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Osservatorio meridionale

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La disoccupazione meridionale. Note per una ricerca

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Incurante di quest’ordine di problemi, di fronte a livelli di disoccupazione che si attestano al 25-30% e a infrastrutture degne di competere con quelle dell’Albania (absit iniuria verbis), l’Ulivo, nel quinquennio trascorso, non ha saputo fare di meglio che esortare gli “imprenditori coraggiosi” a investire nel Mezzogiorno, demandando ai sindacati e agli enti locali il compito di ‘sporcarsi le mani’ e di mercanteggiare con i predetti coraggiosi gli abbassamenti delle tutele e le franchigie necessarie a rendere conveniente il fare impresa nel Sud. Non ha inteso che questo modello di sviluppo era il tanto famigerato ‘brodo di coltura’ della criminalità (micro e macro, cioè mafiosa), che pure diceva con toni roboanti di voler combattere per il buon pro della sicurezza dei cittadini onesti. E si è illuso che qualche migliaio di posti di lavoro in più, precari, flessibili e/o in affitto, potessero invertire la tendenza, piuttosto che accentuare quel senso di incertezza e di esclusione (e di rabbia) che oggi serpeggia nella nostra terra. Il risultato lo ha scritto a chiare lettere uno studio dell’Itanes: in occasione delle elezioni politiche del 2001, solo il 26,8% degli elettori riteneva il centro-sinistra in grado di affrontare il problema della disoccupazione, contro il 40,5% a favore del centro-destra [1].

Non sarebbe meglio, allora, come proponeva lo stesso Keynes (e come saggiamente ripropone da tempo Giorgio Lunghini) [2], pensare a un programma di lavori pubblici che abbelliscano le città del Mezzogiorno, dotandole “di tutto ciò che è connesso all’arte e alla civiltà al più alto livello raggiungibile da ciascun cittadino”  [3], piuttosto che vivere con “l’incubo del contabile” [4], come i nostri governanti? Non sarebbe più efficace un intervento pianificatorio sul territorio, prima che anche al Sud si diffondano quelli che l’urbanista Vezio De Lucia ha efficacemente denominato “istituti eversivi della pianificazione” - contratti di programma, patti territoriali, contratti d’area, con i quali si sta estendendo all’intero paese “il modello veneto delle fabbrichette e dei centri commerciali sparpagliati nel territorio agricolo, con costi pazzeschi per la mano pubblica e insopportabili per la qualità della vita” [5]?

5. Una proposta come quella abbozzata abbisogna, innanzi tutto, di una precisazione. Non è certo tra gli obiettivi di chi scrive un disegno di politica industriale che concentri i nuclei di produzione manifatturiera da un parte del nostro paese (e, in prospettiva, da una sola parte del mondo: il Sud Est asiatico, gli Stati Uniti e i circondari annessi, la Germania, magari qualche fabbrichetta in Francia...) e lasci all’altra parte il compito di sviluppare la qualità della vita. Non si intende qui sostenere, in altri termini, che la produzione capitalistica ‘debba’ essere territorializzata; si vuol piuttosto richiamare l’attenzione sul fatto che essa si è territorializzata e, non potendosi più prescindere da questo dato strutturale (a meno di dare per inesistenti i problemi di sbocco che si è provato ad indicare), l’intervento pubblico, piuttosto che esser teso semplicemente a favorire le condizioni ambientali per l’insediamento delle imprese, quali che esse siano, dovrebbe perseguire proprie finalità - appunto, la riqualificazione del territorio urbano e agricolo. Tra l’altro, essendo noto che all’intervento pubblico si accompagna la ripresa del processo di accumulazione capitalistica, non è nemmeno vero che, in un disegno come quello sopra abbozzato, la produzione capitalistica non giochi spazio alcuno; piuttosto, essa occupa una posizione subordinata rispetto all’indirizzo programmatorio - non “si produca purchessia”, ma “si producano quelle merci che servono alla riqualificazione del territorio”.

C’è poi un’obiezione piuttosto forte, che si può mettere in questi termini. È indubbio e si è già ricordato che, negli anni precedenti la crisi di quella che, con gioviale incoscienza, vien detta ormai la “prima Repubblica”, cospicui flussi di spesa pubblica furono indirizzati nel Mezzogiorno [6], causando un indiscusso miglioramento del tenore di vita delle popolazioni meridionali, ed è altrettanto indubbio (e si è parimenti ricordato) che la dotazione di servizi sociali e infrastrutture pubbliche presenta, in questa parte d’Italia, carenze, distorsioni e ritardi paurosi, senza che, peraltro, i partiti e i gruppi sociali (in specie, quelli criminali) che controllano l’erogazione della spesa abbiano visto incrinare le basi del loro consenso diffuso. Perché mai una politica di ‘lavori pubblici’ come quella sopra accennata dovrebbe fare eccezione? E d’altra parte, in che cosa si differenzierebbe dalla proposta di ‘opere pubbliche’ avanzata dal governo in carica, già ricordata al § 3?

La risposta a quest’ultima domanda è semplice e, in parte, la si è già accennata. L’attuale governo assume che il compito di promuovere lo sviluppo spetti alle imprese e, proprio per ciò, le opere pubbliche da esso programmate sono genericamente orientate a favorire l’insediamento industriale, senza preoccuparsi di sceglierne natura, qualità e composizione. Viceversa, la proposta che qui si è abbozzata muove da un’opinione opposta, che cioè spetti al potere pubblico programmare natura, qualità e composizione degli insediamenti industriali, in funzione dell’obiettivo di riqualificare il territorio urbano e agricolo. Per la prima, l’intervento pubblico è il mezzo e lo sviluppo imprenditoriale è il fine; per la seconda, l’intervento pubblico è il fine e le imprese sono uno dei mezzi.

La risposta alla prima domanda è invece più complessa e qui, per ragioni di spazio, non si potrà che abbozzarla. Un’acuta indagine (Trigilia 1992) ha individuato un nesso molto stretto fra la destinazione maggioritaria della spesa pubblica verso trasferimenti alle famiglie (pensioni, cassa integrazione, spesa sanitaria, spese per il personale degli enti locali), la sua scarsa produttività sociale (cioè in termini di dotazione infrastrutturale e di servizi) e la sua elevatissima “produttività politica” (cioè di consenso) e ha concluso che lo ‘sviamento’ del denaro pubblico verso fini ‘privati’ sarebbe stato (e sarebbe tuttora) conseguenza della struttura ‘particolaristica’ della domanda politica:

“L’estensione dell’intervento pubblico che si è verificata nel dopoguerra, sia per effetto delle politiche ordinarie che di quelle straordinarie e speciali, ha [...] ampliato, in generale, le opportunità per la classe politica di destinare le risorse in modo da massimizzare la loro divisibilità a fini di consenso. Tutto ciò che non si presta facilmente ad essere trasformato in risorse divisibili viene trascurato o genera non-decisioni. Ma in quest’area rientrano proprio i beni collettivi, che sono per loro natura non divisibili, e che sono essenziali per qualificare l’ambiente sociale e economico: la scuola, la formazione, i servizi sociali, i servizi alle imprese. Se si tiene conto di questo quadro è possibile spiegare meglio diversi fenomeni [...]: la persistente carenza di servizi e infrastrutture, e specie la loro cattiva qualità, nonostante la spesa per abitante non sia inferiore a quella del Centro-Nord; l’esistenza di quote spesso rilevanti di risorse non utilizzate, specie per interventi poco divisibili (residui passivi); la preferenza per politiche di tipo erogatorio che enfatizza la divisibilità della spesa e i rapporti diretti fra singoli interessi e singoli esponenti o gruppi della classe politica.” (Trigilia 1992, pp. 82-83).

Ora, se si può convenire con quest’analisi nella misura in cui rinviene la causa delle distorsioni dell’intervento pubblico nell’inesistenza di gruppi sociali portatori di interessi sufficientemente “inclusivi” à la Olson [7] - e, inversamente, pone l’esistenza di questi ultimi come condicio sine qua non per la riuscita anche di un disegno come quello abbozzato in conclusione al § 4 -, non si può certo seguirla allorché, riecheggiando il famigerato “familismo amorale”, individua la causa di tale inesistenza nel fatto che “la politica di massa si [sarebbe] affermata nel Mezzogiorno senza lo sviluppo di forti identificazioni collettive, come è avvenuto invece in altre aree del paese”, il che avrebbe portato “a enfatizzare il ruolo di difesa della famiglia e della parentela rispetto alle minacce e alle incertezze dell’interazione sociale” (Trigilia 1992, pp. 82 e 91).

In realtà, il Mezzogiorno (e in particolare la Sicilia) ha anticipato il resto d’Italia non solo nelle dinamiche politiche, ma anche - e per quanto paradossale possa sembrare - in quelle sociali (di classe, si sarebbe detto una volta). Lo scontro sociale tra proletariato e borghesia assunse nelle campagne meridionali toni asperrimi ben prima dell’autunno caldo del 1968-69 e, correlativamente, ben prima della strage di Piazza Fontana i meridionali sperimentarono la “strategia della tensione” messa in atto dai settori più retrivi della classe dominante: più esattamente, dal 1° maggio 1947, con l’eccidio di Portella della Ginestra, cui seguirono decine e decine di omicidi ai danni dei dirigenti sindacali e dei partiti di sinistra che organizzavano l’occupazione delle terre.

Fu quella tragica stagione che chiuse al proletariato meridionale la speranza in una mobilità collettiva, legata cioè al suo essere come classe. L’imponente movimento migratorio che ne seguì cancellò in chi restava financo la memoria delle lotte passate (con una boutade, si potrebbe dire che, se Bauman fosse stato siciliano, Memorie di classe non sarebbe mai stato scritto) e, quel che è peggio, rimosse le stesse ideologie, che di quelle lotte erano state anima. L’ascesa sociale, di conseguenza, cessò di esser concepita come possibilità comune e diventò destino da ricercarsi su base individuale, mentre l’‘alternativa’ (cioè il Pci) cominciò fin da allora a pensarsi solo come “compromesso storico” con i cattolici (l’operazione Milazzo, come si ricorderà, è del 1958 e Achille Occhetto negli anni Settanta era segretario del Pci siciliano). Del resto, Marx aveva spiegato già nella Questione ebraica che, una volta imbrigliato lo Stato al servizio del capitalismo, la democrazia politica avrebbe potuto assumere solo la forma evanescente di una “democrazia cristiana”.

E “cristiana”, in questo specifico senso marxiano, è stata appunto la democrazia politica nel Mezzogiorno: cristiana, perché ha avuto come protagonista l’individuo “nella sua manifestazione selvaggia e insociale”, incapace di distinguere l’interesse collettivo dal proprio interesse personale immediato; di concepire un interesse ‘generale’ superiore agli interessi individuali e diverso da questi; di rappresentarsi l’autorità in modo diverso da una forza cieca e arbitraria, che atterra l’uno nello stesso tempo in cui suscita l’altro; incapace, più in generale, di considerarsi come appartenente ad un unico corpo sociale, sottoposto ad una legge comune ed eguale per tutti, invece che come membro di una ‘famiglia’ perennemente in lotta con altre. Il che, del resto, ben si comprende: se agire collettivamente è impossibile (perché ti sparano), non resta che raggrupparsi intorno ad uno o ad alcuni individui più potenti e a loro rivolgersi per far valere i propri diritti o, che è lo stesso, per commettere abusi. L’invocazione del ‘padrino’, sia esso un mafioso o un onorevole, è insomma solo conseguenza.

Di quanto si è venuto dicendo per il Mezzogiorno ognuno potrà trovare l’equivalente nella storia del Centro-Nord seguita all’autunno caldo: l’inasprirsi delle lotte sociali; la risposta violenta della borghesia reazionaria; la sconfitta operaia; il dissolvimento delle ideologie; la trasformazione dei partiti di massa in macchine elettorali; la corruzione diffusa nella gestione del potere; l’individualizzazione dell’agire sociale e politico; il trionfo del personalismo, del leaderismo, fino alla manifestazione - il 13 maggio 2001 - dell’Uebermensch. Se sia trattato del punto più basso della curva non è dato, al momento attuale, saperlo; per ora, si può solo sperare che la forte mobilitazione del movimento dei lavoratori e di ampi settori dei ceti medi in queste prime settimane del 2002 possa segnare un’inversione di tendenza. Senza la quale è facile prevedere che della tragedia della disoccupazione nel Mezzogiorno scriveremo ancora a lungo.


[1] Cfr. ITANES 2001, p. 163.

[2] Cfr. Lunghini 1995, pp. 74 sgg.

[3] Keynes [1933], trad. it., p. 102.

[4] Ibid., p. 101.

[5] Cfr. De Lucia 1998.

[6] Cfr. Trigilia 1992, pp. 57 sgg.

[7] Cfr., da ult., Olson [2000].