Molti dimenticano, però, che quel famoso ‘miracolo’ ebbe
due facce: tra il 1955 ed il 1963, infatti, si verificò non soltanto il
conseguimento di tre obiettivi tradizionalmente ritenuti incompatibili (aumento
degli investimenti, stabilità monetaria ed equilibrio della bilancia dei
pagamenti), ma anche un grave peggioramento della distribuzione del reddito, il boom
delle emigrazioni, l’acuirsi del divario tra la struttura produttiva del Nord
e quella del Mezzogiorno, la congestione delle grandi città e - in seno a
queste - il consolidamento del potere mafioso.
Uno scherzo della storia? Non proprio. Come hanno spiegato
molti economisti sulla scia di Augusto Graziani [1], era lo stesso meccanismo dello sviluppo fondato sul traino delle
esportazioni a creare le premesse perché la crescita avvenisse in modo
distorto. Per intercettare la domanda estera, infatti, le imprese italiane
avevano bisogno di specializzarsi nelle produzioni a tecnologia avanzata,
caratterizzate da un elevato grado di meccanizzazione, e ciò impedì loro di
riassorbire l’elevata disoccupazione generata dalla contemporanea espulsione
di forza-lavoro dall’agricoltura: basti pensare che, tra il 1958 ed il 1963,
mentre 1.679.000 lavoratori venivano cacciati dalle campagne e il terziario
stabilizzava la propria quota sul totale dell’occupazione, l’industria
(edilizia compresa) riuscì a creare meno di un milione di posti di lavoro,
nonostante le esportazioni crescessero ad un tasso medio di poco inferiore al
18% e gli investimenti registrassero la crescita più elevata dal dopoguerra
(+12% all’anno). Ne venne una stagnazione dei salari a tutto vantaggio dei
profitti e la quota dei redditi da lavoro sul valore aggiunto dell’industria
manifatturiera scese, tra il 1951 e il 1963, di quasi dieci punti percentuali,
attestandosi a poco più del 60%.
Al Sud, intanto, l’intervento pubblico, centrato
essenzialmente (almeno fino al 1957) sulle grandi opere infrastrutturali,
contribuiva assai poco a creare occasioni di lavoro stabile per una manodopera
che sempre più raramente riusciva a trovare di che vivere nelle campagne (solo
in Sicilia gli occupati in agricoltura scesero dai 760.000 del 1951 ai 610.000
del 1961). La conseguenza - lo si ricordava poc’anzi - fu un massiccio flusso
di migrazioni interne e verso l’estero: tra il 1958 ed 1963 i trasferimenti di
residenza dal Mezzogiorno (in particolare Campania, Puglia e Sicilia) verso il
‘triangolo industriale’ del Centro-Nord furono circa 900.000, con una punta
massima di 240.000 nel 1961. Logica conseguenza fu un inurbamento selvaggio, che
interessò non soltanto le città del Centro-Nord, ma anche quelle meridionali,
dove le più ignobili speculazioni edilizie, insieme alla manna degli appalti
pubblici, costituirono nuove occasioni di ricchezza per la mafia, piazzatasi nel
frattempo a ‘proteggere’ gli snodi di diffusione del potere e del denaro
pubblico.
Si può obiettare che le condizioni del nostro Paese non sono
più quelle del dopoguerra e che, di conseguenza, non è affatto detto che non
si possano realizzare gli aspetti positivi del ‘miracolo’, evitando quelli
negativi. Ma si può contro-obiettare che ci sono numerosi fatti che inducono a
pensare il contrario. In primo luogo, la posizione della nostra economia in seno
alla divisione internazionale del lavoro è segnata dalla specializzazione in
settori relativamente tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio, calzature,
automobili, prodotti alimentari) e ciò la rende particolarmente esposta alla
concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, che possono contare sul
vantaggio competitivo di costi inferiori dovuti a salari irrisori; il
mantenimento delle quote di domanda postula, di conseguenza, un rigoroso
controllo del costo del lavoro (di qui l’appello ossessivo alla ‘flessibilità’)
e l’approfondimento dei processi di decentramento produttivo avviati a partire
dagli anni Ottanta. Sembra illusorio, perciò, sperare in tassi di crescita del
prodotto che possano assicurare il riassorbimento di una disoccupazione che,
specie al Sud, attinge livelli veramente patologici, a meno che non si estendano
ulteriormente le forme di impiego precario, discontinuo e scarsamente
remunerato.
In secondo luogo, la difficoltà di trovare un’occupazione
a decenti livelli di reddito rappresenta la causa prima della ripresa di un
consistente flusso migratorio (221.000 trasferiti dal Sud al Centro-Nord negli
ultimi tre anni, 72.000 solo l’anno scorso), che - qui c’è senz’altro una
differenza rispetto agli anni Cinquanta - coinvolge soprattutto i giovani di
ceto culturale e sociale medio-alto. E contraendosi ulteriormente la spesa
socio-assistenziale, che nel Mezzogiorno funge assai spesso da paracadute contro
la povertà (basti pensare all’enorme contenzioso sulle invalidità civili),
è ragionevole prevedere che la gran massa dei disoccupati siciliani e
meridionali in genere finirà con l’affollarsi intorno ai cantieri per la
realizzazione delle ‘grandi opere’ promesse dal governo, spopolando
ulteriormente i centri dell’interno.
È proprio qui, peraltro, che un ruolo rilevante può giocare
la mafia. Dovrebbe essere ormai chiaro che la strategia di ‘inabissamento’
posta in essere all’indomani delle stragi del 1992-93 non ha nulla a che fare
con la fine della sua capacità di condizionare la società meridionale e quella
siciliana in particolare: caso mai, è vero il contrario, visto che le azioni
più eclatanti - dalla strage di Portella della Ginestra a quelle di Capaci e
via D’Amelio - sono coincise con la messa in discussione degli assetti di
potere che l’avevano vista indiscussa protagonista. C’è molto da fare,
invece, nello scenario che si va ad aprire: c’è da ripartire in una miriade
di subappalti l’imponente flusso di denaro pubblico che servirà a realizzare
le suddette grandi opere; c’è da ‘rimodulare’ piani regolatori, piani
territoriali, piani paesistici e quant’altro (la sanatoria discutibilmente
passata nell’art. 71 della Finanziaria e quella proposta nella legge regionale
siciliana di riordino delle coste lo testimoniano oltre ogni dubbio); c’è da
regolare l’afflusso di manodopera scarsamente qualificata nei cantieri,
evitandone la sindacalizzazione e assicurando che si accontenti di bassi salari
e condizioni contrattuali deteriori rispetto a quelle dei contratti collettivi
nazionali; soprattutto, c’è da organizzare un consenso politicamente
duraturo, che possa far digerire anche quelle ‘misure coraggiose’ (cioè
impopolari) invocate da Confindustria e che si sono constatate nelle deleghe
richieste dal governo in materia di licenziamenti e previdenza sociale, all’origine
dello scontro sociale in atto.
Si potrebbe dire che una simile ‘agenda’, per quanto
approssimata per difetto, servirà a misurare la qualità della nostra
borghesia: per capire, cioè, se essa continuerà a ricercare attivamente la ‘protezione’
mafiosa, come ha fatto negli anni d’oro del sacco di Palermo, o sarà
finalmente capace di affrancarsene (e in quest’ottica, bisogna pur dirlo,
provvedimenti legislativi come quelli concernenti il falso in bilancio, le
rogatorie internazionali, il rientro dei capitali illegalmente esportati, specie
se uniti a certe affermazioni sulla presunta necessità di dover “convivere”
con la mafia o al sistematico attacco condotto nei confronti della magistratura,
non lasciano certo ben sperare). Quel che è certo è che servirà poco o nulla
al Mezzogiorno, rischiando anzi di aggravarne ulteriormente i non pochi mali.
4. Quanto fin qui argomentato potrebbe indurre il lettore
a ritenere che chi scrive concordi con quanti ritengono che, “nelle condizioni
attuali, nelle quali (diversamente da quanto accadeva al tempo di Keynes)
normalmente un’estesa disoccupazione non si associa ad un’ampia capacità
inutilizzata, il problema non è quello di riattivare una domanda aggregata
caduta da alti livelli precedenti, ma è invece quello di allargare la capacità
produttiva, non solo e non tanto attraverso l’espansione delle imprese
esistenti, quanto attraverso la creazione di nuove imprese nell’industria e,
ancora di più, nei servizi” (Sylos Labini 1997, p. 47).
In effetti, quella appena esposta è una diagnosi sulla quale
si registra un consenso diffuso, specie a sinistra. Se ne traggono, è vero,
prescrizioni assai divergenti quanto al “che fare”, differenziandosi coloro
che raccomandano la creazione di condizioni idonee allo sviluppo di distretti
industriali [2] da quanti, viceversa,
ricordano la funzione insostituibile della “grande impresa esterna, come fonte
di nuove tecnologie, fornitrice di sbocchi di mercato, suscitatrice di capacità
imprenditoriali indotte” [3]; purtuttavia, direbbe Sraffa, “il fatto dell’accordo rimane”:
pochi, ormai, dubitano del fatto che per ‘salvare’ il Mezzogiorno dalla
piaga della disoccupazione sia necessario allargarne la base produttiva.
Il problema, a mio sommesso avviso, è che una simile
diagnosi è tutt’altro che incontrovertibile, potendosi considerare
altrettanto plausibile (anzi, maggiormente plausibile, almeno a stare ai
riscontri econometrici) [4] la già accennata tesi ‘sottoconsumistica’
di stampo keynesiano, secondo la quale la stagnazione della domanda di
forza-lavoro deriverebbe dal fatto che le imprese sarebbero razionate sul
mercato del prodotto da una dinamica che, da vent’anni in qua, associa elevati
tassi di crescita della produttività con scadenti tassi di espansione della
domanda, ulteriormente indeboliti dalle politiche di rientro dal debito
pubblico.
Si obietterà che una simile costruzione non spiega il motivo
per cui la disoccupazione si è concentrata nel Mezzogiorno. Ma la risposta, a
mio avviso, potrebbe collegarsi al fatto che lo sviluppo dei cinquant’anni
trascorsi dal dopoguerra ha ‘territorializzato’, per così dire, l’offerta
e la domanda di prodotti industriali. In altre parole, e schematizzando
grossolanamente, mentre il Centro-Nord ha acquisito una capacità produttiva
idonea a provvedere al consumo locale e a quello del Sud, quest’ultimo è
cresciuto massimamente in forza della capacità di acquisto che gli derivava
dalla spesa pubblica, vera artefice del miglioramento del tenore di vita delle
popolazioni meridionali. È senz’altro vero che questa struttura della
produzione e del consumo ha fatto sì che la spesa pubblica non potesse
funzionare da ‘volano’ per lo sviluppo industriale, dato che il reddito
speso dalle popolazioni meridionali tornava al Centro-Nord, da dove provenivano
i flussi dei manufatti industriali; ma, c’è poi da chiedersi, ciò è
necessariamente un male? Intendo dire, era proprio necessario ‘industrializzare’
anche il territorio meridionale se l’offerta capace di soddisfare i suoi
bisogni esisteva già?
I problemi ‘quantitativi’, in effetti, sono sorti appena
si son chiusi i rubinetti della spesa pubblica. Data la conformazione
territoriale della struttura produttiva, venuto meno l’intervento
straordinario e svalutata la lira, il Centro-Nord è riuscito a barcamenarsi con
l’export, mentre la situazione al Sud è drammaticamente peggorata. Le
cifre, drammatiche, sono note a tutti e si sono accennate in apertura di queste
riflessioni. Ma la situazione è peggiorata, a mio parere, non perché manchi
una capacità produttiva, ma perché è venuta meno la capacità di spesa, cioè
il reddito. Lasciato a se stesso, il Mezzogiorno non poteva che crollare - ed è
crollato.
Ora, a me pare che la proposta di rilanciare l’industrializzazione
‘leggera’ o ‘pesante’ che si voglia - è valida se si accetta quello
che ne è l’ineliminabile presupposto analitico: vale a dire, il legame tra
persistenza della disoccupazione e scarsità di capitale produttivo. Ma rimossa
la diagnosi che sta alla sua base, la proposta di rilanciare l’industrializzazione
risulta contraddittoria: a parte il problema dell’impatto ambientale (sul
quale inopinatamente tutti tacciono, salvo poi stracciarsi le vesti per l’inquinamento
e la cementificazione), perché, ad esempio, ostinarsi ad abbassare le
condizioni di erogazionedella prestazione lavorativa nel tentativo di creare
fantomatici “distretti industriali”, fidando su presunte capacità di
sviluppo che la produzione capitalistica dimostra di non possedere più?
Capovolgendo le tesi di Becattini (1998, pp. 175-187), si potrebbe infatti
sostenere che, se fossero ancora così magnifiche e progressive le sorti dello
sviluppo capitalistico, le imprese italiane dei distretti non avrebbero affatto
bisogno di cercare al di fuori del territorio nazionale (ma in realtà al di
fuori del modo di produzione capitalistico stesso, come spiegava Rosa Luxemburg)
[5] le condizioni per la propria
riproduzione, fidando sui salari da fame della Romania o dell’Albania. E in
ogni caso, potrebbe obiettarsi che, quand’anche riuscisse, l’allargamento
della base produttiva recherebbe con sé l’aumento dell’offerta di manufatti
industriali da parte del Sud; quest’offerta avrebbe l’ovvia necessità di
incontrare una domanda corrispondente e quest’ultima, a sua volta, non
potrebbe che venire dal Sud (a scapito però dei prodotti provenienti dal
Centro-Nord), dal Centro-Nord (e allora lì si avrebbe necessariamente una
contrazione della domanda di prodotti locali) o dall’estero. In tutti e tre i
casi, l’aumento dell’offerta di merci da parte del Mezzogiorno avrebbe come
‘prezzo’ l’aumento della disoccupazione al Centro-Nord o all’estero
(immagino ci si ricordi degli ammonimenti del ventiquattresimo capitolo della Teoria
generale di Keynes) [6]. A meno che, certo, la domanda non cresca ad un ritmo più
rapido del tasso di crescita della produttività, ciò che è il vero
problema con cui si misurano le economie capitalistiche nientemeno che dal 1920
o giù di lì, visto che, già nel 1930, Keynes rilevava che “la
disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera
procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi
impieghi per la stessa manodopera” [7] e che
i tassi di crescita del reddito del periodo 1950-1975 non sarebbero stati
pensabili senza l’intervento pubblico.
[1] Cfr. ora Graziani 2000, pp. 63
sgg.
[2] Posizione, questa, sostenuta con vigore da Becattini (1998, pp. 146
sgg.) e recepita, fra l’altro, nella Relazione revisionale e programmatica per
il 1999 del Ministero del Tesoro (cfr. Ministero del Tesoro, Bilancio e
Programmazione Economica 1998, spec. pp. 73 sgg.).
[3] Graziani [1990], p. 183. L’A., d’altra parte,
rimarca che “la presenza pura e semplice di una grande impresa esterna non
produce altro che cattedrali nel deserto. Per dare luogo a uno sviluppo diffuso,
l’impresa esterna deve impegnarsi consapevolmente in una attività propulsiva”
(ibid.).
[4] Cfr. Pini 1997.
[5] Cfr. Luxemburg [1913], trad. it., pp. 361-362.
[6] “La guerra ha parecchie cause. Dittatori e simili
cui la guerra offre, almeno come aspettativa, una piacevole eccitazione, trovano
facile operare sulla bellicosità naturale dei loro popoli. Ma al di sopra di
ciò, a facilitare il loro compito e ad alimentare la fiamma popolare, vi sono
le cause economiche della guerra, vale a dire la pressione della popolazione e
la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza” (Keynes [1936], trad.
it., pp. 338-339).
[7] Keynes [1930], trad. it., p. 277.