Si sta favorendo un profondo e negativo mutamento nella
coscienza collettiva: la scuola non viene più proposta come lo strumento più
importante dell’opera statale di direzione culturale, in grado di
garantire lo sviluppo del corpo sociale, ma come uno strumento di formazione del
lavoratore, perciò opera non più da delegare nelle sue linee fondamentali a
struttura pubblica e la cui organizzazione coerentemente deve essere definita
con il concorso dei più diretti interessati, gli imprenditori privati,
ovviamente.
8. I modi della riforma in Italia
A differenza di altri paesi della comunità europea, l’Italia
alla fine degli anni ’60 ha favorito l’accesso generalizzato dei giovani all’Università.
Questo probabilmente anche come forma di controllo sociale verso giovani che non
avrebbero comunque trovato accesso nel mondo del lavoro.
In via di principio ovviamente non si può non preferire una
università di massa ad una università organizzata per una limitata èlite di
giovani. Se però si aprono, come si è fatto, le porte dell’università ai
giovani di formazione più debole senza riorganizzare in modo adeguato la
didattica, si rischia di fare un danno grave ai giovani e alla società.
Di fatto l’accesso alle nostre Università è libero ma a
laurearsi è solo il 30 % dei giovani che si iscrivono e visto che ad iscriversi
all’università è circa il 45% dei giovani che prendono il diploma di scuola
media superiore, a laurearsi è poco più del 13% dei diplomati.
Il tempo medio impiegato da quanti si laureano non è quello
che prevedono gli ordinamenti, anziché quattro o cinque servono in media quasi
7 anni e questo significa che molti giovani si laureano dopo 8 anni o più. Come
si vede, non un buon risultato ed una seria riforma sarebbe stata necessaria.
Questi dati sono ormai noti a tutti, ma è sempre il caso di rimarcare il punto
di partenza di qualsiasi ragionamento serio sull’Università e la sua
necessità di riforma.
Nel ’68 si è potuto liberalizzare l’accesso, ma non si
è potuto, voluto o saputo, operare la necessaria riorganizzazione della
didattica.
Sarebbe stato necessario modificare il modo di insegnare. L’insegnamento
è un servizio di pubblica utilità che si realizza pienamente solo se si
prevedono anche forme attive di partecipazione per lo studente.
Con l’attuale riforma questa presenza attiva è stata
attuata, purtroppo però mentre fino ad oggi nella didattica si è prevista la
sua connessione con la ricerca di base, ora questa connessione viene sostituita
da quella fra didattica e ricerca finalizzata, ossia di utilità pratica.
Questo proprio perché, come abbiamo già notato, si è
imposto uno stretto collegamento tra sistema produttivo e università. Quest’ultima
deve organizzare lo studio in funzione delle necessità attuali del mondo
produttivo, come se vi fosse una sorta di contrapposizione tra professionalità
e cultura.
In particolare le esigenze culturali della formazione
scientifica sono sentite solo come esigenze tecniche e quindi mirate all’utilizzo.
Come si vede, quanto abbiamo detto per l’Europa vale anche
per l’Italia. Come l’Europa anche l’Italia, volta agli interessi
economici, parla di università azienda, studente-cliente e professore-manager.
I termini di riferimento dei ministri ( Democratici di
sinistra ) dei precedenti governi sono uguali a quelli dell’attuale ministro
(una manager dell’industria).
Anche se restano alcune differenze che in qualche modo
rimarcano i riferimenti culturali dei ministri responsabili, l’impianto
generale, il principio fondamentale, è lo stesso: la scuola, l’università
sono aziende e quindi hanno una natura economica, le decisioni vanno assunte in
una logica manageriale, favorendo iniziative che aumentino il budget dell’azienda
o migliorino la sua “immagine”.
È una logica conseguenza che la scuola e università
pubblica non gravino più solo sul bilancio dello Stato e che esse debbano (in
realtà ancora dovrebbero) in parte provvedere attraverso forme di finanziamento
da parte di aziende pubbliche e private. In nome del principio dell’autonomia
organizzativa, amministrativa e in parte anche finanziaria dallo Stato ...ci si
lega ai privati... in nome dell’autonomia?
Certo un governo di destra sa interpretare meglio la parte e
così, mentre si decurtano di fondi per la ricerca pubblica, si apre alla scuola
e alla ricerca privata. Però è stato con il governo di centro-sinistra che,
nel gennaio 2001, si è costituito un comitato paritetico, Ministero della
pubblica istruzione e Confindustria con il compito di mettere a punto iniziative
per “la diffusione della qualità nella scuola”.
In Italia la scuola privata è essenzialmente una scuola
cattolica ed è in fase di attuazione una sua totale equiparazione, eliminando
le attuali, pur deboli, forme di controllo.
Non a caso si istituisce una commissione diretta a definire
un codice deontologico per gli insegnanti e si pone a presiederla un cardinale.
A sanzionare la nuova politica il ministero è detto “Ministero
dell’Istruzione”, non più ”Pubblica Istruzione”.
Questo profondo mutamento, che non avevano neppure sognato di
proporre i governi democratico-cristiani, è possibile oggi all’interno del
nuovo quadro europeo.
Non è stato possibile costruire un’Europa politica, si è
pensato di arrivare a questa attraverso l’Europa economica.
L’Europa cui arriveremo sarà un’Europa liberista che non
si limita alla mitizzazione del libero mercato ma che abbraccia il mito della
virtù della libera = privata iniziativa.
Uno scenario per niente rassicurante per chi ancora creda, se
non nella possibilità di uno Stato “al di sopra delle parti”, almeno in
quella di un civile contemperamento degli interessi.