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Osservatorio meridionale

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La disoccupazione meridionale. Note per una ricerca

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1. “È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: - il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido deserto” [1].

Sulla stupefacente attualità di queste parole di Gramsci credo vi possano essere pochi dubbi; forse, l’unico aspetto di inattualità è da collegarsi alla stagnazione dell’“esplosione di grandi geni”, ma se accettiamo l’idea che si possa essere anche geni del male, credo che un Riina o un Brusca abbiano ben poco da invidiare a Pirandello o Sciascia.

Scherzi a parte, l’ideologia della ‘poltroneria’, mondata magari di quel tanto di ‘lombrosianismo’ che pure doveva influenzare le menti degli italiani del primo Novecento e riverniciata di un’aura di scientificità economica, costituisce la base della spiegazione della disoccupazione che è dovuta a Milton Friedman [2]: i disoccupati, secondo Friedman, non sono persone che non riescono a trovare un lavoro, piuttosto sono persone che preferiscono non lavorare, perché
 dato il basso livello di salario che potrebbero conseguire - ritengono più vantaggioso godere di tempo libero oggi e programmare di trovare un reddito da lavoro domani, quando eventualmente i salari saranno più alti. E la disoccupazione del Mezzogiorno d’Italia sembra offrire ai suoi seguaci, che qui non mancano, puntuali riscontri a questa tesi.

In effetti, dal punto di vista dell’andamento della disoccupazione, tutti i dati disponibili registrano la presenza di almeno ‘due Italie’: nel Centro-Nord, massimamente nella zona del Nord-Est del nostro Paese, i tassi di disoccupazione oscillano tra il 4% ed il 7%; nel Sud e nelle Isole balzano mediamente al 20%, con punte del 50% tra i giovani in cerca di prima occupazione. E si tratta di un fenomeno che riguarda un po’ tutti: donne e uomini, ex-operai di fabbrica, edili, braccianti agricoli, gente di mezza età, scolarizzati e senza titolo di studio, mentre nel Centro-Nord il problema tocca specialmente coloro che, espulsi dal ciclo produttivo a seguito di una certa ristrutturazione, non possiedono il corredo di qualificazione professionale necessario per essere nuovamente assunti nelle imprese attualmente in espansione. Non solo: ma, mentre nel Centro-Nord la dinamica della disoccupazione si mostra oscillante nel tempo, nel senso che il tasso medio cresce o decresce in relazione all’andamento del ciclo economico, nel Mezzogiorno la disoccupazione aumenta pressoché sistematicamente, in misura più pronunciata quando la situazione economica generale è negativa, ma senza mostrare significativi cali quando la situazione economica volge al bello.

Un andamento siffatto costituisce musica per le orecchie dei teorici monetaristi: quale migliore riprova della tesi per cui la disoccupazione dipenderebbe esclusivamente dalla cattiva volontà dei meridionali, riluttanti ad accettare salari inferiori o posti non prestigiosi, scarsamente disponibili alla mobilità territoriale - insomma, ‘poltroni’, nel senso pieno del termine?

In una tale temperie culturale, era quindi inevitabile che venisse rispolverato un arnese sociologico vecchio quanto insidioso, il “familismo amorale” che contraddistinguerebbe le popolazioni meridionali. Che cosa sia il familismo amorale è noto a tutti: si tratta di un concetto coniato da un antropologo americano, Edward Banfield, con il quale egli intendeva descrivere l’incapacità degli abitanti di un paese lucano, assunto a paradigma dell’intera popolazione meridionale, di agire insieme per il bene comune, o più in generale per qualsivoglia fine che trascendesse l’interesse materiale immediato del nucleo familiare (Banfield, infatti, distingueva tra atteggiamenti ‘morali’ all’interno del nucleo familiare e atteggiamenti ‘amorali’ al suo esterno). In senso ampio, l’espressione è passata a designare un rapporto specifico tra famiglia, società civile e Stato, in cui i valori e gli interessi della famiglia sono posti in opposizione rispetto agli altri momenti principali della convivenza umana, al punto che ad una unità familiare fortemente coesa si contrappongono una società civile assai debole e un atteggiamento nei confronti dello Stato caratterizzato da profonda sfiducia (Ginsborg 1994, p. 78). E proprio questo familismo sarebbe stato all’origine degli errati comportamenti della forza-lavoro, specialmente di quella giovanile: i giovani meridionali, infatti, avrebbero trovato proprio all’interno della famiglia il modo di soddisfare i propri bisogni (dal vitto, all’alloggio, allo studio, allo svago), senza dover ricorrere necessariamente al reddito da lavoro; sempre la famiglia, inoltre, avrebbe frenato il potenziale flusso migratorio da Sud verso Nord, congelando così l’offerta di lavoro nel Meridione e lasciando, al Nord, le imprese a secco di forza-lavoro [3].

La famiglia, insomma, sarebbe entrata in conflitto con la società civile, inibendo l’ottimale allocazione delle risorse produttive (anche la forza-lavoro è una risorsa produttiva), e con lo Stato, richiedendo cospicui flussi di spesa pubblica al solo fine di mantenere gli ‘oziosi’ [4].

2. Non è difficile, su un piano strettamente empirico, formulare delle obiezioni ad un siffatto modo di ragionare. Non è difficile, per esempio, rilevare che in Giappone il tasso di mobilità della manodopera è largamente inferiore a quello di tutti i Paesi dell’Ocse e, ciò nonostante, la disoccupazione è bassissima, mentre in Francia - con un tasso di mobilità triplicato - la disoccupazione è più che doppia rispetto a quella giapponese (Dal Bosco 1993, p. 40). Non è nemmeno più arduo verificare che i costi per mantenersi al Nord (vitto, alloggio) spesso travalicano gli stipendi ed i salari (eventualmente) offerti dalle imprese settentrionali e che la famiglia veneta, emiliana o lombarda, provvedendo quanto meno all’alloggio della propria prole occupata, le garantisce un vantaggio che l’emigrante non ha.

Ma l’obiezione più decisa va fatta sul piano analitico. Si tratta, infatti, di una spiegazione della disoccupazione che attribuisce rilievo esclusivamente al comportamento degli aspiranti lavoratori (dell’offerta di lavoro), trascurando del tutto di analizzare il lato della domanda di lavoro.

È vero, infatti, che in alcune regioni italiane la produzione e l’occupazione viaggiano (anche se forse sarebbe il caso di dire: viaggiavano) a gonfie vele, ma si tratta di qualcosa che non è minimamente paragonabile all’espansione che, negli anni Cinquanta, vide la nascita del ‘triangolo industriale’ (verso il quale - come vedremo meglio in seguito - nei trent’anni compresi tra il 1946 ed il 1976 partirono, alla ricerca di miglior fortuna, oltre quattro milioni di meridionali) [5]. Nel Centro-Nord è ormai tramontata la ‘grande fabbrica’ e le aziende si ristrutturano sulla scorta di un diverso modello organizzativo che possa adeguarsi alle mutate condizioni esterne di una economia internazionale in cui la competitività - per effetto dell’apertura delle frontiere - si è fatta totale. La sostituzione della tecnologia meccanica con quella informatica comporta una ulteriore diminuzione della forza-lavoro necessaria al processo produttivo e il mercato del lavoro si avvia verso una segmentazione di tipo ‘castale’, per cui, accanto ad una ristretta cerchia di occupati ‘stabili’, si allarga una consistente area di precariato, destinata a svolgere lavori occasionali in imprese minori, a condizioni salariali e contrattuali deteriori, o a fungere da manodopera di riserva nel caso di temporanei aumenti della produzione.

Presupposto di questa rivoluzione organizzativa, sulla cui portata ed i cui esiti il dibattito è tuttora in corso, è la contrazione della domanda di merci a livello mondiale, foriera dell’abbassamento dei rendimenti attesi dall’investimento produttivo: la cura dimagrante imposta all’intervento statale dai principî del monetarismo riduce, è vero, l’inflazione, ma rende l’investimento non più soggetto ad un ‘rischio’ razionalmente calcolabile, ma un affare ‘incerto’, ossia privo di elementi su cui poter fondare un qualsiasi calcolo revisionale; di conseguenza, mentre durante l’“Età dell’Oro” dei tre decenni seguiti alla seconda guerra mondiale le aspettative degli investitori erano modulate sull’andamento della spesa pubblica e la misura della sua crescita era l’indicatore chiave che garantiva alle imprese che la loro produzione aggiuntiva sarebbe stata venduta (Cavallaro 2001, p. 41), oggi i consistenti aumenti della produttività del lavoro connessi alla ristrutturazione organizzativa e all’innovazione tecnologica, piuttosto che tradursi in riproduzione allargata del capitale, pongono le premesse per la formazione di ingenti quantitativi di risparmio, che accrescono la stagnazione produttiva e certo non contribuiscono a ridurre significativamente la disoccupazione [6].

Né può dirsi che la responsabilità della cattiva performance della disoccupazione sia addebitabile alla scarsa flessibilità salariale. In generale, può osservarsi che, nonostante i salari dei paesi Ocse siano significativamente diminuiti nel ventennio 1969-1989, la disoccupazione, nel medesimo periodo, è aumentata (Dal Bosco 1993, p. 44). A ciò si aggiunga che in Italia sono state in vigore, per un lungo periodo, le famigerate ‘gabbie salariali’ e che, abolite queste ultime, si decise di fiscalizzare gli oneri sociali e di introdurre sgravi contributivi per le imprese che assumessero manodopera nel Mezzogiorno, trasferendo così a carico dello Stato tutta quella parte del costo del lavoro che dipende dai versamenti agli istituti previdenziali. Ora, a parte il rilievo per cui questa politica di favore per le imprese ha assorbito ingenti quote del cosiddetto intervento straordinario [7], la cui finalità si è surrettiziamente trasformata nel mantenere il costo del lavoro al Sud ad un livello inferiore rispetto al Nord, va sottolineato che il differenziale tra il costo del lavoro per unità di prodotto tra Nord e Sud è arrivato, nel 1991, fino al 22,6%: in altri termini, se l’assunzione di un operaio dei Nord costava - tra retribuzione e contributi - 100 lire, quella di un operaio meridionale ne costava poco più di 77. Se il Sud non è riuscito a sviluppare un apparato industriale ‘competitivo’ e a riassorbire l’ingente numero di disoccupati con un simile differenziale retributivo rispetto al Centro-Nord, vuol dire che insistere su questo punto è decisamente fuorviante.

3. Ciò nonostante, la Finanziaria 2002 palesa che la politica economica del governo in carica si muove lungo la falsariga di simili ed inefficaci ricette. Di più: tende ad accreditarle presso l’opinione pubblica presentandole come premessa per un nuovo “miracolo economico”.

A guardarle bene, in effetti, le misure varate dal governo Berlusconi ricordano in più d’un aspetto quel mix di interventi che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, seguirono alla scelta di discostarsi (seppure parzialmente) [8] dalla politica protezionista del regime fascista e di aprire cautamente l’economia italiana agli scambi con l’estero: un programma che punta al controllo dell’inflazione, al ridimensionamento della spesa pubblica per il welfare (per tener fede al Patto di stabilità), alla riduzione della pressione fiscale, al contenimento del costo del lavoro e ad un programma di ‘grandi opere’ infrastrutturali per il Mezzogiorno (Ponte sullo Stretto in primis) affida in modo inequivocabile il rilancio della nostra economia alla ripresa della domanda estera (segnatamente quella statunitense), così come auspicato da Bankitalia nelle Considerazioni finali presentate un anno fa.


[1] Gramsci [1926], p. 9.

[2] Cfr., ad es., Friedman [1977].

[3] Si ricorderà che nel novembre 1995 i principali quotidiani italiani diedero molto rilievo alla notizia, stralciata dal Bollettino della Banca d’Italia, secondo cui il 46,3% del 49,5% delle 725 imprese del Nord oggetto di un’indagine statistica condotta dall’istituto di emissione, aveva incontrato ‘difficoltà’ nel reperimento di manodopera. L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci, titolò: “Mancano operai. Aziende in allarme”. Ogni commento è superfluo.

[4] Noto per inciso (e con addolorato stupore) che, tra i sostenitori del “familismo amorale” pare adesso doversi annoverare anche Paolo Sylos Labini, secondo il quale “una quota molto importante dei disoccupati meridionali è costituita da giovani forniti di licenza di scuola media inferiore o di diploma; questi giovani appartengono a famiglie che possono mantenerli anche dopo la fine degli studi: ciò ha spinto in alto la quota della disoccupazione fisiologica ed ha frenato le migrazioni dal Sud al Nord” (Sylos Labini 1997, pp. 52-53). E non è tutto: “poiché spesso nella media nazionale le retribuzioni sono cresciute più che nel settore privato [...] molti giovani forniti di titoli di studio medi, non di rado perseguiti proprio per ottenere un posto nella pubblica amministrazione, preferiscono aspettare piuttosto che cercare un impiego o avviare un’attività autonoma nel settore privato” (ibid., p. 53). Insomma, par di capire che l’elevata disoccupazione è, per buona parte, ascrivibile a colpa dei giovani meridionali; se così fosse, l’unica differenza tra la disoccupazione ‘fisiologica’ di Sylos Labini e quella ‘naturale’ di Milton Friedman starebbe nel fatto che Sylos Labini preferisce la voce greca...

[5] Cfr. Bevilacqua 1993, p. 111.

[6] Per una panoramica della crescita della produttività dall’inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, cfr. Pini 1997.

[7] Poco più dell’80% dell’intera spesa per gli incentivi per l’occupazione effettuata nel Mezzogiorno (Musumeci 1996, p. 124).

[8] La parzialità dello scostamento e la sostanziale continuità fra la politica economica fascista e quella del secondo dopoguerra è stata convincentemente messa in luce da Petri 2002.