Club privé. A cosa sono servite le privatizzazioni delle banche italiane
Leonardo Valle
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4. La concentrazione bancaria
La concentrazione del settore bancario è un fenomeno di portata
mondiale. Per avere un’idea dell’entità del fenomeno basteranno pochi dati:
dal 1990 al 2000 sono state effettuate nel mondo 7.500 fusioni e acquisizioni
tra banche, del valore di 1.600 miliardi di dollari; questo processo ha avuto
una notevole accelerazione all’interno del periodo considerato, ed in particolare
negli ultimi 3 anni (in Europa i 2/3 delle operazioni sono avvenuti negli ultimi
3 anni); soprattutto negli ultimi 2 anni, sono cresciute in misura considerevole
le joint-venture e le alleanze strategiche tra banche di Paesi diversi (ossia
forme “soft” di fusione) [1].
Per quanto riguarda l’Italia, basterà ricordare che dal 1987
al 2000 il numero delle banche è sceso da 1.200 a 864; e, soprattutto, che si
sono formati 5 gruppi che da soli hanno il controllo di quasi il 50% del
mercato del credito: Unicredito, Banca Intesa-BCI, San Paolo-IMI, Banca
di Roma, Montepaschi. Esattamente lo stesso, in base alle dichiarazioni del
FMI, succede in Europa, dove “il sistema finanziario è in mano ad un numero
ristretto di grandi banche: nella maggior parte dei casi i 5 maggiori istituti
gestiscono più del 50% degli assets totali”.
Questo processo di concentrazione in atto nel settore finanziario
è, ad un tempo, effetto e causa della tendenza alla concentrazione e centralizzazione
dei capitali che ha luogo a livello mondiale.
È effetto di questa tendenza nel senso che, al pari
di ogni altro settore, anche quello dei servizi finanziari deve fare i conti
con la necessità di combattere la caduta del tasso di profitto. Utilizzo di
economie di scala e di economie di scopo, riduzione dei costi di produzione,
aumento della massa di capitale monetario necessaria per sostenere processi
di ristrutturazione aziendale, operazioni di acquisizione ecc. [2]; e -
last but not least - aumento del “potere di mercato” (ossia, tentativo di
ottenere rendite monopolistiche incorporando i concorrenti): tutte queste motivazioni,
che vengono di volta in volta addotte per spiegare le fusioni e acquisizioni
nel settore finanziario, sono in fondo riconducibili al più generale tentativo
di combattere la caduta del tasso di profitto.
Va notato che l’“aumento del potere di mercato” - locuzione
eufemistica a cui si fa ricorso per evitare di pronunciare una brutta parola
come “monopolio” - è un movente di queste operazioni assai più concretamente
verificabile dei “guadagni di efficienza” tanto spesso sbandierati. In effetti,
questo è quanto emerge da una ricerca svolta nel 2001 dalle banche centrali
del G-10 sul processo di “consolidamento” (ossia di concentrazione monopolistica)
[3].
Questo discorso vale anche per gli effetti delle privatizzazioni
bancarie italiane? Assolutamente sì. Lo dimostra la più recente ricerca sul
tema delle performance delle banche italiane pre- e post-privatizzazione,
che fra l’altro confronta le banche privatizzate con quelle che (soprattutto
a livello locale) sono rimaste sotto il controllo pubblico. I risultati sono
sorprendenti - soprattutto per chi si è sentito ripetere per anni che uno degli
obiettivi principali delle privatizzazioni era quello di “migliorare l’efficienza
delle imprese privatizzate”.
Primo: “I dati sui tassi di crescita dell’attivo [ossia dei
fondi intermediati dalle banche] rivelano come in media le banche rimaste sotto
il controllo delle fondazioni siano cresciute in misura più elevata rispetto
alle banche in cui le fondazioni hanno ceduto il controllo”.
Secondo: Nelle banche grandi la produttività non è affatto
cresciuta in maniera spettacolare dopo le privatizzazioni. Per quanto riguarda
le medio-piccole, poi, “le banche in cui le fondazioni hanno ceduto il controllo
hanno evidenziato performance peggiori”.
Terzo: “Il grado di patrimonializzazione complessivo delle
banche italiane non ha subito modificazioni sostanziali in conseguenza della
privatizzazione”.
Quarto: Gli indicatori di redditività danno (a quanto dice
lo stesso autore) risultati “sorprendenti”. Nel senso che non danno alcuna indicazione
chiara per le banche grandi, e dicono con chiarezza che le banche piccole non
privatizzate vanno meglio di quelle privatizzate. Per quanto riguarda le banche
straniere, poi, si ha addirittura “un netto peggioramento della redditività
negli anni successivi alla privatizzazione”.
Dopo aver messo in luce tutti questi aspetti, l’autore della
ricerca conclude sostenendo che “è difficile dire se le privatizzazioni bancarie
abbiano ‘funzionato’” [4]. E pensare che a noi sembrava così semplice trarre
una conclusione...
5. Cui prodest?
A chi giova tutto questo? Per rispondere a questa domanda bisogna
partire dal fatto che il processo di concentrazione nel settore bancario-finanziario-assicurativo
ha una sua importante specificità: esso è al tempo stesso attore della
concentrazione in altri settori. Fu Marx ad osservare che “il sistema del credito”
(ma questo vale ovviamente più in generale per le odierne attività finanziarie)
diviene ben presto “un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza
trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione
dei capitali”.
Vediamo come funziona quest’arma nella situazione attuale.
La concentrazione del settore finanziario a livello nazionale è pressoché completata.
Il prossimo passo sarà rappresentato da concentrazioni transnazionali, soprattutto
a livello europeo. Ci sono, è vero, tentativi di ritardare questa integrazione:
in questo sforzo, ad esempio, si concentra praticamente tutta l’opera del governatore
Fazio, quando non è occupato a leggere (in pubblico) San Tommaso, o a fare (in
privato) favori a banchieri amici, e dispettucci a quelli che gli sono meno
simpatici. Ma si tratta di una posizione di retroguardia, votata alla sconfitta,
che avrà come unico risultato quello di rendere più dolorose per le nostre
banche (leggi: per i loro lavoratori) le inevitabili fusioni transnazionali
che avranno luogo di qui a 5 anni.
Le concentrazioni nel settore finanziario europeo, a loro volta,
comporteranno una restrizione del credito alle piccole e medie imprese. Questo
è già avvenuto negli Stati Uniti nei primi anni Novanta, a seguito della crisi
delle casse di risparmio e della successiva ondata di concentrazioni [5]. Questa circostanza è esplicitamente ammessa nella citata ricerca del
G-10, sia pure con la cautela e gli eufemismi del caso [6]. Le soluzioni suggerite
per questo problema sono risibili: ad es., “facilitare l’accesso delle piccole
imprese alla Borsa”. Oppure di una genericità sconcertante: come quando si propone
di “sviluppare canali di finanziamento alternativi a quelli bancari tradizionali”
[i]. Ora, a meno
che non si intenda fare riferimento all’usura (alternativa al credito tradizionale
già molto praticata...), quest’ultimo suggerimento può sensatamente riferirsi
soltanto al mercato delle obbligazioni. Che però purtroppo sono molto più
costose dei prestiti bancari tradizionali. Per avere un’idea della differenza,
basti pensare al fatto che in media, a livello europeo, i prestiti delle banche
alle imprese sono superiori del 2% ai buoni del tesoro. In America (dove il
mercato obbligazionario è molto più sviluppato) la differenza arriva sino al
10% [7]. Quindi: restrizione del
credito e spinta al processo di centralizzazione dei capitali.
Questo ci dà la prima (e più importante) risposta alla domanda:
“cui prodest?”. Questo processo giova al grande capitale monopolistico.
Siamo sinceramente dispiaciuti di dover usare questo frasario antiquato, ma
se le cose stanno così non possiamo farci niente.
A chi altro giova?
Il processo di privatizzazione delle banche italiane - l’abbiamo
visto - ha giovato senz’altro alle grandi investment banks anglosassoni,
grazie alle lucrose commissioni che hanno potuto incamerare.
Ha giovato ad un pugno di boiardi di Stato che, di piroetta
in piroetta, son riusciti a passare indenni dalla guida delle ex-banche pubbliche
alla guida delle stesse banche privatizzate. E ora, da “boiardi” che erano,
si sono trasformati in “managers”. [8]
Ha giovato infine anche ad alcuni ex-capitalisti industriali
(leggi FIAT), per i quali le privatizzazioni delle banche hanno rappresentato
un’occasione d’oro per consolidare le loro posizioni nel business assicurativo-bancario,
acquisire partecipazioni nelle banche privatizzate, preparandosi così ad uscire
senza danni (per loro) dal loro business tradizionale.
E ora vediamo a chi questo processo non giova.
Non giova ai bancari (che, a dispetto della loro fama, sono
sempre più “esuberanti”, e quindi vengono falcidiati in massa ad ogni
“giro” di fusione tra banche).
Non giova alla concorrenza - e la cosa dovrebbe essere di banale
comprensione, con 5 banche che da sole controllano il 50% del mercato. E questo,
per scendere più nel concreto, significa che:
• non giova ai risparmiatori, che non hanno affatto visto
migliorare le condizioni praticate dalle banche (ad es. sui concorrenti);
[9]
• non giova neppure alle tanto mitizzate piccole e medie
imprese, che si vedranno progressivamente restringere il credito.
6. E ora?
Il 6 maggio scorso l’inserto economico del Corriere della
sera titolava: “Privatizzazioni finite?”. È un titolo che, alla luce
di quanto abbiamo visto, induce alla speranza. Speranza vana, perché il gioco
procede: ora tocca alle aziende municipalizzate locali, alle poste, alla RAI,
forse alle ferrovie... La svendita e la privatizzazione del patrimonio dello
Stato non si ferma. Può sembrare un po’ forte, come giudizio. Però la realtà
l’ha già superato: il governo Berlusconi ha appena inventato la “Patrimonio
dello Stato S.p.A.”.
SCHEDA
“Draghi sceglie super - poltrona alla Goldman”. Così
recitava il 29 gennaio scorso un titolo del Sole 24 ore. L’Inizio dell’articolo
corrispondente era addirittura lirico: “da servitore dello Stato ai massimi
livelli alla Goldman Sachs, una delle stelle dell’empireo dell’investment
banking mondiale”. Più avanti , il giornalista sottolineava il significato
della “scelta di un’esperienza piena nel mondo del business per un uomo
che, dall’altra parte della barricata, aveva gestito il maggiore processo
europeo di privatizzazione dopo quello britannico”. Ora che la Goldman
Sachs abbia bisogno di forze fresche è fuori dubbio. Pensate che i suoi
analisti, ancora il 9 ottobre dell’anno scorso, dicevano che le azioni
Enron erano “il meglio del meglio”: dopo nemmeno due mesi, la Enron dichiarava
fallimento. Del pari, sarebbe azzardato considerare una sciagura il fatto
che il Prof. Draghi passi più tempo a Londra che a Roma. Insomma, per
una volta ci sentiamo di condividere l’entusiasmo del giornale della Confindustria.
Ecco, comunque, l’elenco dei pochi contratti di con sulenza
ottenuti da Goldman Sachs per le privatizzazioni italiane: |
[1] La stessa CONSOB, commentando il fatto che nel 2001
il controvalore delle offerte di vendita di società in borsa è diminuito, ammette
candidamente che “tale dato è essenzialmente dovuto alla notevole diminuzione
delle offerte legate alla privatizzazione di imprese pubbliche” (Dati e analisi,
cit. p. 31).
[2] Dati citati
da R.W. Ferguson jr., “Understanding Financial Consolidation” (pp. 2-3)
e da D. Clementi, “Recent developments in financial markets: some implications
for financial stability” (p. 1), nei loro interventi alla International
Banking and Financial Systems Conference, Roma, 9 marzo 2001.
[3] Per avere un’idea delle grandezze in gioco basterà ricordare che per il salvataggio
di Lucent Technologies, nello febbraio 2001, sono stati necessari 7 miliardi
di dollari. Questa cifra è stata raccolta in brevissimo tempo da tre sole banche.
E l’operazione è stata citata dal Financial Times come “un’impressionante
dimostrazione del potere esercitato dai nuovi giganti che dominano la scena
finanziaria di New York” (FT del 17/4/2001). Del resto, la stessa acquisizione
di Telecom da parte di Colaninno & C. aveva richiesto finanziamenti per
61 miliardi di euro.
[4] Ne Il processo di consolidamento nel settore
finanziario. Summary Report (gennaio 2001) si legge che “gli studi
empirici suggeriscono che le fusioni possono fornire l’opportunità di incrementare
i ricavi attraverso aumenti di efficienza o un rafforzamento del potere di mercato”
(p. 21). Poi però R.W. Ferguson jr., nell’esporre in sintesi i risultati della
ricerca, afferma (eufemisticamente) che “the overall evidence in favor of
efficiency gains is weak”: “Understanding Financial Consolidation”, cit.,
p. 10. Nella stessa sede il governatore della Banque de France, J.-C. Trichet
ha motivato le fusioni del settore con “la ricerca di un potere di mercato e/o
di economie di scala”; poi ha aggiunto: “noi dobbiamo essere coscienti di certi
pericoli derivanti da questa rincorsa della dimensione (course à la taille),
la cui logica ultima [sic!] sarebbe quella di dar vita ad un oligopolio”
(“L’évolution récente du système financier international et ses répercussions
sur l’efficacité et la stabilité des intermédiaires et des marchés”, pp.
6 e 12, corsivi nostri).
[5] G. Siciliano,
“Le privatizzazioni bancarie in Italia”, cit., pp. 205, 208, 210, 212,
218.
[6] Vedi A. N. Berger, G.F.
Udell, Universal Banking and the Future of Small Business Lending, 1995;
A.N. Berger, A.K. Kashyap, J. Scalise, The Transformation of the U.S. Banking
Industry: what a Long Strange Trip It’s Been, 1996. Nella stessa direzione
(razionamento del credito alle PMI) vanno di fatto le proposte formulate dal
Comitato di Basilea per una riforma dei requisiti di capitale a copertura dei
crediti (v. New Basel Capital Accord su www.bis.org). Di recente la Germania
ha ottenuto lo slittamento dell’entrata in vigore dell’accordo al 2006. Ma,
anche in questo caso, non si fa che prolungare l’agonia...
[i] Il processo di consolidamento..., cit., pp. 11, 42-3.
[7] Vedi rispettivamente, ivi, p. 44 e p. 15.
[8] V. J. Sproule, The Death of Europe’s
Old-Style Banking, in Wall Street Journal Europe, 8/1/2001.
[9] E in più, spesso e volentieri, sono stati anche malconsigliati nell’investire
i risparmi: la gran parte del debito argentino, è stata girata dalle banche
ai loro clienti.