Dato che le stesse merci devono essere vendute e
comprate allo stesso prezzo, si suppone che il ragionamento sia circolare. La
risposta a questa critica è tanto semplice quanto è ignorata. La critica è
valida solo in una dimensione senza tempo. Svanisce se il tempo è introdotto,
cioè se l’economia è vista come una successione di processi di produzione e
realizzazione nel tempo. Da questa prospettiva, due cose diventano ovvie. Primo,
i mezzi di produzione che entrano a t2 per il periodo t2-t3, come input, sono le
stesse merci che sono uscite da un altro processo di produzione nel periodo
precedente, t1-t2. Marx non potrebbe essere più esplicito: “abbiamo supposto
per incominciare che il prezzo di costo di una merce è uguale al valore delle
merci consumate nella sua produzione. Ma per il compratore il prezzo di
produzione di una data merce è il suo prezzo di costo” (Marx, 1967b, p.
164, enfasi e traduzione mia, G.C.). Marx poi aggiunge: “vi è sempre la
possibilità di un errore se il prezzo di costo di una merce... è identificato
col valore dei mezzi di produzione consumati da essa” (op.cit. p.165,
traduzione mia), cioè il prezzo di costo di una merce è il prezzo di
produzione degli input come prodotto del periodo precedente. Questo, piuttosto
che essere una ‘ammissione’ da parte di Marx che sapeva che c’era qualcosa
di sbagliato nella sua procedura ma che non poté correggerla, è perfettamente
logico e coerente con quella procedura. [5]
Secondo, nel settore che produce i mezzi di produzione, gli
input che entrano nel periodo t2-t3 come mezzi di produzione non sono gli
stessi mezzi di produzione che escono dallo stesso periodo a t3 come output.
I primi servono a produrre, ma non sono i secondi (anche se i secondi possono
essere una replica esatta dei primi). Quindi, non vi è alcuna ragione di
supporre che essi abbiano lo stesso prezzo. E anche se avessero lo stesso
prezzo, non sarebbero la stessa merce. Se uno desidera calcolare il valore dei
mezzi di produzione come input, la sezione 4 precedente fornisce la chiave di
comprensione. Riassumendo, il prezzo dei mezzi di produzione è il loro valore
trasformato come output del periodo precedente ed è anche il loro valore non
trasformato come input di questo periodo. Questo è l’approccio temporale.
L’argomento è perfettamente chiaro. Tuttavia, è o
ignorato o frainteso. Per esempio, Mongiovi, in una recente critica dell’approccio
temporale (2001), riesce ad evitare di menzionare questa contro-critica.
Cavallaro, d’altra parte, la fraintende. Egli fa due obiezioni a questo
approccio (2001). Per Cavallaro, “Carchedi, Freeman e Kliman” (a) non usano
il metodo di esposizione dialettico e (b) non trasformano il valore degli input.
Ma noi trasformiamo il valore degli input, solo che, ragionevolmente,
usiamo, come fa Marx, un quadro teorico in cui il tempo è un elemento
essenziale, piuttosto che ignorarlo per definizione. Per di più, il processo
che noi analizziamo è un processo dialettico e quindi la nostra analisi è
profondamente dialettica. Facciamo un esempio. Consideriamo due produttori di
martelli, il signor Bianchi e il signor Rossi. Rossi compra i martelli da
Bianchi al fine di fare martelli. Quindi il martello prodotto da Bianchi è il
suo output e allo stesso tempo l’input di Rossi. Rossi produce il suo martello
col martello di Bianchi. Quando Bianchi vende il suo martello a Rossi (per
esempio, a t1) lo vende per un certo prezzo e Rossi lo compra, ovviamente, per
lo stesso prezzo. Questo prezzo (valore) rappresenta il valore trasformato per
Bianchi, cioè a t1 come il punto finale di t0-t1, e allo stesso tempo un valore
non trasformato per Rossi, cioè come l’input di t1-t2. In termini dialettici,
a t1 quel martello è sia un valore trasformato che un valore non
trasformato. Per di più, può essere un valore non trasformato (a t1 come il
punto iniziale di t1-t2) perché è un valore trasformato (a t1 come
punto finale di t0-t1) e la ragione di ciò è che la realtà è temporale
piuttosto che essere senza tempo, come nella scuola neo-classica o sraffiana.
[6]
Aspetta un attimo, dicono i critici a questo punto: c’è
stata una trasformazione qualitativa ma non una quantitativa. E questo è quello
che vogliamo vedere. Ma, come ho sottolineato ripetutamente, una trasformazione
quantitativa sarebbe necessaria solo se il martello che Rossi compra come input
a t1 è lo stesso martello che Rossi produce, come output, a t2. Questa
è una stupidaggine e tuttavia questa è l’essenza della critica della
circolarità fatta a Marx. I due martelli possono essere esattamente gli stessi
nel senso che l’output può essere una replica esatta dell’input ma non
sono la stessa merce: uno è usato per produrre l’altro. Se non sono la
stessa merce, non vi è alcuna ragione di supporre che debbano avere lo stesso
prezzo (si ricordi che la critica sostiene che nella procedura di Marx lo stesso
martello è comprato da Rossi per un certo prezzo e venduto da Bianchi per un
prezzo diverso). In effetti, essi avranno lo stesso prezzo solo per caso. Cioè
la trasformazione quantitativa che i critici vogliono vedere non ha senso, o ha
senso solo in una realtà senza senso, una realtà senza tempo, una realtà in
cui gli input di un certo processo di produzione sono anche gli output dello
stesso processo. Esposta alla luce del tempo, la critica avvizzisce e muore.
[7]
Anche Laibman evita la mia contro-critica (2002). Tuttavia,
in una corrispondenza privata successiva egli sembra abbandonare la critica
della circolarità, ma solo per un momento. Egli inizia riconoscendo che “il
martello-input non è letteralmente lo stesso bene del martello-output. Due
martelli differenti. Due transazioni”. Ma poi aggiunge immediatamente: “se
entrambe le transazioni avvengono allo stesso prezzo, le equazioni simultanee
determinano quel prezzo”. Perché? Se queste sono due transazioni
temporalmente differenti, le equazioni simultanee non possono determinare il
loro prezzo (in effetti, i loro prezzi), a meno che uno non voglia cancellare il
tempo. In uno stesso movimento, Laibman riconosce l’esistenza del tempo e la
nega. E aggiungere che quest’uso delle equazioni simultanee “è una specie
di metafora che descrive un processo di convergenza che in effetti è sempre
interrotto dal cambiamento tecnico e sociale” aumenta solo la confusione.
Una volta che il tempo è preso in considerazione, tutti i
pezzi dell’enigma vanno al loro posto. Qui menzionerò solo due casi. Primo,
si suppongano due processi di produzione competitivi, cioè entrambi producono
martelli che vendono a t3. Il primo processo è quello di un capitalista che ha
bisogno di un periodo di tempo più lungo (t1-t3) del resto dei capitalisti in
quel settore. Questi ultimi hanno bisogno di lavorare solo per un periodo più
corto, t2-t3. Se il valore sociale degli input di entrambi i processi cambia a
t2, il valore realizzato dal primo produttore (che ha bisogno del periodo t1-t3)
dipende dal valore sociale degli input a t2 e non a t1. Gli altri capitalisti,
quando vendono i loro prodotti a t3, chiedono proporzionalmente meno per il loro
output e dovranno chiedere meno a causa della loro reciproca competizione. Ma
anche il primo capitalista dovrà chiedere proporzionalmente meno. Tuttavia, il
valore degli input di questo capitalista non è diminuito (dal loro
valore a t1 a quello a t2). Questa differenza è una perdita per lui ma un
guadagno non solo per i suoi competitori ma per il resto dell’economia.
Infatti, il fatto che il nostro capitalista ha bisogno di più tempo dei suoi
competitori è una manifestazione della sua minore produttività. Si può
dimostrare (Carchedi, 1991, capitolo 5) che, sotto l’ipotesi della tendenziale
perequazione dei tassi di profitto, il valore in più prodotto dal capitalista
meno produttivo in un qualsiasi settore viene ridistribuito in un modo che tutti
i capitali modali realizzano il tasso medio di profitto, i capitali con una
produttività più alta della media nel loro settore realizzano un tasso di
profitto maggiore della media e i capitalisti con una produttività minore della
media nel loro settore realizzano un tasso di profitto minore della media.
[1] Come vedremo nella sezione 5, gli stessi critici
che accusano il metodo di Marx di cadere nella regressione all’infinito non
sono immuni da tale accusa.
[2] Per maggiori dettagli si veda Carchedi e de Haan, 1996.
[3] Il calcolo di
questa valutazione sociale può essere fatto sia per quanto riguarda I prezzi di
produzione (i prezzi tendenziali che i prezzi di mercato, i prezzi pagati
veramente).
[4] D. Foley, in una recensione di Freeman e Carchedi (1996), asserisce: “Guglielmo
Carchedi e Werner de Haan scrivono equazioni [136-137] che sembrano confondere l’espressione
monetaria del lavoro con diverse misure della velocità della moneta (1997,
p.495)”. A parte il fatto che non vi sono equazioni nelle pagine citate, la
velocità della moneta non gioca (ancora) un ruolo qui. Essa, come altri
fattori, può essere presa in considerazione una volta che si siano compresi gli
aspetti fondamentali. In ogni caso, questa è una critica minore e Foley evita
di affrontare la sostanza della nostra contro-critica e di discutere la
procedura che proponiamo.
Quanto qui sopra si è focalizzato sul livello aggregato è
valido per i mezzi di produzione usati per la produzione di singole merci (per
dettagli, si veda Carchedi e de Haan in Freeman e Carchedi, 1996). Essi entrano
nella produzione di una merce alla loro valutazione sociale. È solo in questo
contesto che la citazione seguente può essere propriamente capita: “Se il
prezzo di costo di una merce è reso uguale al valore dei mezzi di produzione
usati per la sua produzione, è sempre possibile sbagliare” (Marx, 1967b,
p.240). Qui, prezzo di costo significa per Marx il valore dei mezzi di
produzione più quello dei beni salariali che rappresentano il valore della
forza lavoro. Tuttavia, in questa citazione Marx considera solo il valore dei
mezzi di produzione. Quello che Marx qui dice è semplicemente che quello che
entra nel valore di una merce non è il valore dei mezzi di produzione prima
della loro trasformazione, cioè calcolato sulla base del plusvalore
effettivamente in essi contenuto. Piuttosto, essi entrano nel valore di quella
merce al loro valore trasformato, cioè calcolato sulla base del plusvalore
realizzato (attraverso la loro vendita) e che costituisce tendenzialmente il
tasso medio di profitto. Dato che il plusvalore effettivamente prodotto e
incorporato in quei mezzi di produzione è in genere differente dal plusvalore
che corrisponde al tasso medio di profitto, “è sempre possibile sbagliare”.
I critici di Marx, d’altra parte, usano questa citazione per asserire che Marx
non ha trasformato (o potuto trasformare) il valore dei mezzi di produzione.
Come vedremo tra poco, questa impossibilità esiste soltanto all’interno della
problematica dei critici, cioè se uno teorizza una realtà senza tempo.
[5] Sweezy (1942) ha reso un danno
incalcolabile per il marxismo disseminando questa idea erronea.
[6] La dialettica non è solo un metodo di esposizione ma è prima di
tutto un metodo di ricerca sociale. Questo metodo è esposto in Carchedi, 1991,
Appendice (Il Metodo della Ricerca Sociale) che il lettore interessato può
consultare. Nello stesso lavoro, tratto la procedura della trasformazione usando
esplicitamente questo metodo, una cosa che non posso fare qui per mancanza di
spazio.
[7] Brani come “Dato che ogni vendita è una compera, e ogni compera una
vendita, nulla può essere più bambinesco del dogma che, quindi, la
circolazione delle merci implica necessariamente un equilibrio di vendite e
compere” (Marx, 1967a, p.208, traduzione mia, G.C.) hanno senso solo entro una
dimensione temporale. Infatti, questo dogma si basa su una confusione che sorge
se si cancella il tempo. Se a t1 una merce è comprata dall’acquirente per un
prezzo, per definizione è venduta dal venditore per lo stesso prezzo. Vi è
equilibrio tra domanda e offerta per definizione. Ma una volta che ha comprato
quella merce, l’acquirente può essere in grado o no di venderla a t2. Qui non
vi è necessariamente una uguaglianza tra domanda e offerta. L’equilibrio può
essere teorizzato solo riducendo queste due transazioni ad una sola, cioè
cancellando il tempo.