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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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Professore Università di Amsterdam

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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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Il secondo Autore il cui lavoro è rilevante per i fini di questa sezione è Riccardo Bellofiore, il quale propone un altro approccio al ‘problema’ della trasformazione. Qui non si tenterà di dare un resoconto completo delle complessità e delle connessioni tra le diverse fasi della sua procedura. Solo alcune delle caratteristiche salienti saranno discusse, prese a se stanti. Distinguerò cinque fasi.

Prima fase. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione riguarda “la riallocazione interna alla classe capitalista del tempo di lavoro vivo speso nell’anno” (Bellofiore, 2000, p.50, enfasi mia, G.C.). Questa riallocazione avviene attraverso la formazione di prezzi monetari delle merci e quindi presuppone un certo valore della moneta. Ora, per Bellofiore la moneta esprime il nuovo lavoro erogato nel processo di produzione e quindi solo una parte del valore totale delle merci (ibid. p.49). Questa posizione è affine alla cosiddetta ‘Nuova Interpretazione’, un approccio proposto nei primi anni dei 1980 da D. Foley e altri Autori. Partendo dal presupposto (sbagliato) che la procedure di Marx è invalida, Foley propone di definire il valore della moneta come il tasso tra il nuovo lavoro incorporato nelle merci e la somma dei salari e profitti. [1] In questo modo la moneta ridistribuisce solo il nuovo valore e non il valore incorporato nei mezzi di produzione. Quest’impostazione cancella per definizione il ‘problema’ della trasformazione (per lo meno, nella sua accezione tradizionale) giacché non si considera la ridistribuzione del valore incorporato nei mezzi di produzione. Tuttavia la teorizzazione della trasformazione solo in termini di lavoro vivo è un grande passo indietro in confronto a Marx. Per Marx, la legge del valore ha come scopo, come dice giustamente Ramos, di indagare “quello che la società produce e il costo di questa produzione. Più precisamente si tratta di rivelare il costo di produzione periodico di questa società in termini della spesa della sua forza lavoro umana. Quanto del suo tempo costa alla società - nell’ambito delle condizioni naturali che la circondano - ottenere i prodotti che le permettono di riprodursi? Questa è la questione fondamentale della teoria” (Ramos, 2001). Se ciò è vero, la procedura della trasformazione deve ridistribuire non solo il lavoro vivo ma anche il lavoro ‘morto’ incorporato nei mezzi di produzione. Se ciò è trascurato, è l’abilità stessa di spiegare la riproduzione della società capitalista che è posta in dubbio.

Seconda fase. Le “merci introdotte come input non sono ancora merci capitalistiche, mentre le merci come output sono prodotte come merci già capitalistiche, e ancora valutate ai prezzi corrispondenti ad una situazione di profitti nulli - vale a dire i ‘valori di scambio’” (1999, p.61, traduzione mia, G.C.). Qui il mentore è Napoleoni. La nozione di una economia capitalistica a profitti zero è stata criticata nella sezione 3. La stessa critica può essere mossa alla nozione che gli input non sono merci capitalistiche. Da un punto di vista metodologico, iniziare da un’astrazione in cui gli input di un’economia capitalistica non sono merci capitalistiche significa iniziare da una contraddizione logica. La caratteristica specifica di un processo di produzione capitalistico è che gli input sono gli output di un previo processo di produzione. Esse devono quindi essere, secondo la stessa definizione di Bellofiore, merci capitalistiche. Questo è un fatto incontrovertibile che nessuna argomentazione può nascondere. [2] È erroneo credere che nel Capitale Volume I Marx teorizza un sistema capitalistico in cui i profitti sono zero, cioè un capitalismo non capitalista. Al contrario, nel Capitale Volume I Marx teorizza la produzione capitalistica che è produzione sia di valori d’uso che di (plus)valore. Per ragioni di esposizione Marx astrae dalla distribuzione del plusvalore attraverso lo scambio (la formazione dei prezzi) e da cambiamenti nel valore degli input a causa d’innovazioni tecnologiche. Egli esamina questi aspetti nel Capitale Volume III. E questa è un’altra questione. L’evidenza testuale non potrebbe essere più chiara: “Nel libro I e libro II abbiamo trattato solo del valore delle merci. [Nel terzo Volume, G.C.] da una parte, il prezzo di costo è stato isolato come una parte di questo valore, e dall’altra, il prezzo di produzione delle merci è stato sviluppato come la sua forma trasformata” (Marx, 1967b, p.163, traduzione mia, G.C., enfasi nell’originale).

Questo brano dimostra chiaramente che, per Marx, il Volume I tratta della produzione del plusvalore, e quindi di un’economia capitalistica, e che il Volume III tratta della sua distribuzione. E chi non dovrebbe saperlo meglio di lui, che quei libri li ha scritti? Ma questo brano è anche d’estrema importanza perché dimostra che per Marx il prezzo di costo “è la stessa grandezza sia per il valore che per il prezzo di produzione” (Ramos, 1998-9) e cioè che per quanto riguarda gli input, essi sono valutati al loro prezzo di produzione come output del periodo precedente e al loro valore come input di questo periodo. Questo è l’approccio temporale. La ricerca scrupolosa di Ramos dimostra che nell’edizione MEGA vi è un passaggio, dopo quello appena citato, che fu omesso da Engels (il brano mancante) e che aggiunge ulteriore evidenza che per Marx non vi è un ‘sistema duale’, due sistemi paralleli e non comunicanti, uno in termini di valori e l’altro in termini di prezzi di produzione. La MEGA aggiunge evidenza ulteriore a vantaggio del temporalismo.  [3] Tuttavia non penso che si debba credere che, se Engels non avesse omesso quel brano o se i critici avessero conosciuto il manoscritto di Marx nella sua versione integrale piuttosto che in quella curata da Engels, a Marx sarebbe stata risparmiata la critica ridicola della circolarità. Come ho sostenuto in precedenza, nel dibattito sulla trasformazione la vera posta in gioco è politica ed essa è veramente alta. In queste condizioni i critici di Marx sentono solo quello che vogliono sentire.

Quindi, o gli input sono prodotti in un’economia capitalistica o non lo sono. Per Bellofiore non lo sono, almeno nella fase iniziale della sua impostazione. Ma se queste merci non sono prodotte nel capitalismo, l’oggetto dell’indagine è il passaggio storico da un’economia pre-capitalistica a una capitalistica, piuttosto che le origini del plusvalore in un’economia capitalistica. Ma, come Marx ci ammonisce giustamente, una cosa è studiare le origini di un sistema sociale, un’altra è studiare il suo funzionamento. Tuttavia, la preoccupazione di Bellofiore non è la genesi del capitalismo. Quindi se dobbiamo indagare la sorgente del plusvalore nel capitalismo, non possiamo porre che la caratteristica specifica di un processo di produzione capitalistica è che i suoi input non sono merci capitalistiche. Questa è una fuga dalla realtà, un’astrazione che confonde, piuttosto che facilitare, la comprensione della realtà. È una contraddizione logica piuttosto che una contraddizione dialettica; quest’ultima è un concetto che riflette una contraddizione veramente esistente e quindi un movimento contraddittorio ma reale. In altre parole, il metodo delle approssimazioni successive di Bellofiore non è un’approssimazione graduale da una situazione più essenziale, ma reale, ad una situazione più complessa, dettagliata, ma ugualmente reale. Questa procedura ‘pone’ una situazione non-reale e pretende di derivare da essa una situazione reale. Così facendo, si producono due situazioni inesorabilmente separate piuttosto che due momenti della stessa situazione. Ne consegue che due tassi di scambio sono teorizzati, uno in termini di valore e l’altro in termini di prezzi, e che essi non possono essere messi in relazione l’uno con l’altro. [4]

Terza fase. A questo punto si pone la questione del dove sorge il (plus) valore. Bellofiore ritiene che il plusvalore è creato “nell’articolazione della produzione e della circolazione” (1999, p. 54 traduzione mia, G.C.) cioè “il lavoro vivo del lavoratore salariato dovrebbe... essere interpretato come lavoro astratto potenziale: questa potenzialità in effetti ‘prende vita’ - cioè si traduce in lavoro astratto attuale - nella metamorfosi finale della merce prodotta in denaro” (ibid., traduzione mia, G.C.). La questione cruciale in questo brano è il significato di ‘potenziale’. Potenziale, in congiunzione con l’ipotesi di una situazione di profitti nulli (tutto il plusvalore va ai lavoratori), non può che voler dire che il valore (ma non il plusvalore) esiste già prima della vendita, indipendentemente da com’è ridistribuito. Non vi sono che due alternative. La prima è che il valore si realizza socialmente, cioè che il valore assume una forma necessariamente modificata, attraverso lo scambio, sia quantitativamente (la differenze tra valore contenuto e valore realizzato) che qualitativamente (la forma denaro). Se questo è il significato di ‘articolazione’ tra produzione e realizzazione attraverso lo scambio, allora è quello che ho proposto in questo articolo e in quello precedente di Proteo. Ma penso che questa non sia la prospettiva di Bellofiore perché essa implica l’esistenza del plusvalore al livello della produzione. [5]

Si potrebbe sostenere che il valore esiste già al livello della produzione come una quantità definita e quantificabile prima della vendita (come nella prima ipotesi). Tuttavia, la sua esistenza, piuttosto che il suo carattere sociale, sarebbe puramente potenziale e si realizzerebbe solo con la vendita. Ma questa è una ripetizione della posizione precedente. Infatti, affinché il valore esista e sia quantificabile prima dello scambio, è necessario avere una nozione di lavoro incorporato. Questo lavoro incorporato, quindi, esisterebbe ma esisterebbe solo potenzialmente. Questa contraddizione apparente è risolta solo se ciò che è potenziale e si realizza attraverso lo scambio è il carattere sociale del lavoro (si veda la sezione 2).

L’altra alternativa è che ‘potenziale’ significa che il lavoro astratto esiste prima della vendita ma solo in una quantità indeterminata e indeterminabile: esso assume una forma definita (monetaria) solo con e attraverso lo scambio. La conseguenza di questa posizione è che, se la quantità di lavoro astratto non è determinabile prima dello scambio, non vi è alcun legame quantitativo tra produzione e scambio. In questo caso il valore non sarebbe creato attraverso lo scambio ma la sua dimensione quantitativa lo sarebbe. Per quanto riguarda la realizzazione quantitativa del valore, il legame è rotto e nessuna soluzione quantitativa può essere data al ‘problema’ della trasformazione. [6] In effetti, questa è la posizione della ‘forma valore’ (si veda la sezione 6) che in questo modo evita la trasformazione. In questo caso, la via verso una teoria marxista dei prezzi-valore è sbarrata. Se i prezzi non possono essere spiegati in termini di una ridistribuzione di valore già esistente e quantificabile al livello della produzione, la via è aperta all’accettazione di una delle varie teorie dei prezzi alternative a quella marxista che possono poi essere sovrapposte su ciò che è rimasto di Marx (si veda Reuten, 1999, e sezione 3 più sopra). E questo non può che introdurre nuove contraddizioni che, inevitabilmente, verranno ascritte alla logica internamente contraddittoria di Marx. Nulla di nuovo sotto il sole. Inoltre, se non si possono spiegare i prezzi dell’output di questo periodo, non si possono neanche spiegare i prezzi degli input del periodo susseguente. Quella che è sbarrata è quindi anche una teoria della produzione. Senza una teoria della produzione e della distribuzione, cosa rimane della teoria economica?

Quarta fase. Per Bellofiore, “lo sfruttamento dovrebbe essere inteso non tanto come la espropriazione di plus lavoro o plus prodotto, che sono fenomeni comuni anche a formazioni sociali pre-capitalistiche, ma piuttosto come l’imposizione diretta e indiretta del controllo che riguarda tutto il lavoro” (1999, p. 65, traduzione mia, G.C.). Su questo, Bellofiore e Arthur sono d’accordo. Come è già stato sottolineato più sopra, questa nozione di sfruttamento è intimamente collegata a quella secondo cui è il capitale che è produttivo di valore. Per Bellofiore, come per Arthur, sono i lavoratori che sono sfruttati ma è il capitale che produce valore. Per Bellofiore, “la produttività in valore dipende dal successo nel subordinare a sé il lavoro” (2000, p.52). Ne consegue che “il salario esiste perché il profitto non assorbe per intero il prodotto netto (e non viceversa)” (2000, p.54). Questa è la dialettica della negatività di Arthur, un Autore che, come dice Bellofiore, ha raggiunto indipendentemente conclusioni identiche a quelle di Bellofiore (2000, p.55). Quanto detto per Arthur (e Napoleoni) vale anche per Bellofiore.

Quinta e ultima fase. Se tutto il lavoro è sfruttato, cioè alienato, la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è cancellata e con essa quella tra produzione e realizzazione di(plus)valore. Questo porta in sé i semi del simultaneismo. Infatti, “se... supponiamo che i prezzi degli input e degli output sono gli stessi e trasformiamo gli input, troviamo ‘prezzi di produzione’ diversi da quelli di Marx e registriamo un cambiamento nella determinazione quantitativa nel tasso medio di profitto - cioè otteniamo un tasso di profitto in termini ‘monetari’ che devia dal tasso di profitto in termini di ‘valore’ che troviamo in Marx, e che non è nient’altro che il tasso di profitto della soluzione simultanea del ‘problema della trasformazione’” (Bellofiore, pp.61-62, traduzione mia, G.C.). La procedura della trasformazione di Bellofiore finisce con il simultaneismo sraffiano. Le obiezioni sono state fatte in precedenza e non saranno ripetute qui.

Per concludere, la ‘nuova interpretazione’ di Arthur e Bellofiore riguardante lo sfruttamento è, nonostante le loro differenze, esattamente l’opposto della teoria di Marx. Tuttavia, il criterio della mia critica non è stato fondato sul fatto se uno sia stato fedele a Marx o se uno si sia creato ‘il suo’ Marx. La critica è stata interna, si è concentrata sull’infondatezza delle accuse rivolte a Marx, sulle contraddizioni interne che inficiano le ‘correzioni’ o ‘interpretazioni’ dei critici, e sulle conseguenze negative (per i lavoratori) di accettare queste ‘correzioni’ e ‘interpretazioni’.

 

8. Conclusioni

Quello che emerge da questo saggio è che la teoria di Marx è un insieme coerente tenuto assieme dalla sua propria logica interna. Se s’introduce una logica diversa nel sistema, non si possono che ‘trovare’ contraddizioni logiche. Siccome il temporalismo è una parte integrale di questa logica, tutta la critica, tutte le contraddizioni, e tutte le soluzioni a queste contraddizioni basate sul simultaneismo sono aliene alla teoria di Marx (e alla realtà). Questo saggio ha passato in rassegna tutta una serie di critiche della procedura della trasformazione di Marx e degli aspetti connessi. Ha dimostrato che queste critiche sono infondate e ha indicato un metodo per il calcolo del valore degli input.

A parte la loro specificità, le teorie discusse hanno una caratteristica comune, quella di ascrivere a Marx una problematica che non è la sua. Conseguentemente, finiscono per confondere le carte in tavola. Ci possono essere problemi in Marx come non ci possono essere. Ma se ci sono, non sono gli pseudo-problemi additati dai critici. Questi pseudo-problemi sono stati considerati, e continuano ad essere considerati, come veri per chiare ragioni politiche. Se si dà ragione alla coerenza logica della procedura della trasformazione di Marx, l’impareggiabile forza del marxismo, come uno strumento per capire e, si spera, cambiare la realtà capitalistica, può essere usata in pieno. Se, d’altra parte, si ridefiniscono i concetti fondamentali di Marx come se fossero i suoi propri concetti, se si scoprono contraddizioni, si propongono soluzioni e, così facendo, si contrabbanda nella teoria di Marx la nozione che il capitalismo tende verso l’equilibrio, la forza di questo strumento sarà circoscritta entro i confini del capitalismo.

Questo, in breve, è il contenuto di classe, l’essenza e l’importanza, del dibattito sulla trasformazione, indipendentemente dalle intenzioni soggettive (talvoltaencomiabili) dei critici.

 

 


[1] Foley, 1982, p.41. Si veda anche Lipietz, 1982, p.76.

[2] È vero che vi sono anche input che sono prodotti al di fuori della economia capitalistica, per esempio da produttori indipendenti. Ma questa è un’altra questione che non riguarda l’essenza, la specificità (ricercata da Napoleoni) del processo produttivo capitalistico. I beni prodotti al di fuori del sistema capitalistico contano come se fossero stati prodotti nelle relazioni di produzione capitalistiche (ad es. il loro lavoro conta come valore) una volta che essi entrano nella sfera della circolazione (per dettagli, si veda Carchedi, 1991).

[3] È mia opinione che una lettura della MEGA (1992) e un confronto con il Capitale III (1967b) rivela che quest’ultima opera contiene tutta l’evidenza necessaria per una lettura temporale di quest’ultima opera. La MEGA aggiunge evidenza ulteriore ma non apre nuovi orizzonti teorici.

[4] Bellofiore conclude che “una legge duale dello scambio non significa una critica della teoria del valore lavoro marxiana, al contrario, questo dualismo emerge come una deduzione essenziale di quella teoria” (1999, p.65 traduzione mia, G.C.). Ciò è fuorviante. La cosiddetta legge duale dello scambio è una critica radicale di Marx ed è coerente solo con la lettura che Bellofiore fa di Marx che, come Bellofiore stesso sottolinea, dista “miglia” dall’interpretazione tradizionale.

[5] Questo è per lo meno quanto si può dedurre. Tutto quello che Bellofiore ha da dire di “Carchedi, Freeman e Kliman” è che per loro “entro ogni circuito capitalistico vi è una differenza tra i prezzi degli input e quelli degli output” (1999, p.61).

[6] Dire che il lavoro astratto “diventa reale nel processo di produzione capitalistico come un processo finalizzato verso lo scambio” (Bellofiore, 2000, p.51) non è di grande aiuto.