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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Il privato... è politico! Le privatizzazioni contro il movimento dei lavoratori

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Una lettura statistico-economica delle privatizzazioni italiane

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4.5 Settore Trasporti

Le Ferrovie dello Stato detenevano il monopolio fino al 1992 anno in cui il Ministero del Tesoro ha trasformato le Ferrovie dello Stato in società per azioni.

Nel 2000 si è avuta la separazione tra la società di servizi, la Trenitalia e l’operatore di rete, la FS-Infrastrutture, per i servizi locali lo Stato ha delegato le proprie competenze alle Regioni.

Sempre nel 2000 è stato liberalizzato il trasporto internazionale. Le tariffe applicate sono sottoposte a controllo dal CIPE. Si ricorda che le tariffe praticate sono tra le più basse in Europa e la differenza tra i costi e ricavi viene sovvenzionata attraverso contributi pubblici.

Il nostro Paese è uno dei pochi ad aver liberalizzato tutti le sezioni del servizio ferroviario; il settore è infatti aperto alla concorrenza ed è previsto che entro il 2003 per il trasporto locale dei passeggeri vi saranno gare competitive.

La riforma del settore ha comunque come al solito comportato una riduzione del personale delle FS e una forte compressione dei costi di manutenzione e per la salvaguardia dal rischio salute e ambiente.

Non è un caso che le ferrovie, dopo l’intenso processo di privatizzazione, abbiano espulso decine di migliaia di lavoratori creando nuove forme di disoccupazione, di precariato e di flessibilità e, inoltre, si è riscontrato un aumento degli incidenti a causa della diminuzione delle spese di manutenzione; inoltre sono stati compressi i costi relativi all’impatto ambientale, al rischio e alla sicurezza del lavoro, facendo aumentare notevolmente, anche nelle imprese dell’indotto, il numero di incidenti sul lavoro, portando alla diminuzione della presenza di tutte quelle misure antinquinamento non obbligatorie; il rischio derivante dalle attività produttive è notevolmente aumentato, sia come rischio per il lavoratore sia per l’intera cittadinanza.

Il Trasporto aereo è stato caratterizzato dalla presenza della nostra compagnia di bandiera, l’Alitalia, appartenente in origine quasi interamente all’IRI. Diverse normative europee e nazionali hanno previsto la liberalizzazione del settore a livello europeo. Nel 1995 i concessionari aeroportuali sono stati convertiti in società per azioni.

Per quanto riguarda l’occupazione nel settore si è avuta una diminuzione da 18.828 occupati nel 1992 a 17.871 nel 1997 e tale trend è continuato nel tempo, così come si vanno riducendo i costi di manutenzione.

 

4.6 Servizi pubblici locali

Anche per quanto riguarda i servizi pubblici locali (tra i quali rientrano i trasporti locali, lo smaltimento dei rifiuti, l’istruzione, la viabilità l’erogazione di energia, gas e acqua, gli asili, le mense scolastiche e le biblioteche pubbliche) è stato introdotto recentemente nel nostro Paese un programma di liberalizzazione con l’introduzione dei principi del libero mercato. In questo progetto è previsto che la proprietà delle infrastrutture resta in mano ai Comuni ma la gestione del settore viene attribuita a imprese private attraverso il procedimento della gara pubblica competitiva (in particolare delle modalità di privatizzazione in queste attività di servizio locali fondamentali per la qualità della vita dei cittadini, si dedicherà uno specifico articolo nel prossimo numero di PROTEO).

 

5. Alcuni confronti internazionali... per ridere ! Di chi? Dell’Italia di destra ma soprattutto del centro-sinistra

Negli anni 80 si è incominciato a mettere in discussione il ruolo dell’impresa pubblica, attraverso quei processi di privatizzazione più formali che sostanziali; si è incominciato a parlare in quegli anni della privatizzazione della SME, della Lanerossi, con una logica di vendere per riuscire ad arginare il crescente debito pubblico, per colmare in qualche modo quella che era una deficienza strutturale del modello capitalistico italiano, poiché il debito pubblico proveniva soltanto ed esclusivamente dallo sperpero del denaro pubblico, dalla logica clientelare dell’economia e da una logica assistenzialista che permetteva il voto di scambio e non lo sviluppo del Paese. L’accelerazione vera e propria del processo di privatizzazione non è avvenuto durante i governi democristiani, perché per essi quel modo di far politica economica rientrava quasi in un contesto generale di adesione al modello “vivi e lascia vivere”. L’accelerazione è avvenuta durante il Governo Amato (1990), quello Ciampi e quindi i primi governi tecnici appoggiati dalla sinistra, per poi avere un notevole sviluppo con il governo Dini, con i governi Prodi, D’Alema e di nuovo Amato.

Il 1992 risulta essere l’anno in cui il processo ha inizio nel nostro Paese con i primi processi di vendita di azioni del Credito Italiano e della Nuova Pignone, seguite a breve distanza dalla vendita delle SME.

Nel 1993 si è avuta poi una accelerazione del processo interessando tutto il mondo delle partecipazioni pubbliche; la legge 474 (conosciuta come legge sulle privatizzazioni) ha determinato il calendario di vendita dell’ENEL, della STET, dell’INA, dell’IMI, ecc. È proprio durante i governi di centro-sinistra che nell’arco di otto anni, cioè dal 1992 al 2000 si è avuta la vendita di gran parte delle banche pubbliche e delle industrie statali.

È interessante ora esaminare quali sono state le privatizzazioni delle quote di controllo per settore (cfr. Tab. 10).

Oltre il 33% del ricavo lordo tra il 1993 e il 1999 è stato ottenuto dal settore delle telecomunicazioni, in particolare dalla cessione della TELECOM e dalle privatizzazioni effettuate dalla finanziaria STET. Vi è poi il settore del credito e dell’assicurazione (31, 6%), quello dei trasporti (13, 0%); una parte più bassa di incassi proviene dalla cessione di società operanti nel settore manifatturiero, in particolare nella siderurgia, nell’alimentazione e nell’editoria. L’11, 5% dei ricavi totali deriva, poi, dalla vendita di aziende operanti in vari settori.

“Nel giro di soli otto anni (1992-2000) la gran parte dell’industria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta, per dimensioni e rapidità, del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente...” [1].

È interessante, allora fare un confronto con i dati internazionali relativi a privatizzazioni effettuate nei principali paesi industrializzati. Si nota che, secondo le disgregazioni settoriali delle privatizzazioni effettuate, il caso italiano presenta alcuni punti di contatto ma anche molte diversità rispetto a quanto accaduto negli altri paesi OCSE (Cfr. Tab. 11):

Secondo i dati disponibili, di fonte OCSE [2], nel periodo 1990/1998 complessivamente l’ammontare totale del processo di privatizzazione è stato pari circa a 485 miliardi di dollari [3].

Il settore che ha prodotto maggiori incassi è stato quello delle telecomunicazioni; molto importanti sono anche le operazioni effettuate nel settore trasporti, e quelle del settore manifatturiero, che in Italia si sono concentrati nel comparto alimentare, nell’editoria e nella siderurgia. Il peso delle privatizzazioni nel settore finanziario (banche e assicurazioni) a livello OCSE risulta inferiore rispetto a quanto registrato nel nostro Paese, mentre è particolarmente rilevante il dato sui proventi ottenuto nei paesi OCSE dalle privatizzazione delle public utilities diverse dai trasporti e telecomunicazioni. Si sono avuti incassi complessivi per circa 72 miliardi di dollari nel totale dei paesi industrializzati.

L’esame dei dati mostra chiaramente che si è trattato di un processo di dimensioni così vaste da essere annoverato tra i più grandi mai realizzati nell’Occidente. A questo proposito basta ricordare che negli anni che vanno dal 1979 al 1999 l’Italia ha realizzato proventi pari a 122 miliardi di dollari e si colloca nella graduatoria europea al secondo posto (dopo il Regno Unito che ha realizzato 165 miliardi di dollari) e prima della Francia (con 71 miliardi di dollari); seguono poi la Germania (con 63 miliardi di dollari) e la Spagna (con 62 miliardi di dollari).

Se delimitiamo invece l’arco temporale negli anni 1992 al 2000 si nota, allora, dalla tabella 12 [4] che l’Italia risulta essere al primo posto seguita dalla Spagna, dalla Germania, dalla Francia e dal Regno Unito.

Anche la tabella 13 che analizza le entrate realizzate dalle operazioni di privatizzazione negli anni 1990-2000 mostra chiaramente che l’Italia risulta essere il paese che ha realizzato i maggiori incassi; da rilevare che sia Regno Unito che Giappone e Spagna si collocano a una distanza ragguardevole dall’Italia.

Va inoltre sottolineato che:

L’ampia quota di offerte globali ha permesso l’entrata di un gran numero di investitori esteri, soprattutto americani, sulle principali piazze europee. La presenza del capitale estero è stata molto significativa, pari in media a quasi il 25 per cento del capitale delle aziende europee privatizzate, raggiungendo in alcuni casi (durante le opa Olivetti - Telecom, BNP-Paribas-SG e Vodafone -Mannesman) oltre il 50 per cento... L’entità della partecipazione del capitale estero in Italia è stata simile a quella che si è registrata in Francia e nel Regno Unito” [5].

 

6. Ancora sui dati storici...per credere senza illusioni!!

Nel gennaio 1994 il Ministero del Tesoro ha effettuato la prima operazione di vendita con la dismissione del 27, 9% dell’MI incassando oltre 920 milioni di euro; si è avuta poi la vendita della prima quota dell’INA pari al 49, 45% con un incasso di 2, 34 miliardi di euro.

Nel 1995 si è avuta la vendita della seconda quota dell’IMI e dell’INA, seguita a dicembre dalla dismissione della prima tranche dell’ENI con entrate pari a 3, 25 miliardi di euro.

Nel 1996 si è conclusa la cessione della parte rimanente dell’INA e dell’IMI e la seconda vendita di quota dell’ENI.

Nel 1997 il Tesoro ha realizzato attraverso le privatizzazioni un incasso pari a circa 19,6 miliardi di euro con la cessione di quote dell’Istituto San Paolo di Torino, del Banco di Napoli, con la terza tranche dell’ENI, della SEAT, ecc.

Nel 1998 si è avuto in incasso pari a 10, 3 miliardi di euro (20.000 miliardi di lire) con la vendita di azioni dell’ENI (la quarta tranche), della Banca Nazionale del Lavoro.

Nel 1999 l’incasso da dismissioni è stato pari a 18, 6 miliardi di euro (circa 36.000 miliardi di lire), mentre nel 2000 si sono avute entrate pari a 600 milioni di euro (1.100 miliardi di lire).

La Tab. 14 [6]seguente evidenzia gli effetti delle privatizzazioni sulla finanza pubblica fino all’anno 2000, che, come può notarsi, non ha realizzato in tal senso gli obiettivi annunciati e pubblicizzati con grande enfasi.

La Relazione sulle privatizzazioni del giugno 2000 [7] del Ministero del Tesoro informa che il volume complessivo delle cessioni realizzate dal Gruppo IRI dal luglio 1992 al 30 giugno 1999 risulta pari a circa 52.745 miliardi di lire, di cui 37.844 miliardi di lire circa relativo ad operazioni realizzate direttamente dall’IRI S.p.A.

Se si aggiungono i debiti finanziari trasferiti si arriva ad un valore complessivo di circa 71.759 miliardi di lire - di cui circa 53.944 miliardi di lire IRI S.p.A.

Invece il volume complessivo delle cessioni effettuate dal Gruppo ENI dal luglio 1992 al 31 dicembre 1998 è di circa 8.106 miliardi di lire e il valore dei debiti finanziari trasferiti pari a circa 2.527 miliardi di lire. Il valore economico complessivo è stato dicirca 10.633 miliardi di lire.

Nel secondo semestre del 1998 il gruppo IRI ed in particolare le holding settoriali hanno realizzato le seguenti operazioni:

- cessioni di quote di controllo per circa 1.500 miliardi di lire, soprattutto EBPA da parte di Finmeccanica e Italia di Navigazione e Lloyd Triestino da parte di Finmare;

- cessioni di quote di minoranza e di rami d’azienda per più di 110 miliardi di lire, che si riferiscono soprattutto ad operazioni realizzate dal Gruppo Finmeccanica;

- alienazioni di cespiti per circa 140 miliardi di lire riguardanti principalmente smobilizzi effettuati da Iritecnia e Sofinpar.

Le operazioni realizzate nel primo semestre 1999 dal Gruppo IRI hanno mosso risorse finanziarie per un circa 397 miliardi di lire. In particolare le holding settoriali hanno realizzato:

- cessioni di quote di controllo per 83 miliardi di lire, principalmente Grandi Motori Trieste da parte di Fincantieri, e Condotte e Italimpa da parte di Fintecna, oltre a 19 miliardi di lire di debiti trasferiti alle controparti acquirenti;

- cessioni di quote di minoranza e di rami d’azienda per 177 miliardi di lire, sostanzialmente riferibili ad operazioni realizzate dal Gruppo Alitalia;

- alienazioni di cespiti per 118 miliardi di lire riguardanti smobilizzi attuati da Finmeccanica, Iritecna, Finsider e Sofinpar.

Il gruppo Eni ha incassato nel secondo semestre 1998 un importo pari a 277 miliardi di lire (143.058.561 Euro).

La tabella 15 [8]analizza, invece, le partecipazioni ancora detenute dal Ministero dell’Economia al novembre 2001.

“...Tra il 1992 e il 2000 gli smobilizzi di imprese pubbliche, hanno comportato un introito di circa 198 mila miliardi. Queste risorse sono confluite in parte al Tesoro, in parte agli ex-enti di gestione, in parte all’EFIM posto in liquidazione nel 1992 e in parte ad altri enti: Lire 121.741 miliardi per operazioni realizzate direttamente dal Tesoro; Lire 56.051 miliardi (5) per operazioni realizzate dall’IRI dal 1992 al 30 giugno 2000; Lire 6.605 miliardi per operazioni realizzate dall’ENI dal 1992 al 1998; Lire 844 miliardi per operazioni realizzate dall’EFIM; Lire 9.639 miliardi per le principali operazioni realizzate da enti pubblici” [9].

Arrivando al 2001, nel primo trimestre si è avuta la quinta tranche di vendita dell’ENI, con entrate pari a 2,72 miliardi di euro (5.268 miliardi di lire).

La tabella 16 [10] seguente analizza ed evidenzia le entrate totali derivanti dalle privatizzazioni attuate dall’IRI e dal Tesoro negli anni 1992-2001.

Nonostante la grande mole di dismissioni attuate negli anni analizzati, a maggio 2001 sono ancora molte le partecipazioni statali; ad esempio sono ancora pubbliche le Poste Italiane, l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, le Ferrovie dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti; inoltre il Ministero dell’Economia e Finanze ha quote importanti nell’ENEL (oltre il 67%), nell’ENI (circa il 30%), nell’Alitalia (53%), nella Rai (100%), nella Finmeccanica (32,4%).

È interessante evidenziare che gli incassi da dismissioni negli anni 1996-2001 (febbraio) sono stati in totale di quasi 160.000 miliardi di lire (82,5 miliardi di Euro) (Cfr. Tab 17) [11].

Negli anni che vanno dal 1993 al 1997 le privatizzazioni hanno avuto un peso crescente rispetto al PIL per poi evidenziare una flessione nel 1998 e di nuovo un peso consistente nel 1999 come dimostra la tabella 18 [12]sopra.

Il processo che è avvenuto in relazione alla privatizzazione in Italia è stato un processo di finanziarizzazione dell’economia. Il fattore che predomina è l’unità dell’EURO, unità questa basata esclusivamente sulle strategie di finanziarizzazione, sul movimento di capitali speculativi senza dare alcun freno, e non sulle regole dell’economia reale vera e propria. Il raggiungimento dell’abbassamento del rapporto deficit pubblico/PIL che è avvenuto in questi anni, non si è avuto assolutamente grazie alle entrate delle privatizzazioni, ma, al contrario, si è avuto con un processo economico e culturale estremamente più importante e più delicato, vale a dire attaccando il Welfare State, le politiche attive e passive del lavoro, la sanità, la cultura, il finanziamento della ricerca.

Per giungere sinteticamente a delle conclusioni, abbiamo estrapolato quattro o cinque punti chiave che emergono dall’analisi delle privatizzazioni. I processi di privatizzazione nel nostro Paese e in Europa si accelerano nel momento in cui vengono posti come inderogabili i parametri di Maastritch, in quanto in questi parametri esiste un obbligo sostanziale legato al bilancio pubblico dei singoli paesi. L’imperativo di fare cassa implica un falso problema, in quanto non è vero, come afferma Ciampi, che attraverso le privatizzazioni bisogna assorbire liquidità del sistema, bisogna colmare le carenze momentanee deficitarie del bilancio pubblico. Non si può valorizzare queste imprese, cioè spendere del denaro pubblico, come nel caso dell’ENEL che negli ultimi anni è costato alla collettività 300 mila miliardi, e una volta che si è valorizzata l’impresa adesso la si svende.

Comunque è importante sottolineare che “Gli effetti sull’industria delle privatizzazioni hanno comportato in generale un aumento della concentrazione, e quindi - in via di principio - ad una riduzione della concorrenza. Ciò perché solo in un caso si è avuta una divisione tra più soggetti delle imprese cedute. Al contrario, di norma esse sono state integrate nell’organizzazione del gruppo acquirente il cui obiettivo è sempre stato l’aumento della propria dimensione; nel caso di acquirenti con obiettivi di diversificazione, le politiche messe successivamente in atto hanno esse stesse puntato a raggiungere un aumento dimensionale attraverso l’assorbimento di concorrenti. Le imprese privatizzate avevano infatti per lo più una dimensione ridotta rispetto ad un ambito internazionale sempre più globalizzato... In un numero significativo di casi, le privatizzazioni hanno portato alla costituzione di operatori nazionali di dimensione adeguata. Ciò è accaduto sia nelle imprese di scala maggiore (soprattutto, siderurgia - con i Gruppi Riva e Lucchini -, telecomunicazioni - con la Olivetti/Telecom Italia - e ristorazione - con Benetton/Autogrill), sia nei comparti di nicchia (ad esempio: Esaote negli apparecchi medicali, Lonati nelle macchine per calzifici, Orlandi e Radici nel meccanotessile)...” [13].

Un’ultima considerazione che emerge da questa nostra indagine sulle privatizzazioni riguarda il fatto che, laddove le aziende pubbliche vengono privatizzate, non solo avvengono fenomeni di flessibilità, di precarizzazione, di espulsione di manodopera, ma si sostiene che non abbia più senso parlare di difesa di settori strategici di una nazione in un mercato globale. Questa logica ha portato alla distruzione di capitale umano fortemente specializzato all’interno del nostro Paese, perché, laddove si provoca disoccupazione, vanno via quegli operai, quegli impiegati che hanno, attraverso il loro lavoro di anni, raggiunto il maggior livello in termini di ricerca e di specializzazione. Per cui il nostro Paese, non difendendo i settori strategici, vendendo Telecom, ENI, ENEL ha perso un patrimonio umano e di ricerca tecnologica incredibile; in quanto questi aspetti, che venivano fortemente curati nell’impresa pubblica a vantaggio generale oggi vengono perseguiti ad esclusivo vantaggio e interesse dell’impresa privata.

Un altro aspetto evidenziato dall’analisi riguarda, nel processo di privatizzazione in atto, l’introduzione dei capitali esteri. Voglio premettere che noi non siamo per la difesa dell’economia nazionale ad oltranza, non siamo antieuropeisti, ma siamo contro questo tipo di modello di globalizzazione, contro l’Europa dei banchieri e delle imprese e non contro quella dei lavoratori, dell’ambiente e della solidarietà. Avviene che con l’introduzione di questi capitali esteri si aggiunge al fatto che attraverso i piccoli possessi azionari si può detenere tutto il capitale di aziende che hanno fatto la storia economica del nostro Paese, portando complessivamente alla scomparsa di una sana imprenditorialità nazionale, ad un calo dell’occupazione nell’industria dovuto, non soltanto ai processi di ristrutturazione delle imprese private, ma anche a questi processi di privatizzazione dell’impresa pubblica, provocando così in molte aree un vero e proprio processo di deindustrializzazione.

È anche per tali motivi più direttamente economico-produttivi che dietro al processo di privatizzazione noi vediamo soltanto una ragione di ordine politico. È per questo il titolo di questo nostro articolo: Il PRIVATO È POLITICO! La ridefinizione dei modelli capitalistici porta con sé, in momenti in cui c’è debolezza anche da parte delle organizzazioni della sinistra, un attacco frontale verso quelle che erano state le conquiste del movimento operaio e dei lavoratori. Infatti, anche da un punto di vista prettamente economico, abbiamo applicato degli indicatori di efficienza e di efficacia patrimoniali, finanziari ed economici alle varie imprese che sono state privatizzate; ne è risultato che è innanzitutto un falso affermare che questi indicatori, costruiti rapportando le varie voci di costo a quelle dei ricavi, siano notevolmente migliorati in tutti i casi di privatizzazione; inoltre, nei casi in cui sono migliorati effettivamente, questo è dovuto all’innalzamento dei profitti e soprattutto all’abbassamento dei costi di produzione. I costi di produzione che hanno subito un notevole abbassamento riguardano quelli del lavoro; in tutte le imprese privatizzate si è espulsa manodopera, attraverso meccanismi di prepensionamento, attraverso gli incentivi e le forme più o meno occulte di flessibilità, che hanno portato al lavoro autonomo di seconda generazione, ai reparti confino, le esternalizzazioni produttive, che hanno costretto i lavoratori ad uscire dal ciclo produttivo. L’Italia è diventato il paese, in pochi anni, di milioni di partite IVA che sempre più spesso non segnalano nuova imprenditorialità ma corrispondono a gente espulsa dal ciclo produttivo che cerca una qualche forma di reddito o comunque una forma di sopravvivenza. Insieme ai costi del lavoro si sono compressi altri tipi di costo, quali: quelli di manutenzione ordinaria e straordinaria.

L’aumento di efficienza raggiunto dalle imprese privatizzate è dovuto, dunque, alla contrazione di quei costi di quelle spese che, invece, dovevano essere ritenute intoccabili; infatti, in un programma di industrializzazione avanzato, in un progetto di sviluppo serio di un paese, in cui non prevalgono gli investimenti finanziari ma quelli produttivi, dovrebbe aumentare l’occupazione e gli investimenti per la salvaguardia ambientale, sociale e della salute dei cittadini.

Per la bibliografia essenziale si faccia riferimento alle note nel testo.


[1] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni...”, op. cit. pag. 40.

[2] Cfr. “Financial Market Trends”, n. 72, febbraio ’99.

[3] Comprese le privatizzazioni italiane, che ammontano da sole a circa 65 miliardi di dollari.

[4] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 41.

[5] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia 1992...”, op. cit., pag. 41.

[6] Cfr. Il Sole 24ore, 28.09.2001.

[7] Cfr. “Relazione sulle privatizzazioni del Ministero del Tesoro”, giugno 2000.

[8] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 47.

[9] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit. pag. 25.

[10] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 51.

[11] Cfr. Libro Bianco sulle operazioni..., op. cit., pag. 20.

[12] Cfr. Libro Bianco sulle operazioni..., op. cit., pag. 23.

[13] Cfr. “Le privatizzazioni in Italia dal 1992”, R&S - Ricerche & Studi S.pA., Milano, pag. 14.