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Per la critica del capitalismo

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Ernesto Screpanti
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Professore, Università di Siena

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Valore e sfruttamento: un approccio controfattuale

Ernesto Screpanti

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Introduzione [1]

l recente libro di Bertinotti e Gianni (2000) ha avuto il merito di riaprire in Italia il dibattito sulle teorie del valore e dello sfruttamento, mostrando la rilevanza politica di argomenti che fino a ieri eravamo stati abituati a considerare piuttosto accademici. Cavallaro (2000), Bellofiore (2000) e Mazzetti (2001) hanno dato dei primi contributi a questo rinnovato dibattito. E l’appello di Cavallaro a stare in guardia nei confronti della mistica del valore-lavoro lascia sperare che la ricerca possa procedere oggi lungo i binari giusti, evitando certe forzature scolastiche cui abbiamo assistito in passato, anche se gli interventi di Carchedi (2001), Freeman (2001) e Kliman (2001) sembrano voler uccidere sul nascere questa speranza.

Le domande da porci sono ormai chiare: è proprio vero che per salvare le parti vive dell’analisi marxiana del capitalismo si deve gettare a mare la teoria del valore-lavoro? E che insieme a questa si deve gettare a mare anche la teoria dello sfruttamento, col rischio che di parte viva resti infine ben poco? La mia risposta alla seconda domanda è: no. Alla prima: sì e no. In questo saggio proverò a giustificare tali risposte.

Tenterò innanzitutto una decostruzione della teoria marxiana dello sfruttamento e del valore. Non dirò nulla di nuovo. Mi limiterò a richiamare alcuni risultati della ricerca che sono acquisiti già da qualche decennio. Cercherò però di portare alla luce certe loro implicazioni critiche in merito ai fondamenti ontologici e metodologici della teoria di Marx. Mostrerò che la metafisica su cui poggia la dottrina del valore-lavoro la rende inadatta a dar conto dei rapporti di classe in un’economia capitalistica, mentre la espone a una critica d’incoerenza logica e a una, ancora più grave, di debolezza metodologica. Sosterrò infine che non è possibile dar conto dello sfruttamento in modo coerente ed efficace se si usa la teoria del valore-lavoro. Tutto ciò farò nella prima parte del saggio.

Non è tanto la concezione dello sfruttamento in sé a creare problemi, quanto la stretta connessione che Marx instaurò tra essa e la teoria del valore-lavoro. Perciò l’abbandono di questa teoria non comporta una rinuncia all’analisi dello sfruttamento. Nella seconda parte del saggio enucleerò il nocciolo dell’analisi marxiana del rapporto di sfruttamento e ne tenterò una ricostruzione ricorrendo a un approccio di tipo controfattuale. Eviterò di far ricorso a teorie universali della giustizia o a verità che affermano certezze ontologiche. L’analisi che proporrò fa leva piuttosto sull’assunzione di un punto di vista di classe, sulla base del quale costruirò un modello di mondo ipotetico che può essere usato come pietra di paragone per studiare il capitalismo. Poi, facendo uso di una teoria del valore basata sui prezzi di produzione, mostrerò che è possibile esprimere il saggio di sfruttamento in termini di quantità di lavoro, comandato e incorporato. Cercherò infine di portare alla luce alcune caratteristiche fondamentali del capitalismo, cioè alcune condizioni istituzionali che rendono possibile l’estrazione del plusvalore dal processo produttivo.

Il superamento della teoria del valore-lavoro non implica che questa debba essere gettata a mare. Si tratta soltanto di cambiarne l’uso metodologico. Così, nella seconda parte del saggio mostrerò anche che una misura dei valori in lavoro contenuto può tornare utile proprio per definire le condizioni di scambio prevalenti nel modello di mondo ipotetico usato come controfattuale.

 

1. Sfruttamento e valori-lavoro La dottrina ortodossa dello sfruttamento

A fondamento della teoria marxiana del valore-lavoro ci sono due assiomi. Il primo è quello che potrebbe essere definito “assioma della sostanza del valore”: “un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano (Marx, 1964, I, p. 70). Il secondo potrebbe essere definito “assioma della grandezza del valore”: “come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità della ‘sostanza valorificante’, cioè del lavoro, in esso contenuta” (Marx, 1964, I, p. 71).

In base a quest’ultimo assioma il valore di una merce coincide con la quantità di lavoro impiegato direttamente e indirettamente per produrla. Quello impiegato direttamente si chiama “lavoro vivo” e coincide col valore aggiunto. Quello impiegato indirettamente si chiama “lavoro morto” e coincide col “capitale costante”, cioè col valore dei mezzi di produzione. Così il valore del prodotto netto aggregato non è altro che il lavoro vivo complessivo. Il salario viene chiamato da Marx “valore della forza lavoro”; se lo si misura in lavoro contenuto si scopre che è uguale alla quantità di lavoro impiegata per produrre i beni salario. Il “plusvalore” infine consiste nella differenza tra il valore del prodotto netto e quello della forza lavoro.

Ora concentriamo l’attenzione su quanto produce un operaio in una giornata di 8 ore lavorative, e poniamo che il valore della forza lavoro, cioè il valore-lavoro del salario giornaliero, sia pari a 4 ore di lavoro. Ciò vuol dire che per produrre i beni salario consumati da un operaio in una giornata lavorativa si deve lavorare 4 ore. Il plusvalore sarà pari a 8-4=4 ore di lavoro. Il saggio di plusvalore, definito come il rapporto tra il plusvalore e il valore della forza lavoro, sarà pari al 100%, cioè a 4/4. Si può dire che l’operaio lavora 4 ore per sé e 4 per il padrone. In forza dell’assioma della grandezza del valore, risulta che il plusvalore coincide con un pluslavoro. E ciò sembrerebbe confermare l’assioma della sostanza del valore, per il quale, si ricorderà, il valore è creato dal lavoro. Sembrerebbe evidente che il plusvalore guadagnato dal capitalista è stato prodotto, cioè creato, dal pluslavoro dell’operaio. Il profitto, in quanto coincide col plusvalore, è il risultato di uno sfruttamento dei lavoratori. Il rapporto tra profitto e salari, se coincide col saggio di plusvalore, sarebbe una misura dell’intensità dello sfruttamento.

Due osservazioni sono degne di nota. La prima è che, siccome i valori-lavoro non sono altro che le quantità di lavoro impiegate per produrre le merci, per determinarli è sufficiente conoscere la tecnica produttiva in uso, cioè i coefficienti di lavoro vivo e morto impiegati nella produzione; non è necessario conoscere la distribuzione del reddito, la grandezza del profitto, del salario e del saggio di sfruttamento. La seconda è che la produttività del lavoro misurata in valori-lavoro, cioè il rapporto tra il valore del prodotto netto e il livello dell’occupazione, è uguale a 1.


[1] Riservandomi ogni responsabilità per eventuali errori, desidero ringraziare Fabio Petri per le critiche e i commenti che ha voluto fare a una precedente stesura di questo saggio.