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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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La domanda di un’automobile è influenzata non solo da variazioni nel prezzo di quell’automobile (chiamata elasticità della domanda rispetto al suo prezzo) ma anche da variazioni nei prezzi di altri beni, come per esempio un computer, (chiamata elasticità della domanda rispetto al prezzo di altri beni, o elasticità incrociata) e da variazioni nel reddito disponibile (chiamata elasticità della domanda rispetto al reddito). Al fine di determinare gli effetti delle variazioni nel suo proprio prezzo, dei prezzi di altri beni, e del reddito sulla quantità domandata di quell’automobile, questa teoria somma (1) gli effetti delle sole variazioni del prezzo di quell’automobile (cioè sotto la CCP) a (2) gli effetti delle sole variazioni del prezzo del computer (cioè sotto la CCP) a (3) gli effetti delle sole variazioni nel reddito disponibile (cioè sotto la CCP). In questo modo, si arriva (o si crede di arrivare) alla determinazione degli effetti sulla domanda di quell’automobile a causa di tutti questi fattori.

Ma questa procedura è invalida. La somma degli effetti di tutti i fattori al fine di trovare il risultato complessivo sulla domanda di un bene è internamente incoerente se questi effetti sono stati calcolati uno alla volta sulla base della CCP. Per esempio, sommiamo gli effetti sulla quantità domandata di quell’automobile di una variazione nel prezzo di quell’automobile (sotto la CCP) e nel prezzo del computer (sotto la CCP). Ciò, lungi dal fornire la determinazione complessiva e simultanea della domanda di quell’automobile (dovuta a variazioni contemporanee sia del suo prezzo sia del prezzo del computer) crea una incoerenza insolubile. In un qualsivoglia momento, la superimposizione di due o più CCP implica che lo stesso fattore (il proprio prezzo dell’automobile) è allo stesso tempo sia tenuto costante (sotto l’ipotesi dell’elasticità della domanda dell’automobile rispetto al prezzo del computer) e fatta cambiare (sotto l’ipotesi della elasticità della domanda dell’automobile rispetto al proprio prezzo). La superimposizione di due momenti statici non raffigura il movimento. In altre parole, questa teoria non può spiegare una multipla, e quindi reale, selezione del prezzo e quantità domandata di un bene. Quindi le curve della domanda e dell’offerta non solo non possono determinare prezzi e quantità (a causa della circolarità), esse non possono nemmeno selezionare i prezzi e le quantità di equilibrio nel caso di multipla determinazione, l’unico caso reale. [1]

Rimane un’ultima opzione. Si può scegliere di evitare di scegliere e semplicemente assumere un’attitudine agnostica: i prezzi sono quelli che sono e il valore non mi interessa. In questo caso si concede semplicemente la disfatta teorica. E questa è l’ultima stazione dei critici di Marx.

Ora possiamo porre il testo di Cavallaro nella sua giusta prospettiva. “Un secolo di discussioni ha mostrato che, una volta che si sia proceduto alla rettifica dei valori di scambio degli input, equiparandoli ai prezzi di produzione, il saggio del profitto non può essere determinato se non nella forma di un rapporto tra i prezzi. E siccome per conoscere questi ultimi occorrerebbe già aver determinato il saggio del profitto, l’unico modo di procedere sembra quello di calcolare contemporaneamente prezzi e saggio del profitto mediante un sistema di equazioni simultanee (come in Sraffa 1960, cap. II)” (2001). Dovrebbe essere ormai chiaro che la determinazione simultanea dei prezzi e dei tassi di profitto, come in Sraffa, incontra le obiezioni sollevate in tutta questa sezione. Un “secolo di discussioni” ha mostrato una e una sola cosa: l’incapacità ideologicamente determinata dell’economia ortodossa (in tutte le sue variazioni) di capire non solo la procedura di Marx, e più generalmente la sua metodologia, ma anche le disastrose conseguenze derivanti dall’abbandono di quella metodologia. [2]

Quanto sopra ha dimostrato che la critica sraffiana di Marx è pervasa da contraddizioni e che conduce a un vicolo cieco teorico. Ma c’è di più. La ragione per cui la critica non è valida è che si basa su una teoria che è inerentemente contraddittoria e che soffre degli stessi errori che si vorrebbero attribuire a Marx. Quanto segue dimostrerà che lo sraffianismo (a) è basato su un errore logico di fondo (b) adotta un approccio in cui il tempo manca e (c) cade nella regressione all’infinito. [3]

Incominciamo dal primo punto, l’errore logico. Nell’approccio sraffiano (si veda per esempio Screpanti, 2001), il valore di una merce (cioè il lavoro contenuto in essa) è definito come il lavoro vivo (o nuovo lavoro) più il valore del capitale costante (si dovrebbe dire, dei mezzi di produzione) che è stato usato per quella merce. Quest’ultimo si ottiene moltiplicando la quantità dei mezzi di produzione (che sono stati usati per quella merce) per il lavoro che è stato usato per la loro produzione. Per esempio, il lavoro che è stato usato per una pagnotta di pane è dato (a) dal lavoro del panettiere più (b) la quantità di farina prodotta dal mulino (e usata per la produzione di quella pagnotta) moltiplicata per il lavoro che il mugnaio ha erogato per la produzione di quella farina. In questo modo, si suppone, tutti gli elementi possono essere ridotti a lavoro. [4]

A prima vista, questo procedimento sembrerebbe accettabile. Tuttavia, esso ignora la distinzione basilare tra lavoro concreto e lavoro astratto. Questa non è una distinzione che ci si può permettere di ignorare. Se oggetti irriducibilmente differenti possono essere scambiati, essi devono avere qualcosa in comune oltre a qualcosa che li differenzia. Dato che essi sono il risultato del lavoro, il lavoro deve avere qualcosa che li differenzia ma che li rende anche uguali. Cioè il lavoro deve essere sia concreto sia astratto allo stesso tempo. Ma nessuno di questi due aspetti può essere moltiplicato per la merce come valore d’uso, come propone il metodo sraffiano. Il lavoro concreto è lavoro specifico, lavoro che è differente da ogni altro tipo di lavoro. Ogni tipo di lavoro concreto è unico. Lo stesso vale per la merce come valore d’uso. Essi sono per definizione non quantificabili e quindi non possono essere moltiplicati l’uno per l’altro. Ma anche se potessero essere moltiplicati l’uno per l’altro, il risultato non potrebbe essere paragonato a quello d’ogni altra simile moltiplicazione di altre merci per il lavoro concreto che le ha prodotte. In questo caso, i risultati d’ogni moltiplicazione non potrebbero essere addizionati. Il lavoro astratto, d’altra parte, è certamente quantificabile. Tuttavia anch’esso non può essere moltiplicato per un’entità non quantificabile, per esempio una macchina come valore d’uso. E anche se tale moltiplicazione fosse logicamente lecita, non lo sarebbe in termini dell’approccio sraffiano in cui il lavoro astratto non è permesso. In breve, la moltiplicazione sraffiana si basa in entrambi i casi su una insormontabile incommensurabilità ed è, in quanto tale, invalida.  [5] La nozione sraffiana di capitale e surplus è in termini fisici, è una nozione fisicalista, e come tale è una nozione invalida. Questo è il peccato originale di Sraffa.

Ma c’è una seconda critica. Partendo da questa nozione fisicalista, l’approccio sraffiano incontra la successiva difficoltà nello stabilire quantitativamente il tasso di profitto. Dato che sia il surplus che il capitale usato nella produzione di quel surplus sono quantità fisiche, esse sono incommensurabili. Naturalmente, questo non è il problema di Marx. Nella teoria di Marx, le merci sono commensurabili perché, oltre ad essere valori d’uso (e quindi differenti per definizione), esse contengono anche lavoro astratto, una sostanza quantitativamente omogenea. Tuttavia, l’approccio sraffiano sostiene che questo è il problema di Marx e si prefigge di risolverlo. Per rendere le merci commensurabili, tale approccio non vede altra soluzione che moltiplicare quelle grandezze fisiche per i loro prezzi di produzione, cioè i prezzi che sono ottenuti aggiungendo il tasso medio di profitto al capitale investito (si veda più sopra). Ma se i prezzi sono manifestazioni del lavoro (sia concreto che astratto) l’incommensurabilità additata più sopra riemerge. L’approccio sraffiano ignora questo punto e indica un nuovo problema: i prezzi di produzione sono essi stessi calcolati sulla base del tasso medio di profitto, cosicché al fine di calcolare i prezzi di produzione abbiamo bisogno dei prezzi di produzione.

Per evitare tale circolarità tutta sua, quest’approccio introduce l’uso delle equazioni simultanee nelle quali tutti i prezzi (sia degli input che degli output dello stesso periodo) sono determinati simultaneamente. Quest’uso delle equazioni simultanee è quindi connesso alla supposta circolarità in un approccio che non potrebbe essere più distante da quello di Marx e che tuttavia si afferma essere quello di Marx. Questo risponde alla critica sraffiana secondo la quale nell’approccio proposto qui “manca un’affermazione chiara e persuasiva del perché Marx, dopo Sraffa, dopo tutto richieda un’analisi in termini di valore lavoro” (Mongiovi, traduzione mia, G.C.). La risposta è che “un’analisi in termini di valore lavoro” oltre ad essere perfettamente coerente, non deve cadere nella determinazione simultanea degli input e degli output dello stesso periodo, cioè non deve cancellare il tempo. L’approccio sraffiano, d’altra parte, abbandonando il valore come lavoro astratto, focalizzandosi sui valori d’uso, non solo è minato dall’incommensurabilità, ma anche crea un problema di circolarità che abbisogna della determinazione simultanea e quindi della eliminazione del tempo.

Per ultimo, come se tutto questo non fosse sufficiente, c’è un terzo difetto: l’approccio sraffiano cade nella regressione all’infinito. Sraffa pensava di evitare la regressione all’infinito riducendo ciascun input incorporato in una certa merce ad una quantità di lavoro. Consideriamo una merce. Il suo valore è dato, secondo Sraffa (1960, p.34), prima di tutto dal lavoro erogato per la sua produzione moltiplicato per il tasso salariale pagato per quel lavoro. A questo si aggiunge il lavoro incorporato negli input (i mezzi di produzione). Esso è uguale al lavoro necessario per produrre quegli input nel periodo precedente moltiplicato per il tasso salariale più il tasso di profitto su quegli input. La stessa procedure è ripetuta per ciascun periodo precedente. Facendo così, secondo Sraffa, più siamo disposti a retrocedere nel tempo, meno sarà il “residuo merce”, cioè quella parte degli input espressa in termini fisici e maggiore sarà quella parte espressa in termini di lavoro. Ma questo non è il caso. Prima di tutto, è ancora necessario retrocedere nel tempo all’infinito. E in secondo luogo, ogni volta che facciamo un passo indietro nel tempo, calcoliamo il contenuto in lavoro non di un residuo fisico decrescente degli input di questo periodo ma il contenuto in lavoro degli input fisici del periodo precedente senza diminuire il residuo in termini fisici degli input di questo periodo. Ogni volta che tentiamo di ridurre il ‘residuo merce’ di un certo periodo, la riduzione è rimandata al periodo precedente. E questo significa semplicemente che questa procedura ricade nella regressione all’infinito nel tempo. In ogni caso, anche se questa procedura non si basasse sulla incommensurabilità logica menzionata più sopra (primo difetto), anche se non presupponesse la simultaneità (secondo difetto), e anche se fosse corretta dal punto di vista del calcolo (terzo difetto), essa sarebbe inutile perché il valore degli input è dato dalla valutazione sociale di quegli input al momento in cui essi entrano nel processo di produzione (si veda la sezione 4 precedente).

Nonostante questi macroscopici errori logici, la combinazione di simultaneismo e fisicalismo continua a prosperare. La ragione, di nuovo, è il suo contenuto ideologico, cioè l’opportunità che offre di negare lo sfruttamento come pluslavoro. Dal punto di vista fisicalista, il profitto può essere teorizzato come il surplus fisico al di sopra degli input fisici investiti, anche nell’assenza di lavoro (valore). Il modo più chiaro di vedere ciò è di immaginare un’economia completamente automatizzata con solo un tipo di macchine. Ogni anno esse producono un numero di macchine maggiore di quelle consumate nel processo di produzione. Come Kliman sostiene convincentemente (2001), il simultaneismo entra sulla scena quando si tratta di calcolare il prezzo delle macchine. Se il prezzo del maggior output potesse essere minore di quello delle macchine consumate, vi sarebbe una perdita e non un profitto. Quindi i profitti in termini monetari presuppongono che i prezzi unitari non cadano, cioè che essi rimangano costanti. L’unico modo per essere sicuri di questo è che il prezzo unitario delle macchine-ouput sia determinato assieme a, e quindi sia uguale a, il prezzo unitario delle macchine-input. Questo è simultaneismo. Entro un approccio fisicalista-simultaneista i profitti possono essere generati dalle macchine e non dal pluslavoro. O, per lo meno, essi potrebbero essere generati dalle macchine se uno fosse disposto a ignorare le critiche di cui sopra.

A rigor di termini, la questione della trasformazione non riguarda lo sfruttamento. Lo sfruttamento riguarda l’espropriazione di lavoro e quindi di valore dei lavoratori da parte dei capitalisti. La trasformazione riguarda la ridistribuzione di questo lavoro (e quindi valore) non pagato (dopo che è stato espropriato) tra i capitalisti. Ma la connessione è chiara. Una volta che si nega la procedura della trasformazione di Marx, la strada è libera all’introduzione delle sue molteplici ‘correzioni’ basate sull’ipotesi del simultaneismo che o nega lo sfruttamento o lo teorizza in maniera indifendibile. La scelta del simultaneismo è quindi funzionale ad una operazione totalmente ideologica. Il simultaneismo è il solvente che dissolve non solo la nozione che il capitalismo è piagato dalle crisi, non solo la nozione di valore e sfruttamento, ma anche tutto ciò che è specifico del marxismo. Il punto d’entrata nel marxismo del simultaneismo è stato il dibattito sulla trasformazione. Questa è l’enorme importanza politica del dibattito sulla trasformazione. Questo era chiaro a Bortkiewicz (il padre della critica della circolarità) per il quale “Marx era della ferma opinione che gli elementi esaminati devono essere considerati come una specie di catena causale nella quale ciascun anello è determinato nella sua composizione e grandezza, solamente dagli anelli precedenti... [Ma] la scienza economica moderna incomincia gradualmente a liberarsi dal pregiudizio successivistico, il merito principale essendo della scuola capeggiata da Leon Walras” (citato in Freeman, 1998, p.7). Il simultaneismo non esiste né in Marx né nella realtà, è un errore logico ma è un errore che è essenziale per la sopravvivenza dell’economia ortodossa e del capitalismo.


[1] L’argomento che le curve della domanda e dell’offerta sono solo tipi ideali e che un comportamento anormale può essere spiegato come le deviazioni da questi tipi ideali (Walras, 1977, p.71) è impotente di fronte alla critica appena menzionata. Se la norma non può essere convalidata, spiegazioni di effettivo comportamento come deviazioni dalla norma non possono tenere. Un altro argomento che non tiene è che questa critica è valida solo per l’equilibrio parziale e non per quello generale. Per una critica dell’equilibrio generale, si veda Carchedi, 2001 a, capitolo 2.

[2] Kliman (1998a) fornisce un buon esempio delle assurde conseguenze inerenti nell’approccio a-temporale o simultaneista. Supponiamo che un investitore compri un’obbligazione per $1.000 a t1 e riceva un interesse di $100 a t2. Il suo tasso d’interesse è del 10%. Supponiamo poi che a t2 quell’obbligazione sia stata deprezzata a $100. Questa è la valutazione sociale di quell’obbligazione a t2. Implica una perdita di $900. Se l’investitore vende quell’obbligazione, perde $900 e può incominciare un nuovo ciclo di investimenti con soli $100. Cioè, a t2 il tasso d’interesse è più che compensato da una perdita su capitale come percentuale del capitale totale investito (-90%). Il tasso d’interesse dell’investitore è +10%-90%=-80%. Un economista ortodosso, se volesse essere coerente con l’assenza di tempo inerente nella critica della circolarità, dovrebbe superimporre t1 e t2 e correlare l’interesse ricevuto a t2 ($100) alla valutazione sociale dell’obbligazione a t2, cioè $100. Il tasso di interesse sarebbe +100% piuttosto che -80%! Nell’approccio temporale è il compratore di quell’obbligazione a t2, il punto iniziale del ciclo di investimenti t2-t3, che realizza un tasso di interesse del 100%, dato che il compratore lo ha pagato $100 e riceve un interesse di $100.

[3] Per un’ottima critica, complementare a questa, si veda Giussani, 2001.

[4] Secondo la nozione di Screpanti, “l = lA+ l”, dove l rappresenta i valori lavoro dei prodotti lordi, ovvero le quantità di lavoro in essi contenute, l i coefficienti di lavoro vivo, A i coefficienti tecnici e lA i valori-lavoro dei capitali costanti” (2001). Questa notazione è stata presa da una versione precedente dell’articolo di Screpanti. Si noti che questo per Screpanti è un ‘assioma’.

[5] Mazzetti (2001, p.33) sostiene che nella formulazione originale di Sraffa, cioè:

280 quintali di grano+12 tonnellate di ferro --> 40 tonnellate di grano

120 quintali di grano+ 8 tonnellate di ferro --> 20 tonnellate di ferro

il lavoro è assente, che in queste combinazioni è come se gli input, grano e ferro, fossero capaci di trasmutarsi “per propria spontanea sintesi” (p.33) negli output, grano e ferro. Uno sraffiano potrebbe obiettare che il lavoro è presente implicitamente. Ma questo non sarebbe di grande aiuto perché al lavoro deve essere dato un ruolo esplicito nella produzione (altrimenti non sappiamo qual’è il suo contributo) e perché il solo tipo di lavoro che è permesso in questo schema è il lavoro concreto, cosa che conduce direttamente alla incommensurabilità menzionata qui sopra. Mazzetti sottolinea inoltre che nelle equazioni di Sraffa (a) la domanda e offerta sono uguali per definizione e che quindi le crisi non possono essere concettualizzate (b) ciascun settore è rappresentato solo da una tecnica e che se più tecniche fossero introdotte “il sistema diventa algebricamente impossibile” (ibid), cioè che la competizione tecnologica non può essere teorizzata (c) anche se la competizione tecnologica entro settori fosse permessa, questo nuovo elemento renderebbe la riproduzione del sistema impossibile. Infatti, il sistema si riproduce sulla base di un tasso di scambio di 10 quintali di grano = 1 tonnellata di ferro. Ma allora, per esempio, i produttori più produttivi di grano avrebbero uno stock di grano che non avrebbero bisogno di scambiare per ferro oppure avrebbero un eccesso di ferro se scambiassero tutto il loro grano. Lo stesso per gli altri produttori. Io aggiungerei che nelle equazioni di Sraffa il tempo è assente cosicché il grano e il ferro come input sono gli stessi grano e ferro come output. Simultaneismo e quindi equilibrio sono già contenute in nuce in queste formulazioni.