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Osservatorio meridionale

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Sergio Tanzarella
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Professore alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli

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Accogliere lo straniero. Dalla regolamentazione alla tutela dei diritti: dilatare i confini del possibile

Sergio Tanzarella

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Chi oggi si spinge lungo i confini più meridionali dell’Unione Europea raggiungendo l’antica città di Selinunte - edificata nel VII secolo a.C. e distrutta dai cartaginesi nel 409 a.C. - la colonia greca più ad occidente della Sicilia, non può permettersi di ignorare l’intensità dei movimenti umani dell’area mediterranea: una rete fitta di collegamenti, commerci, contaminazioni di culture e di lingue, spostamenti continui di intere popolazioni (Sicani, Siculi, Elimi, Fenici, Greci) che caratterizzarono il mondo antico di quell’area della terra. Ma a chi scende fino ai suggestivi templi dell’Acropoli che sorge quasi in riva al mare si presenta uno spettacolo dolorosamente inatteso: sulla battigia giace il relitto di una piccola imbarcazione. Dinanzi ai templi edificati durante la piena espansione della civiltà ellenistica ha fatto naufragio una delle tante rugginose navi della disperazione. Quella notte del 30 dicembre 2001 non ci furono morti tra i poveri viaggiatori, un numero spropositato rispetto alle capacità del minuscolo peschereccio, rappresentanti una umanità lacerata in cerca di un futuro e disposta a rischiare perfino la vita non avendo nessuna possibilità di sopravvivere rinunciando a partire. Il relitto, non rimosso da mesi, della spiaggia di Selinunte può essere compreso come il monumento all’esodo umano che a distanza di millenni ripercorre, con ben altre urgenze, le antiche rotte dell’ellenizzazione. Il relitto trasportava un carico umano costituito anche di sogni e speranze alle quali avrà corrisposto, probabilmente, una condizione simile a quella riservata agli schiavi della cava di Cusa che servì per ottenere gli immensi blocchi di pietra necessari all’edificazione di Selinunte. Ma quel relitto abbandonato sulla spiaggia interroga anche la coscienza dell’Europa chiedendo ragione dell’accoglienza negata oggi allo straniero e delle politiche comunitarie di ingresso e soggiorno, quel relitto è anche memoria dei mille naufragi, degli affogati nel mare nero della notte, delle conclusioni tragiche di viaggi costosissimi e pericolosi iniziati, con ogni mezzo, dalle periferie del pianeta e della storia dove guerre, carestie, commercio di armi, dittature sanguinarie, detenzioni arbitrarie e torture, strangolano la vita e negano la dignità di miliardi di esseri umani. L’Europa non può non sentirsi coinvolta dall’esodo, spesso tragico, che ha come miraggio le sue frontiere. È, dunque, il momento di scelte dirimenti come scrivono i Provinciali gesuiti europei:

"Il nostro mondo oggi deve fare una scelta. Possiamo erigere steccati, escludere alcuni e includere altri. Possiamo costruire muri, che diventeranno sempre più alti man mano che si alzerà il clamore di quelli di fuori. Oppure possiamo costruire un ordine globale dove prevalgano la giustizia e l’eguaglianza e dove la nostra fede nell’umanità di tutti sia glorificata e incarnata nelle strutture della nostra società. La Storia ci ha insegnato che la prima soluzione porta alla guerra e alla violenza, mentre la seconda è la via maestra per la pace e lo sviluppo" [1].

1. Diritti di carta e diritti esigibili

Se il secolo appena concluso potrà essere definito quello dell’affermazione teorica dei diritti umani esso dovrà anche comprendersi come quello che in forma più evidente e macroscopica li ha contemporaneamente negati e calpestati in una sequenza ininterrotta sia dei crimini e degli orrori delle guerre di sterminio [2], sia della moltiplicazione dei campi di reclusione e concentramento [3]. Ed è stata questa una negazione materiale e concreta a fronte di diritti di carta. E tanto più l’affermazione e l’estensione di sempre nuovi diritti si è moltiplicata, tanto più essi ci appaiono come una enunciazione grandiosa, raccomandabile ma anche contemporaneamente irrealizzata e forse irrealizzabile se l’ingiustizia non viene denunciata e combattuta. Giova forse qui rammentare quanto scriveva Tacito in una età gloriosa e ad un tempo inquieta dell’Impero: più lo Stato è corrotto più si fanno leggi. Potremo dire nel nostro caso: più il diritto alla vita è conculcato e negato, più si allarga la quantità e la qualità dei diritti affermati e conclamati. Si tratta di assegni evidentemente non esigibili, di carta moneta di alto taglio con la quale non è possibile comprare anche il poco che serve per sopravvivere poiché nessuno è disposto a cambiarla. Qui non si vuole negare il valore alto, anzi altissimo, dei diritti riconosciuti e l’estrema importanza che essi siano stati codificati ufficialmente, sottoscritti e ratificati dalla maggioranza dei Paesi del mondo, questo costituisce un patrimonio straordinario e un punto di non ritorno per l’umanità. Ma preme segnalare il baratro che esiste tra quei diritti annunciati e codificati e non solo la realtà, il che sarebbe nella fisiologia, ma le politiche degli Stati e dei poteri economici che apparentemente promuovono e sostengono la promozione di quei diritti, il che è l’aspetto patologico della questione. La prova di ciò è nell’estrema fragilità costitutiva del riconoscimento dei diritti umani. Essi sono da immaginare come una piramide rovesciata, dove la punta su cui poggia l’enorme costruzione dei diritti umani afferma un diritto elementare, semplice semplice, ma che una volta negato o impedito rende inutile e pericolosa l’intera struttura. È il diritto alla vita e alla dignità. Se questo diritto viene meno che senso ha tutto il resto? E questo interrogativo s’affaccia sul baratro di un interrogativo ancora precedente: "su cosa sia il “diritto di avere dei diritti” oggi, quando si è privi di patria (rifugiati o apatridi), di uno status sociale (disoccupati, sans-papiers), di diritti politici (stanieri)"4.

2. Per chi è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea?

Proprio il diritto alla vita e alla dignità è affermato con particolare rilievo nei primi due articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:

"1. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.

2. Ogni individuo ha diritto alla vita".

È legittimo però chiedersi, anche alla luce delle politiche sull’immigrazione dei singoli stati dell’Unione - politiche spesso sostanzialmente divergenti - a chi si riferisce concretamente la Carta e chi sono i soggetti detentori di questi diritti? Infatti, ci sarà spazio nella futura Costituzione dell’UE per il diritto alla vita e alla dignità anche di coloro che non sono cittadini dell’Unione? Cioè per tutti quelli che vi risiedono legalmente o illegalmente, e anche per coloro che alle frontiere aspirano ad entrarvi con ogni mezzo, anche il più rischioso e non raramente mortale. In altre parole quanto l’UE farà dipendere il riconoscimento dei diritti umani proclamati dal possesso di una particolare cittadinanza sciogliendo così le ambiguità già presenti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 [4]?

A che serve moltiplicare i forum, i vertici, gli accordi, i documenti, le ratifiche, i trattati senza rispondere a queste domande dirimenti e soprattutto quale definizione credibile e condivisa potrà essere fornita all’espressione “Europa” e al ricorrente uso di concetti quali “valori europei”, “solidarietà europea”, “sicurezza europea”, “cultura europea” [5]?

A chi giova questa affermazione di diritti se l’essere umano a cui si vorrebbero offrire tali grandiose garanzie è già morto nel proprio Paese di fame e di malattie curabili, oppure se viene fracassato sulle frontiere d’Europa. Se giace in fondo al mare dopo aver fatto naufragio nella speranza di arrivare sulle nostre spiagge [6]. Se è soffocato in un container dopo interminabili viaggi. I confini meridionali dell’Unione, dallo stretto di Gibilterra fino al canale d’Otranto, sono ormai attraversati da una scia interminabile di sangue e di disperazione. Sarebbe un errore immenso se la futura Costituzione fingesse di non scorgere le tragedie quotidiane che si vivono sulle frontiere d’Europa.

Ma il problema non è soltanto entrare in Europa, è anche restarci, e restarci vivi. La dignità e il rispetto della vita non si possono certo coniugare con il lavoro paraschiavistico al quale sono sottoposti molti immigrati e soprattutto con l’ostilità più o meno manifesta che viene rivolta loro a partire dalla sopravvalutazione della loro presenza fino all’aggressione fisica diretta [7]. La dignità non può essere affermata se la condizione di legalità dello straniero nell’UE si lega esclusivamente al possesso di un lavoro regolare e continuativo. In questo modo, che sembra essere sempre più sostenuto dalle politiche dei singoli Stati dell’Unione, si stabilisce un principio di precarietà per il quale lo straniero è considerato esclusivamente risorsa produttiva rischiando così di divenire come una qualsiasi merce. Su questa tendenza che progressivamente tende ad affermarsi scrivono ancora, con lungimiranza, i Provinciali gesuiti europei:

"Man mano che si chiudono le vie legali d’ingresso, persone ansiose di entrare in Europa si trovano costrette a buttarsi nelle braccia di trafficanti privi di scrupoli. Più i governi europei si impegnano contro gli immigrati illegali, più i metodi d’ingresso diventano pericolosi e costosi. La recente scoperta a Dover di 58 persone morte per soffocamento in un container è stato uno shock per tutti [...]. Più vengono chiusi i confini dell’Europa Occidentale, più il problema si sposta verso l’Europa Orientale. La Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca ricevono ormai migranti da Sri Lanka, Sudan e da altrove. Molti di essi in cerca di lavoro, molti altri in cerca di sicurezza, moltissimi in attesa di procedere ulteriormente verso Occidente. La globalizzazione spalanca i mercati ma non le frontiere. La globalizzazione ha abbattuto i confini dell’informazione, dei capitali e della proprietà, ma non dei popoli. L’obiettivo è pur sempre quello di tenere rifugiati e migranti a debita distanza. Si prendono misure sofisticate per tenerli alla larga, misure come condizioni più dure per l’ottenimento del visto, provvedimenti deterrenti come la detenzione, la soppressione di benefici sociali. Con queste misure lo Stato abdica a responsabilità quali gli accordi per la riammissione, la protezione temporanea, la politica per la sicurezza del Paese d’origine e di Paesi terzi. Particolarmente inquietante la crescente detenzione di persone che fanno richiesta d’asilo politico e di migranti" [8].

3. Il diritto di essere riconosciuti esseri umani

Il primo diritto negato è quindi quello di potersi riconoscere e di poter essere riconosciuti come esseri umani. Che significa non una enunciazione formale di principio, ma un riconoscimento di identità. Facciamo caso all’uso delle parole e come queste costituiscano, invero, l’impenetrabile universo della condizione dell’anonimato. Ed è in questa condizione che i diritti possono più facilmente essere aggirati. Quando l’essere umano è ridotto nella condizione della “non persona” attraverso l’uso di un numero o di un aggettivo è molto più facile negare la sua identità, il suo essere persona detentrice di diritti. Sapevano bene questo coloro che hanno lavorato nell’universo concentrazionario dove i reclusi erano solo dei numeri. Del resto questo meccanismo lo conoscono bene negli ospedali dove i malati sono spesso soltanto la propria malattia o il numero di camera o di letto.

È sorprendente come anche i regimi più spietati abbiano necessità, prima di commettere i crimini più crudeli, di disconoscere l’umanità dell’altro, di abbassarne la condizione di esistenza al rango di bestia o di non essere per poterne sostenere lo sguardo senza rimorsi e per potersene avvalere come una qualsiasi merce. “Non sono come noi e sono molto meno di noi” allora possiamo farne ciò che vogliamo.

Scrive una giovane donna ungherese condannata a vivere come cameriera alle dipendenze dei capricci di sempre nuovi e più esigenti padroni: "Tu non hai nemmeno un nome, quando si parla di te si dice “la filippina”, “la peruviana”, il mio cingalese” oppure “la ragazza”, la donna" [9].

Lo stesso meccanismo è quello che sembra imporre l’uso di definire gli esseri umani con aggettivi che sono il massimo dell’indeterminatezza e dell’anonimato. Prendiamo il caso delle parole irregolare e clandestino, uso "che rimanda all’idea di una categoria di non-persone prive - cosa per lo più ritenuta ovvia - di status di diritti o con diritti differenziati, le quali presenti abusivamente sul territorio italiano (così ritiene una parte dell’opinione pubblica) in genere sono immaginate come gente che vive di espedienti, di attività marginali, illegali o addirittura delinquenziali" [10]. Queste convinzioni, oltre ad essere del tutto infondate, trascurano di considerare quali sono le motivazioni reali che spingono una moltitudine di esseri umani ad abbandonare il proprio Paese per andare incontro all’ignoto in terre sovente inospitali ed ostili. La prima motivazione del migrare contemporaneo è quella di ordine economico, sovente fusa a quella di ordine politico, ovvero legata all’ingiustizia della cattiva distribuzione delle risorse e alle logiche di sfruttamento dell’economia liberista in grado di produrre: fame, guerre e dittature. Una mano secondo alcuni ben visibile [11] nella propria azione mortifera per miliardi di esseri umani e che tuttavia altri, per esempio un intellettuale acuto come Hans Magnus Enzensberger [12], si ostinano a non vedere ritenendo semplicistico spiegare la miseria dei poveri con fattori esterni legati proprio all’economia liberista. Quanto siano prive di fondamento queste osservazioni appare ben evidente se si confronta l’attuale condizione politica ed economica dei cosiddetti Paesi Meno Avanzati (PMA) con i principi affermati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli adottata ad Algeri il 4 luglio del 1976 [13]. Né il diritto all’autodeterminazione, né quello alla sovranità permanente sulle risorse naturali sembrano avere avuto da allora alcun riconoscimento concreto da parte delle trasnazionali che governano il mondo in nome delle leggi assolute e spietate dell’economia liberista e sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale. Trasnazionali che impongono condizioni di lavoro subumane e pericolose, orari di lavoro superiori anche alle 10-12 ore, retribuzioni miserevoli e inquinamento ambientale diffuso e gravissimo [14] fino al riconoscimento e alla giustificazione di fatto del lavoro paraschiavistico [15]. Ed è proprio la negazione di questi diritti alla base della condizione di miseria e di indigenza assoluta nella quale si trova la maggioranza della popolazione del mondo. Una maggioranza che non ha più una sola collocazione geografica determinata secondo l’obsoleta definizione di “Terzo mondo”. La più realistica immagine dei “Quarti mondi” suggerisce di sommare, infatti, agli esclusi dei PMA, le minoranze autoctone e i nuovi poveri dell’Occidente, un Occidente costituito ormai come una efficiente macchina per escludere [16]. Per questi miliardi di esseri umani sembra non esserci altro spazio se non quello dei programmi di assistenza e di soccorso internazionale secondo il rigido schema di buona azione - buon affare, come la cooperazione internazionale con i suoi scandali e i suoi sprechi ha ampiamente dimostrato. Una assistenza che non prevede in genere alcuna possibilità di autonomia dalla dipendenza, imponendo una rigorosa distanza tra chi vive il dramma dell’esclusione e chi elargisce magnanimamente degli aiuti umanitari. È questa distanza che potrebbe affermarsi nell’UE con l’avvento definitivo di politiche tendenti a rendere di fatto impossibile l’immigrazione. La futura Costituzione non dovrebbe invece ignorare il nesso profondo fra le scelte economiche della stessa UE e quelle popolazioni che di quelle scelte sono vittime diventando dei potenziali migranti. Una esemplificazione - tra le tante
 può essere quella della "decisione approvata dal Parlamento europeo, di consentire l’uso del 5% di grassi vegetali nella fabbricazione del cioccolato, molto meno costosi del burro di cacao, dunque a beneficio delle grandi industrie del settore, ma inferendo un colpo quasi mortale ai paesi africani e latino-americani che dalla produzione del cacao facevano dipendere la propria sopravvivenza. Secondo dati dell’organizzazione non governativa inglese Oxfam, ben 11 milioni di persone sono cadute nella miseria più nera quando, nel giro di appena due anni, il prezzo del cacao sul mercato internazionale si è ridotto a più della metà" [17]. Perché meravigliarsi se una rappresentanza di quei milioni di senza cibo e futuro cercherà di ottenere, entrando con ogni mezzo nell’UE, ciò che la stessa UE a quei milioni di senza cibo e futuro ha tolto?


[1] "Dichiarazione dei Provinciali gesuiti europei", in Gesuiti in Italia 4(2001) 38.

[2] Cfr. tra le più recenti pubblicazioni riassuntive riguardanti il XX secolo: J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma 2001; J. Glover, Humanity. Una storia morale del XX secolo, Il Saggiatore, Milano 2002.

[3] Cfr. al riguardo A.J. Kami ski, I campi
di concentramento
dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1998; J. Kotek - P. Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Mondadori, Milano 2001.

[4] Osserva G. Agamben a proposito della Dichiarazione: "Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo si mostrano sprovvisti di ogni tutela nel momento stesso in cui non è più possibile configurarli come diritti di cittadini di uno Stato. Ciò è implicito, se ben si riflette, nell’ambiguità del titolo stesso della Dichiarazione del 1789: Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, dove non è chiaro se i due termini nominino due realtà distinte o formino, invece, un’endiadi in cui il primo termine è, in verità, già sempre contenuto nel secondo" (Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, 23-24).

[5] Cfr. W. Wallace, Le trasformazioni dell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1992, 19ss.

[6] Nel Natale del 1996 morirono nel tratto di mare tra Malta e Porto Palo (Sr) 286 immigrati, un naufragio negato per anni da tutte le autorità anche quando i pescatori cominciarono a rinvenire nelle loro reti pezzi di arti umani. Nella Pasqua del 1997 nel canale d’Otranto vi furono circa 100 morti in seguito allo speronamento della nave Kater I Rades da parte della motovedetta della Marina Militare italiana Sibilla.

[7] "Alcuni possibili esempi, a crescente livello di ostilità, possono essere: una generica sopravvalutazione delle dimensioni quantitative del fenomeno e dei costi che la società di accoglienza dovrà sopportare; un concreto disagio per la vicinanza fisica di singoli immigrati o di loro comunità; la tendenza a considerare come più gravi, o più evidenti, i problemi di ordine sociale di cui possono essere responsabili in modo più o meno diretto gli immigrati; la tendenza a considerarli comunque responsabili, con un classico esempio di “capro espiatorio”, di problemi di cui essi sono semmai vittime; l’adozione di esplicite pratiche di discriminazione, la lotta aperta ai loro insediamenti e alle loro attività; fino all’aggressione diretta, verbale o fisica, che a volte finisce per avere effetti tragici" (B.M. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni interetniche, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, 14-15).

[8] "Dichiarazione dei Provinciali gesuiti europei", cit., 35.

[9] C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma 2001, 47.

[10] A. Rivera, "Immigrati", in R. Gallissot - M. Kilani - A. Rivera (edd.), L’imbroglio etnico in quattordici parole chiave, cit., 208.

[11] Cfr. C. Frassineti, La mano visibile. Per una economia della liberazione, la meridiana, Molfetta 1993.

[12] H.M. Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994, 28ss.

[13] Cfr. F. Rigaux, La carta di Algeri. La dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Algeri, 4 luglio 1976, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1988.

[14] Si cfr. al riguardo la preziosa opera compiuta dal “Centro nuovo modello di sviluppo” di cui sono prova numerose pubblicazioni tra cui: Lettera ad un consumatore del Nord, EMI, Bologna 1990; Boycott. Scelte di consumo. Scelte di giustizia. Manuale del consumatore etico, Macro edizioni, San Martino di Sarsina 1992; Guida al consumo critico. Informazioni sul comportamento delle imprese per un consumo consapevole, EMI, Bologna 1996.

[15] Cfr. la preziosa indagine di S. Calvani - M. Melis, Gli schiavi parlano e i padroni confermano (Piero Manni, Lecce 2000) che offre una dolorosa e articolata rassegna di quale sia il livello di estensione della condizione di schiavitù nel mondo: dalla prostituzione al lavoro minorile a quello nero e asservito fino al turismo sessuale. Queste attività costituiscono la spina dorsale di quell’economia di morte che orienta le politiche di quegli stessi Paesi che, mentre sottoscrivono i trattati sui diritti, offrono alle ragioni assolute del mercato tutte le risorse legislative perché si possa affermare, spesso legalmente, la negazione dei diritti stessi.

[16] "Non c’è più Terzo mondo, ma ci sono “Quarti mondi”. Questo termine è utilizzato per designare tre insiemi distinti di esclusi: i marginali dei paesi ricchi, le minoranze autoctone, i paesi meno avanzati" (S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 1993, 26).

[17] R. Napoleone, Le radici dell’odio. Nord e sud a un bivio della storia, Dedalo, Bari 2002, 184-185.