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Tendenze della competizione globale

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Vladimiro Giacché
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Perché la guerra fa bene all’economia (I)

Vladimiro Giacché

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I mesi successivi si erano incaricati di dare concretezza ai timori espressi nel rapporto. A cominciare dal progetto di difesa missilistica (il National Missile Defence, NMD), proposto già sotto la presidenza Clinton e poi rilanciato con arroganza da Bush e dal ministro della Difesa Rumsfeld. Con il necessario corollario della ricerca di un "Nemico", che nel caso specifico veniva rinvenuto (ben poco plausibilmente) nei cosiddetti "Stati canaglia", ossia Iran, Iraq e Corea del Nord. [1]

Ma non erano mancate altre manifestazioni della rinnovata attenzione (diciamo così) del governo americano agli scenari di guerra: il 22 giugno, ad esempio, il "Financial Times" riportava le linee guida dello sviluppo delle forze armate americane secondo il ministro della Difesa Rumsfeld. Queste linee guida prevedevano un rilancio in grande stile della dotazione militare degli USA (dagli aerei, alle navi, alla logistica), con l’esplicito obiettivo a breve termine di porre le forze armate americane "in grado di combattere allo stesso tempo due guerre (major theatre wars, MTW)". [2]

Ma la guerra, già prima dell’11 settembre, era nell’aria anche nella forma di specifiche ipotesi di guerra.

Un’inchiesta della BBC, rilanciata il 22 settembre dal Guardian e poi dalla rete televisiva France 3, ha messo in luce che a luglio un diplomatico americano aveva annunciato al governo di Kabul un attacco imminente, qualora i Talebani non avessero consegnato bin Laden alle autorità americane. [3] Non solo: le agenzie di stampa internazionali avevano dato ad agosto anche l’annuncio di un attacco "definitivo" all’Iraq. [4]

Infine - ed è questo l’importante - la guerra era nell’aria sotto forma di necessità economica.

Perché, purtroppo, che la spesa militare e la guerra facciano bene all’economia capitalistica è cosa che non riguarda soltanto gli Stati Uniti, [5] e che non riguarda solo il passato. Un riprova? La riprova la troviamo su un fondo del Corriere della Sera del 13 ottobre: "Un dollaro di spesa del Pentagono non solo fa crescere la domanda nel momento in cui viene impiegato, ma ha un forte effetto moltiplicatore: dopo un anno il PIL cresce più del doppio: 2,43 dollari. E l’effetto dura nel tempo. È possibile quindi che lo choc della guerra sia, alla fine, una buona notizia almeno per l’economia". [6]

Le spese militari sono in effetti una forma di spesa pubblica per il rilancio dell’economia. Esse rappresentano una forma di deficit spending, ossia una delle forme attraverso cui lo Stato finanzia l’economia (se del caso anche indebitandosi). Ma perché proprio questa forma di spesa pubblica è economicamente preferibile? Perché il "Warfare" viene preferito al "Welfare"?

Per capirne i motivi è sufficiente passare in rassegna i vantaggi del "Warfare". Proviamo a farlo cercando di tenere presente la concreta forma che esso ha assunto in questi mesi.

1) In primo luogo, le spese per il "Warfare" possono essere facilmente sostenute e giustificate anche da chi ha un approccio "liberista" in economia: in altri termini, anche chi rifiuti l’intervento attivo dello Stato nell’economia (ad es. proponendo tagli alle spese per l’assistenza, la sanità, gli anziani, ecc.), potrà infatti convincere i suoi elettori che invece le spese militari vanno aumentate. Perché in questo caso è in gioco la "sicurezza nazionale", la "protezione delle frontiere", la "vittoria sui nemici della Nazione", ecc.

2) Le spese per gli armamenti sostengono una parte ragguardevole dell’industria degli Stati Uniti. Le spese militari sostenute dagli Stati Uniti dalla Seconda Guerra Mondiale in poi hanno in effetti creato un "complesso militare-industriale" [7] che non ha confronti al mondo. Da questo punto di vista le spese per il "Warfare" impediscono agli Stati Uniti di dover affrontare i costi (economici e sociali) di una gigantesca ristrutturazione industriale. L’economia americana è drogata dall’industria bellica, ed è di vitale importanza risparmiarle crisi di astinenza... [8]

3) In terzo luogo, le spese per gli armamenti vanno ad imprese che - per definizione - operano in un regime oligopolistico (quando non di monopolio puro e semplice) che per di più è protetto dalla concorrenza straniera. Da sempre le industrie belliche sono nazionali; questo è vero anche oggi per le imprese statunitensi, a dispetto degli incroci azionari che pure vi sono tra imprese americane ed imprese europee. In ogni caso, è impensabile che forniture belliche per l’esercito degli Stati Uniti vengano direttamente appaltate a imprese straniere. In tal modo i sussidi alla Difesa non devono fare i conti con la Concorrenza (feticcio che in qualche caso può riservare sgradite sorprese) e i loro effetti si traducono invariabilmente in commesse per le imprese americane. L’esempio più recente (la notizia è del 26 ottobre) riguarda la gigantesca commessa per la fornitura del nuovo caccia militare "Joint Fight Striker". Si tratta della maggiore commessa militare mai effettuata dagli Stati Uniti. Vincitrice dell’appalto è risultata la Lockheed Martin, azienda che ancora pochi mesi fa era in preda ad una grave crisi, e che ora invece assumerà 8.000-10.000 lavoratori. L’unico possibile concorrente era un’altra azienda americana, la Boeing. La Lockheed, secondo gli esperti, è stata preferita "per il semplice fatto che ha maggiore bisogno di questo contratto rispetto alla Boeing". [9] Del resto, la Boeing sta già lavorando (oltreché al nuovo F-22 coprodotto con la Lockheed, che sarà pronto nel 2005) ad una nuova generazione di aerei radiocomandati in grado di volare senza equipaggio e dovrebbe quindi vincere il prossimo appalto.  [10] Tra i subfornitori, un ruolo importante lo giocherà l’angloamericana BAE (che dovrebbe coprire il 15% del valore della produzione del JFS). Ad altri toccheranno le briciole. [11] Per avere un’idea delle cifre in gioco, basterà ricordare che il valore di questa fornitura è in partenza di 200 miliardi di dollari, stanziati dal governo americano: si tratta, già così, di una cifra pari ad un quarto del PIL del nostro Paese. Ad essi però vanno subito aggiunti i 2 miliardi di dollari stanziati per la fase di sviluppo dalla Gran Bretagna. Gli aerei prenotati (da Stati Uniti e Gran Bretagna) sono 3.002 (di cui 150 per la Gran Bretagna). Si prevede che altri 3.000 aerei dovrebbero essere venduti ai Paesi Nato, portando così in cassa alla Lockheed altri 200 miliardi di dollari. È appena il caso di dire che l’attentato dell’11 settembre ha accelerato in misura considerevole i tempi per la chiusura del contratto e la messa in produzione dei velivoli. [12]

4) Il perimetro delle aziende alimentate dalla spesa bellica è molto più ampio di quello delle imprese che producono armi in senso stretto. Il primo esempio che viene in mente, a questo riguardo, è quello del cibo in scatola Campbell, che deve la sua fortuna proprio alle commesse belliche. Ma questo esempio può risultare fuorviante. Perché l’industria bellica ha prima di tutto a che fare con beni di investimento e con tecnologie di avanguardia. E questo oggi significa in primo luogo: il settore aerospaziale, l’industria dell’elettronica (hardware e software) e l’industria dei nuovi materiali. [13] Non è caso, quindi, che dopo l’attentato delle Twin Towers i titoli di molte società informatiche siano cresciuti in poche settimane anche del 30-40%. Del resto, è stato ricordato di recente che "l’alta tecnologia americana ha un’origine militare": in particolare, "la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea furono una manna dal cielo" per l’industria elettronica, in quanto "il Dipartimento della Difesa fu generoso di finanziamenti alle imprese locali per lo sviluppo dei circuiti integrati". Non solo: "ancora nel 1987 il principale datore di lavoro della Silicon Valley era il colosso aerospaziale Lockheed". [14] In definitiva: il settore bellico consente di effettuare a spese dello Stato enormi investimenti in beni di investimento, in ricerca e sviluppo, nelle tecnologie di punta.

5) Le armi hanno un valore di scambio: si possono vendere come ogni altra merce, realizzando enormi profitti. In effetti, secondo l’Istituto Internazionale di Studi Strategici gli USA nel 1998 hanno prodotto oltre il 40% delle armi vendute nel mondo. Nel caso, poi, che i Paesi compratori abbiano bisogno di facilitazioni di pagamento, ci pensano i sussidi pubblici all’esportazione: a tale proposito, in un articolo pubblicato qualche anno fa sulle spese militari sostenute sotto la Presidenza Clinton si poteva leggere che "i sussidi all’esportazione di armi nel 1995 sono costati ai contribuenti americani 7,6 miliardi di dollari". [15] Va notato che il settore militare gode, sin dal primo accordo GATT del 1947, della "national security exception": in altri termini, le pratiche protezionistiche e di sussidi all’export che non sono consentite per gli altri settori, sono invece lecite per l’industria delle armi. Per capirsi: se gli USA sussidiano la produzione di un Boeing 747 per l’export, altre nazioni possono far aprire un procedimento contro gli USA presso il WTO; se gli stessi sussidi vengono adoperati per favorire l’export degli F-15 prodotti dalla stessa Boeing, nessuna azione è lecita. Inoltre il settore della difesa rimane per lo più al di fuori delle attenzioni dello stesso Fondo Monetario Internazionale nella formulazione dei piani di "riaggiustamento strutturale" per i Paesi del Terzo Mondo. E anche quando i suggerimenti del Fondo investono le spese militari di questi Paesi, essi vengono semplicemente ignorati: negli ultimi anni questo è accaduto in Corea del Sud e, più di recente, in Turchia. [16]

6) Le armi si possono usare "per conto terzi". È quello che è accaduto nel caso della Guerra del Golfo, per la quale gli alleati degli Americani (a cominciare dall’Arabia Saudita) hanno dovuto pagare, in qualità di "contributo alle spese", la bella cifra di 189 mila miliardi di lire, pari al 90% delle spese sostenute dagli Stati Uniti (non stupisce, quindi, che nel 1991 la bilancia dei pagamenti americana, di solito cronicamente in rosso, segnasse un attivo...). Anche per quanto riguarda l’Afghanistan gli Stati Uniti hanno cominciato a chiedere agli alleati un contributo per le spese di guerra. [17]

7) Le armi hanno un valore d’uso. Che - singolare caratteristica - si può esplicare anche senza doverle usare: ad es. come mezzo di pressione politica, a scopo "dissuasivo" o intimidatorio, ecc. Pensiamo, ad esempio, a cosa significherebbe il possesso din uno scudo spaziale efficiente (ossia in grado di abbattere effettivamente ogni missile) da parte degli Stati Uniti.

8) Infine, hanno il valore d’uso che si esplica nell’usarle. La cosa sembra semplice, ma in verità non è così. Perché all’interno di un’economia capitalistica, come sappiamo da Marx, lo scopo finale della produzione di una merce non consiste nel suo valore d’uso, ma nei profitti che dalla sua vendita possono essere tratti. E le armi, da questo punto di vista, non fanno eccezione.

Questo significa, innanzitutto, che le armi debbono essere usate al fine di poterne produrre di nuove da vendere agli eserciti che le usano. Il 30 ottobre il giornalista Magdi Allam ha riassunto così i costi della guerra in Afghanistan: "finora gli Americani hanno lanciato 97 missili Cruise del valore di un milione di dollari ciascuno. Inoltre ogni giorno sono state sganciate circa 300 bombe del costo di 80-100 mila dollari l’una. Nel corso delle operazioni gli americani hanno perso un elicottero che da solo costa 20 milioni di dollari". [18] Queste "perdite" e queste spese equivalgono ad altrettanti guadagni ed introiti per le industrie degli armamenti, ed impediscono la saturazione del mercato delle armi (ossia la sovrapproduzione in questo settore). Va aggiunto che l’elenco fornito da Allam è largamente incompleto, e non solo per il fatto di prendere in considerazione solo le prime settimane di guerra (cioè senza tener conto della successiva escalation del conflitto), ma anche - e soprattutto - perché non sono computate le spese per le altre bombe, il costo dei bombardieri, delle portaerei che li ospitano, le spese di logistica, ecc. In realtà, tenendo conto di tutti questi fattori, la cifra stimata (da Washington) per un mese di guerra in Afghanistan sale a 1 miliardo di dollari. [19]

Non solo: l’uso delle armi è utile anche perché offre un terreno ideale per lo sviluppo di nuove e più sofisticate armi. In concreto, in Afghanistan è stato sperimentato il missile aria-terra Agm-142 "Have Nap", variante del missile israeliano "Popeye" (già reso più preciso attraverso la "sperimentazione" condotta in Jugoslavia); è stata usata la nuova bomba da 7 tonnellate "Daisy-Cutter"; e, soprattutto, è stato sperimentato l’utilizzo di due diversi tipi di aerei teleguidati ad altissima tecnologia quali il "Predator" e il "Global Hawk". In un documentato articolo sull’argomento pubblicato sull’Economist, il sottotitolo recitava, testualmente: "il conflitto in Afghanistan è un campo di sperimentazione (testing-ground) per la tecnologia degli aerei privi di pilota (unmanned-aircraft)". [20] Più chiaro di così...

Ovviamente, però, neppure le armi sfuggono alla regola per cui, per poter avere un valore di scambio, una merce deve avere un valore d’uso. Nel caso specifico, il valore d’uso che è stato "venduto" all’opinione pubblica mondiale consiste nella possibilità di sconfiggere il terrorismo. Quello reale è rappresentato dalla possibilità di controllare aree strategiche dal punto di vista geopolitico e geoeconomico. L’Afghanistan è per l’appunto una di queste aree. Perché si trova tra Cina e Russia. Perché è un punto di passaggio strategico tra Europa ed Asia. E perché obbligatoriamente sul suo territorio dovranno passare gli oleodotti in grado di sfruttare le risorse petrolifere delle repubbliche ex-sovietiche. Si tratta di risorse di tale entità da consentire - a chi ne controllasse i flussi
 di ridurre in misura consistente la dipendenza dal petrolio saudita. Basti dire che il valore di tali riserve è stimato in circa tre mila miliardi di dollari. [21] Ma su questo avremo occasione di tornare.


[1] Per inciso, è da notare l’assenza, in questo elenco, dell’Afghanistan dei Talebani, all’epoca (e si parla appena di pochi mesi fa) evidentemente ritenuto non ostile agli Stati Uniti - al generoso aiuto dei quali, in mezzi e armi, doveva del resto la sua stessa esistenza. L’NMD è stato definitivamente lanciato il 13 dicembre 2001, data in cui Bush jr. ha annunciato il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal trattato ABM, firmato nel 1972 con l’Unione Sovietica e pilastro dell’equilibrio nucleare negli ultimi 30 anni. Quanto sopra nonostante le proteste di Cina e Russia, le perplessità degli Europei e anche una risoluzione dell’ONU, del 5 novembre, a difesa del trattato.

[2] S. Fidler, "Rumsfeld outlines plan for military to fight two conflicts", in Financial Times, 22 giugno 2001.

[3] Il giornale inglese non escludeva pertanto che l’attacco alle Twin Towers fosse una risposta a queste minacce. Vedi "Threat of US strikes passed to Taliban weeks before NY attack", di J. Steele, E. MacAskill, R. Norton-Taylor e E. Harriman, Guardian, 22 settembre.

[4] In Italia la notizia è stata data dall’agenzia Adnkronos il 16 agosto.

[5] Basti pensare al fatto che il gigantesco piano di riarmo di Hitler permise alla Germania nazista di rilanciare l’economia, azzerando la disoccupazione e l’iperinflazione, che avevano abbattuto la Repubblica di Weimar...

[6] F. Giavazzi, "Ma all’economia può andar bene", in Corriere della Sera, 13 ottobre 2001. L’articolo di Giavazzi fa riferimento esplicito a una ricerca di O. Blanchard e R. Perotti, "An empirical characterization of the dynamic effects of changes in government spending and taxes on output", NBER Working Paper, 1999 (www.nber.org/papers/w7269).

[7] Questa definizione è stata coniata nella cerchia di Eisenhower.

[8] Sono precisamente queste crisi di astinenza a provocare le recessioni postbelliche.

[9] Agenzia ANSA del 26 ottobre. Per inciso, varrà la pena di ricordare che la Lockheed Martin è in testa tra le aziende del settore militare che hanno effettuato generose elargizioni durante la campagna elettorale presidenziale americana del 2000, con la cifra di 2.109.000 dollari (il 60% dei quali andato ai Repubblicani). Seguono la General Dynamics ($ 1.162.000), la Raytheon Corporation ($ 838.000), la United Technologies ($ 638.720) e la Northrop Grumman ($ 602.680). Staccata di molte posizioni la Boeing ($ 347.484), che probabilmente oggi si pente della propria parsimonia... Queste cifre, ufficiali, sono riportate in M. Pemberton, L. Budnick, "Military Contractors Spent Freely To Influence 2000 Election, Future Politics", in Foreign Policy in Focus, gennaio 2001.

[10] Alla luce di queste aspettative il chief financial officer della Boeing il 5 novembre ha dichiarato che nel 2002 "il business della difesa avrà margini a due cifre" ("Boeing stands by guidance on sales figures" in Financial Times, 6 novembre 2001).

[11] È probabile che il rifiuto del governo Berlusconi di acquistare l’aereo da guerra europeo A400M (costruito dal consorzio Airbus, unico concorrente mondiale della Boeing) - rifiuto comunicato ufficialmente il 14 dicembre - nasca anche dal desiderio di acquisire benemerenze da giocare per far entrare Finmeccanica nel lucroso business delle subforniture per il nuovo caccia americano. Questo, almeno, è quanto insinuato già il 5 novembre dal quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt: in caso di un no italiano, sosteneva infatti il quotidiano, "attendono l’Italia lucrosi contatti con Lockheed, Boeing e altre società americane". Del resto Alenia (controllata Finmeccanica) lavora da anni sia con la Lockheed che con la Boeing.

[12] "La produzione vera e propria dei caccia sarebbe dovuta cominciare nel 2005, ma su raccomandazione di una commissione speciale creata al Pentagono dopo gli attentati dell’11 settembre e poi per ordine dello stesso Rumsfeld, i tempi saranno accorciati il più possibile" (A. Plateroti,"’Jsf’, il maxiappalto va alla Lockheed", il Sole 24 Ore, 27 ottobre).

[13] Un elenco significativo delle industrie manifatturiere beneficiarie delle spese militari americane (che però non include le subforniture) si trova in Ramey, cit., p. 6.

[14] F. Rampini, "La culla delle dot.com ora spera nello Stato", la Repubblica - Affari e Finanza, 29 ottobre. L’articolo si conclude così: "purtroppo ci voleva una guerra perché la Silicon Valley tornasse a sperare".

[15] J. Lottman, "Warfare vs. Welfare: Subsidies to Weapons Exporters", in Foreign Policy in Focus, vol. 2, n. 30, marzo 1997, p. 1.

[16] J. Feffer, "Militarization in the Age of Globalization", in Foreign Policy in Focus, 6 novembre 2001. Nello stesso giorno in cui usciva questo articolo, le agenzie di stampa annunciavano che gli Stati Uniti avevano tolto l’embargo di armi all’India.

[17] M. Dinucci, "Chi paga? L’Europa", in il Manifesto, 21 novembre 2001.

[18] M. Allam, "Uomini e numeri", in la Repubblica, 30 ottobre 2001.

[19] M. Dinucci, cit.

[20] "Send in the Drones", the Economist, 10 novembre 2001.

[21] Dati dell’Institute for Afghan Studies, cit. in M. De Angelis, "Guerra neoliberale", in Quaderni di Contropiano, novembre 2001 (Imperialismo ed economia di guerra), p. 37.