Ritorniamo ora ad Arthur. Le sue nozioni di lavoro astratto e
sfruttamento sono molto simili a quelle di Napoleoni. Come egli dice: “la mia
posizione è molto diversa da quella della tradizione ortodossa secondo la quale
il lavoro crea qualcosa di positivo, cioè il valore, ed è poi espropriato””.
Piuttosto è il capitale che produce valore e “può produrre valore soltanto
vincendo la lotta di classe nella sfera della produzione”, vincendo la
recalcitranza dei lavoratori contro gli sforzi del capitale a costringerli a
lavorare” (2001, pp.30-31). Che tipo di lavoro è questo ‘sforzo’? Non
può essere lavoro concreto. I lavori concreti sono differenti per definizione e
quindi possono essere scambiati tra loro in certe proporzioni solo se hanno
qualcosa in comune, qualcosa che li rende confrontabili. Arthur rileva questo
punto nella sua critica di Braverman: “La distinzione tra lavoro astratto e
concreto non può essere obliterata” (2001, p.22). Allora, deve essere lavoro
astratto. Tuttavia la nozione di Arthur di lavoro astratto non è quella di
Marx, cioè “la spesa di cervello umano, nervi e muscoli” (Marx, 1967, p.44)
indipendentemente dalle attività concrete svolte (i lavori concreti).
Piuttosto, per Arthur, il lavoro è astratto “in virtù della sua
partecipazione nel processo di valorizzazione capitalistico” (2001, p.23)
cioè perché i lavori concreti sono ugualmente sfruttati “indipendentemente
dalle loro specificità concrete” (p.20). Allora, il lavoro che produce
valore, e quindi il tempo di lavoro che conta per la misurazione del valore è,
secondo Arthur, il (tempo di) lavoro durante il quale i capitalisti obbligano i
lavoratori a lavorare, cioè il (tempo di) lavoro durante il quale i capitalisti
svolgono quella che Marx chiama la funzione del capitale. Infatti, “la
grandezza del valore è determinata dal tempo di sfruttamento socialmente
necessario” (Arthur, 1999, p. 160, traduzione mia, G.C.). Secondo me,
questa tesi è ancora più distante di quella precedente da quella di Marx. Ma
questo saggio non si concentra sulla fedeltà o meno a Marx. Quello che vuole
mettere a fuoco è la coerenza logica.
Incominciamo con il concetto di valore. Per Arthur, sono i
lavoratori che sono forzati a lavorare e tuttavia sono i capitalisti che sono i
produttori di valore. Il suo ragionamento è il seguente: “Siccome tutti...
contribuiscono individualmente al processo di produzione, il tutto non è
costituito come la loro forza produttiva ma come quella del capitale che li
impiega. Questo significa che una merce non è prodotta individualmente.
Inoltre, dato che il lavoratore collettivo è costituto sotto la direzione del
capitale, non è neppure possibile sostenere che sia prodotta dal lavoratore
collettivo. Sembra più ragionevole sostenere che sia il capitale, piuttosto che
il lavoro, il produttore della merce” (2001, p.25). Ma se il capitale è il
produttore, come mai ha bisogno dei lavoratori? La risposta è che ne ha bisogno
per appropriarsi delle loro forze produttive. Ed è a causa di tale
appropriazione che il capitale (piuttosto che il lavoro) è produttore di
valore. In breve “il valore commensura il lavoro espropriato dal quale il
capitale produce le merci” (2001, p.33). Si noti che qui si tratta della prima
delle nozioni di sfruttamento di Arthur, lo sfruttamento nella produzione, che
“nei suoi effetti non è dissimile dall’alienazione” (2001, p.33): i
lavoratori sono sfruttati perché forzati a lavorare (e quindi sono espropriati
delle loro forze produttive) e il capitale è sia lo sfruttatore (perché forza
i lavoratori a lavorare) sia il produttore di valore, perché si appropria delle
forze produttive del lavoro. Il secondo tipo di sfruttamento, nella
distribuzione, sarà esaminato tra poco. Arthur cita alcuni passaggi come
presunta evidenza testuale che corroborerebbe la sua tesi. La sua
interpretazione di tali passaggi è vicina a quella di Napoleoni ed è soggetta
alla stessa critica. Tale critica non verrà ripetuta qui. Piuttosto,
consideriamo la logica dell’argomento.
Il lavoro astratto, come nota Arthur, è lo stesso per
definizione, è una quantità omogenea, indipendentemente dalle attività
specifiche svolte. Per Arthur, la caratteristica comune a tutti i lavori dei
capitalisti è che forzano i lavoratori a lavorare e che così facendo si
appropriano delle loro forze produttive. Qui incontriamo una prima incoerenza.
Il lavoro dei capitalisti non è una quantità omogenea. Coloro che la
pensano diversamente provino a prendere un ‘capetto’, il cui compito è
quello di estrarre lavoro dai lavoratori alla catena di montaggio di una
fabbrica d’automobili, e dargli la funzione di supervisore in un ufficio d’ingegneria
o in una compagnia di danza. Si renderebbero immediatamente conto che il ‘lavoro’
dei capitalisti è tanto specifico, concreto, quanto il
lavoro da esso sfruttato. Se il lavoro dei capitalisti è diverso per
ogni tipo di lavoro assoggettato al suo dominio, non è omogeneo e quindi
non può essere (creare) valore. La tesi che il lavoro dei
capitalisti è la sostanza del valore non può essere sostenuta perché questo
lavoro è lavoro concreto.
Ma non si potrebbe considerare il lavoro dei capitalisti come
astratto, nel senso di Marx, come spesa di forza lavoro umano in astratto,
indipendentemente dalle attività concrete? La risposta è negativa perché, se
la nozione di lavoro astratto di Marx dovesse essere applicata al lavoro dei
capitalisti, non vi sarebbe alcun motivo per non applicarla anche al lavoro dei
lavoratori. E ciò segnerebbe la fine del progetto di Arthur. Oppure, si
potrebbe tentare di salvare la nozione di valore di Arthur sostenendo che il
valore in produzione è solo potenzialmente tale e che esso si realizza come
valore solo attraverso lo scambio. Ma anche questa via è chiusa. Abbiamo visto
che il lavoro dei capitalisti è lavoro concreto. Dato che il valore e i valori
d’uso sono irriducibilmente e qualitativamente diversi (un punto evidenziato
anche da Arthur), il valore non può essere presente nel valore d’uso della
merce, nemmeno solo potenzialmente.
Mentre la prima critica riguarda la nozione di valore (di
scambio), la seconda tratta del concetto di sfruttamento. La tesi di Arthur è
che i lavoratori sono sfruttati nella produzione nel senso che sono
forzati a lavorare e sono espropriati delle loro forze produttive. Siccome il
lavoro è soggetto al dominio del capitale (è alienato) per l’intera giornata
lavorativa, lo sfruttamento “comprende tutto il giorno lavorativo” (Arthur,
1999, p.160, traduzione mia, G.C.). Ma ciò implica che i tassi di sfruttamento
sono sempre gli stessi, 100%, poiché lo sfruttamento “comprende tutto il
giorno lavorativo”, indipendentemente dalla lunghezza di tale giornata. Ma
allora il tasso di sfruttamento, essendo fisso e invariabile, non può più
essere collegato alle fluttuazioni nei tassi di profitto e quindi a tali tassi.
Quindi il tasso di sfruttamento e lo sfruttamento perdono la loro rilevanza per
una teoria dell’accumulazione e dello sviluppo capitalistico al livello della
produzione e in ultima istanza per capire le dinamiche del capitalismo.
Consideriamo ora lo sfruttamento nella distribuzione.
Questo “sorge dalla discrepanza tra la nuova ricchezza creata e ciò che
ritorna a coloro che sono sfruttati nella produzione” (2001, p.33). Mentre il
capitale produce valore nella produzione attraverso lo sfruttamento del lavoro
(sfruttamento qui significa estrazione di lavoro e quindi appropriazione delle
sue forze produttive) cosicché è il lavoro che è sfruttato, al livello della
distribuzione il capitale è privato dal lavoro di una parte del suo valore
cosicché e il capitale che è sfruttato dal lavoro. [1] Questo
è un concetto quantitativo. Ma vediamo quali sono le conseguenze
teoriche.
Prima di tutto, il lavoro dei capitalisti, siccome può solo
essere lavoro concreto, può solo creare valori d’uso. Allora, solo valori d’uso
possono essere distribuiti. Questo suona le campane a morte per la teoria del
valore lavoro. In secondo luogo, ammettiamo pure che il lavoro dei capitalisti
sia lavoro astratto e che questo sia ciò che viene distribuito. Dato che la
determinazione quantitativa del tasso di sfruttamento nella produzione non ha
significato, non vi è nessun collegamento tra sfruttamento, e quindi profitti,
nella produzione e nella distribuzione. Il valore distribuito emerge ‘spontaneamente’
nella distribuzione. La crescita capitalistica, le crisi, ecc. diventano
variabili solo della distribuzione del valore. Se questa è la nuova teoria del
valore lavoro, è un gran passo indietro rispetto a quella di Marx.
Per ultimo, lo sfruttamento nella distribuzione è
logicamente incoerente. Per Arthur, i lavoratori sono sfruttati nella produzione
perché sono costretti a lavorare e sono forzati a lavorare perché questo è il
modo in cui il capitale può appropriarsi delle loro forze produttive. Il
capitale è quindi produttivo di valore. Poi, al livello della distribuzione, i
lavoratori si appropriano di una parte del valore prodotto dal capitale. Così
facendo, sfruttano il capitale nella distribuzione. Ma ciò è illogico. Se i
lavoratori sono stati espropriati dal capitale delle loro forze produttive nella
produzione, quello che essi prendono al capitale nella distribuzione sono le loro
forze produttive; semplicemente, essi si riprendono ciò che è stato tolto
loro. La tesi che il capitale ha penetrato le forze produttive del lavoro
trasformandole così a sua immagine e somiglianza non toglie nulla al fatto che
quelle forze produttive appartengono al lavoro. Per porre la questione in
termini meno astratti: supponiamo che ci vogliano 8 ore di lavoro del capitale
per sfruttare 80 ore di lavoro dei lavoratori. Quello che il lavoro riceve nella
distribuzione è una parte di quelle 80 ore, non di quelle 8 ore. La tesi che il
lavoro riceve una parte ti quelle 8 ore come una parte di quelle 80 ore
non cambierebbe le cose. In quelle 8 ore il capitale non ha veramente lavorato,
ha forzato i lavoratori a lavorare. Per questo Marx chiama il lavoro dei
capitalisti ‘non-lavoro’.
Si noti che la nozione di Arthur è inconsistente qualunque
sia l’opzione che egli scelga. Se quelle 8 ore fossero la sostanza del valore,
le merci avrebbero un valore contenuto già al livello della produzione e questo
valore sarebbe quantificabile. Ma ciò è incoerente con la nozione di Arthur di
lavoro astratto nella produzione, e non per nulla. La distribuzione di questo
valore implicherebbe la sua trasformazione in prezzi (di produzione) mentre la
negazione di questa trasformazione è la ragione di vita sia dell’approccio di
Arthur che di quello della ‘forma valore’. D’altra parte, quelle 80 ore
hanno il vantaggio di non essere lavoro astratto nella produzione, di non essere
la sostanza del valore, e quindi non vi è nessuna necessità di trasformarle in
prezzi. Quindi Arthur dovrebbe supporre che ciò che si realizza nella
distribuzione sono quelle 80 ore. Ma ciò è contrario alla nozione di
sfruttamento nella distribuzione. Se sono quelle 80 ore, le forze produttive del
lavoro, che sono distribuite, sono i capitalisti che, nella distribuzione, si
appropriano del valore (forze produttive) dei lavoratori piuttosto che, come
nella teoria di Arthur, essere i lavoratori che riappropriano del valore
prodotto dai capitalisti. Lo sfruttamento nella distribuzione è incoerente.
Per concludere, attraverso la sostituzione del concetto di
valore di Marx (il lavoro astratto dei lavoratori) con la sua nozione di valore
(il lavoro concreto dei capitalisti), Arthur propone una nozione di valore che
è indifendibile. Ma anche se volessimo soprassedere a questa critica, avremmo
una nozione di sfruttamento nella produzione che è irrilevante per un’analisi
del capitalismo e una dello sfruttamento nella distribuzione che è logicamente
incoerente. Ben venga il porre in risalto l’egemonia del capitale e la lotta
di classe sia nella produzione che nella distribuzione, specialmente ai giorni
nostri. La questione, tuttavia, è il punto di vista che uno prende. Il punto di
vista del capitale, come testimonia un’enorme letteratura sulle tecniche
manageriali, sostiene che il capitale (i managers) produce una parte del
nuovo valore e che quindi ha diritto ad esso sotto forma di profitti. La ‘dialettica
della negatività’ va oltre. Essa ascrive al capitale il ruolo del creatore di
tutto il valore, una parte di cui è appropriata, considerate le
relazioni di forza tra capitale e lavoro, dai lavoratori. Arthur potrebbe
rispondere che “la differenza tra il mio punto di vista e qualsiasi apologia
‘Austriaca’ del capitale è che il capitale può certamente essere
considerato come produttivo, però alla fin fine la sua capacità di produrre si
riduce alla sua capacità di sfruttare!” (1999, p.161, traduzione mia, G.C.).
Ma questa è solo la metà della storia: l’altra metà è che il capitale è
sfruttato nella distribuzione. All’obiezione del lavoro riguardante il suo
essere sfruttato dal capitale, il capitale può facilmente ribattere che esso è
il produttore di valore e che anch’esso è sfruttato dal lavoro, nella
distribuzione. Nonostante le sue buone intenzioni, la dialettica della
negatività, e ciò sia detto senza ironia, rende un servizio al capitale
migliore di quello reso dai suoi stessi ideologi. Regala il lascito più
prezioso che Marx ci ha trasmesso, la capacità di vedere la realtà dalla
prospettiva del lavoro, una prospettiva che è fondata su una coerente, e ancora
insuperata, analisi economica del capitalismo.
Mi chiedo se tutto ciò sia stato afferrato da Bertinotti e
Gianni che aderiscono a questo nuovo concetto di sfruttamento: “Arthur
conclude dicendo che è necessario elaborare un nuovo concetto di sfruttamento,
legato alla capacità del capitale di sottomettere ai propri voleri l’intera
vita e l’intera giornata del lavoratore, non solo il pezzo di tempo di lavoro
assolutamente necessario”. Attraverso questa conclusione, “la teoria del
valore ha un suo pieno fondamento e anche una sua totale riattualizzazione”
(Bertinotti e Gianni, 2000, p.138).
[1] “I profitti non
esistono perché i salari non possono assorbire tutto il prodotto netto;
piuttosto, i salari... esistono perché i profitti non possono assorbire tutto
il prodotto netto’ (Napoleoni, 1991, p.236, traduzione mia, G.C.).