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Cent’anni di improntitudine.Ascesa e caduta della FIAT

Vladimiro Giacché

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Dalla metà degli anni Trenta, la produzione militare della FIAT conobbe una crescita esponenziale. A partire dal 3 ottobre 1935, data di inizio dell’invasione italiana dell’Etiopia, sulla FIAT e su altre aziende da essa controllate si riversarono cospicue commesse belliche: in concreto le forniture di materiale automobilistico ammontarono a più di 855 milioni di lire. [1] Cosicché, nel giro di un anno, il fatturato della FIAT passò da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni (avrebbe superato i 2 miliardi nel 1937), e la manopera crebbe sino a raggiungere le 50.000 unità. Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori, che Mussolini avrebbe poi definito come la "fabbrica perfetta del regime fascista".

Nel frattempo, siccome un sagace imprenditore pensa non soltanto a se stesso, ma anche ai figli, Giovanni Agnelli, aveva pensato bene di far sì che il capitale della FIAT restasse sotto stretto controllo. Così nel 1932 il sindacato di controllo viene blindato attraverso un regolamento interno che garantiva la permanenza del pacchetto di maggioranza della FIAT nelle mani degli azionisti fondatori dell’IFI (Istituto Finanziario Industriale), ossia lo stesso Giovanni Agnelli e i figli. Da questo momento la FIAT è a tutti gli effetti, anche formalmente, di proprietà della famiglia Agnelli. [2]

5. Dalla guerra alla Liberazione

"Torino, intatta nella sua virilità morale, nella sua disciplina fattiva, saprà superare la crisi e sviluppare i compiti che la Patria le ha assegnato"

(lettera di Giovanni Agnelli a Mussolini dopo

i bombardamenti su Torino, 5 febbraio 1943)

"Nel vagliare l’accusa di avere contribuito al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra, non si può astrarre dalla posizione soggettiva dell’incolpato. Altra è la responsabilità individuale del libero cittadino, per cui può diventare dovere imperativo la veste di perseguito o profugo politico; altra è quella, necessariamente a larga ripercussione collettiva, del capitano d’industria che deve pensare alle conseguenze di ogni suo atto od omissione rispetto alle industrie che a lui fanno capo"

(memoria predisposta dai difensori di Giovanni Agnelli contro il procedimento di epurazione, giugno 1945)

Se la guerra d’Etiopia aveva rilanciato fatturato ed utili della FIAT, lo stesso - e su scala ben più ampia - accadde durante i primi anni della seconda guerra mondiale. Già nel primo trimestre del 1940, la maggior quota di fatturato raggiunta rispetto allo stesso periodo del 1939 (+ 166 milioni di lire), era dovuta alle "maggiori esportazioni di camions, velivoli, motori d’aviazione". [3] Ed al momento dell’entrata in guerra, nel giugno del 1940, l’amministratore delegato della FIAT, Vittorio Valletta (che aveva assunto tale incarico nel 1939), richiesto dal governo di indicare le potenzialità della produzione bellica della FIAT, diede subito le migliori rassicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la "militarizzazione dei dipendenti", cosicché ognuno fosse "passibile, anche sul lavoro, delle sanzioni del Codice Militare di Guerra". Cosicché fu deciso che ogni infrazione o intralcio all’attività produttiva fossero puniti con il deferimento al Tribunale Militare. Quasi ogni attività della FIAT venne convertita alle esigenze belliche: dalle fabbriche del gruppo uscivano adesso motori d’aviazione, aerei caccia, autocarri, carri armati, unità speciali motorizzate. I risultati non si fecero attendere: il primo quadrimestre del 1941 la FIAT archiviò un risultato eccezionale, e - nonostante una pesantissima tassa sulle plusvalenze azionarie - il titolo della casa torinese crebbe in pochi mesi del 50-60%; le misure di tassazione dei dividendi furono in un primo momento soltanto minacciate, cosicché la società potè distribuire in anticipo i dividendi del 1941 senza pagare alcuna imposta.

I costi che la FIAT, ma soprattutto la città di Torino ed i suoi lavoratori, si trovarono di lì a poco a pagare furono di natura ben diversa: il 18 novembre 1942 cominciarono infatti furiosi bombardamenti anglo-americani sulla città. Gli impianti della FIAT risultarono gravemente danneggiati. Anche per la società torinese si approssimava la fine di un’epoca. Il 23 febbraio 1943 Giovanni Agnelli si dimise dalla carica di amministratore delegato (condivisa sino a quel momento con Valletta) e propose al Consiglio di Amministrazione di accogliere il nipote Gianni "nella famiglia della FIAT". Il 5 marzo iniziò una serie di scioperi, che a partire dall’11 marzo si estese a macchia d’olio a tutti gli stabilimenti. Nei volantini predisposti dal "Comitato operaio" guidato dal Partito comunista, si chiedevano miglioramenti salariali, ma anche "la pace e la libertà". Era il primo atto di ribellione di massa al regime fascista dopo quasi vent’anni di dittatura. Altri scioperi si ebbero dopo l’8 settembre, quando - con il tradimento e la fuga vergognosa del re e dello stato maggiore - la città e la FIAT erano cadute in mano ai Tedeschi. In particolare gli scioperi del marzo e del novembre 1944 scatenarono dure rappresaglie (migliaia di operai furono arruolati di forza o arrestati e deportati). Infine, nell’aprile 1945 gli operai assunsero il controllo della FIAT; in particolare, 800 di essi impedirono in armi la distruzione delle fabbriche da parte dell’esercito nazista in fuga. Il 28 dello stesso mese la radio annunciava l’apertura di un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta.

6. La ricostruzione, la guerra fredda e la sconfitta della FIOM

"La FIAT potrebbe riuscire benissimo in qualunque regime economico, liberista o vincolista moderato, perché in Italia l’industria meccanica in generale e quella automobilistica in particolare, se pure hanno deficienza di materie, possono contare su un mercato basso della manodopera più che altrove e per decenni"

(Vittorio Valletta, testimonianza resa alla Commissione economica del ministero per la Costituente, 6 aprile 1946)

Ai primi di maggio del 1945 si insediarono alla FIAT quattro commissari nominati dal CLN. [4] Furono essi a gestire la FIAT per qualche mese, affiancati da un Comitato di gestione espresso dagli operai. Nel frattempo, le autorità alleate premevano per una chiusura positiva della procedura di epurazione. Che puntualmente avvenne. Alla FIAT venne richiamato Valletta (Giovanni Agnelli era morto nel dicembre 1945), il quale riprese nelle sue mani tutte le leve del potere aziendale. L’8 luglio del 1946 Valletta assunse anche la presidenza della società, e si recò anch’egli, come De Gasperi, in missione negli Stati Uniti. Il risultato di queste missioni è noto: l’esclusione delle sinistre dal governo (31 maggio 1947) e lo scongelamento degli aiuti finanziari USA all’Italia. Del maggio 1947 è anche la scissione del PSI, ad opera dei socialdemocratici di Saragat, che Valletta salutò con grande favore (e aiutò con generose donazioni).

La stretta monetaria del 1947 bloccò l’inflazione ma causò una forte recessione che colpì in particolare l’industria. Fu così creato un Fondo per l’industria meccanica, i cui stanziamenti andarono in gran parte alla FIAT. Ma soprattutto il 1948 fu un anno d’oro per la FIAT. Per due motivi (connessi tra loro): il lancio del Piano Marshall e la vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile 1948. [5]

Quanto ai finanziamenti del Piano Marshall, la FIAT ricevette da sola il 26,4% dei fondi devoluti al settore meccanico e siderurgico: complessivamente, ad essa andò più del 12% della totalità degli aiuti concessi all’industria italiana; ma, più in generale, il Piano creava le premesse per una ripresa economiica che avrebbe rilanciato la domanda di autovetture sul mercato italiano ed europeo.

Per quanto riguarda il 18 aprile, Valletta interpretò il risultato elettorale come il segnale, a lungo atteso, per ripristinare un ferreo controllo sulla forza-lavoro: "si può affermare chiaramente che il risultato delle elezioni del 18 aprile - disse in una riunione del Comitato direttivo FIAT - ha avuto un significato principale, quello che da parte di tutti c’è un desiderio di troncare con gli indugi, i rinvii, le discussioni e, attraverso ordine e disciplina, giungere a concrete, positive realizzazioni". [6] La posta in gioco non era quindi soltanto politica: si trattava di mantenere i salari quanto più possibile bassi e al tempo stesso procedere, senza più doversi confrontare con la resistenza da parte dei lavoratori (ed in particolare degli operai specializzati), alla "razionalizzazione" dei metodi produttivi sotto l’egida del fordismo, che di fatto solo nel secondo dopoguerra avrebbe definitivamente trionfato alla FIAT.

Dopo pochi mesi, Valletta mise al bando i Consigli di Gestione, dando inoltre il via a provvedimenti punitivi nei confronti di militanti comunisti e socialisti. A partire dal 1949 furono diverse migliaia i licenziamenti per "motivi disciplinari", i trasferimenti in un apposito "reparto confino", l’Officina Sussidiaria Ricambi (ribattezzata Officina Stella Rossa), come pure i casi di sospensione dei passaggi di categoria e di adibizione a mansioni più faticose e dequalificanti.  [7] Ed infine vinse Valletta: alle elezioni per le Commissioni Interne del 29 marzo 1955 la FIOM-CGIL crollò dal 63,2% al 36,7% dei voti, perdendo metà dei suoi delegati.

Sino alla prima metà degli anni Cinquanta, però, perdurò l’asfittica debolezza del mercato dell’auto in Italia. Ma a soccorrere la FIAT venne ancora una volta una guerra: la guerra di Corea. "Probabilmente, nonostante certi innegabili segni di ripresa, l’industria italiana non avrebbe marciato a un passo più spedito se non avesse tratto vantaggio dagli effetti indotti nelll’economia occidentale dall’esplosione di un conflitto nell’Estremo Oriente [...]. La guerra scoppiata in Corea nel giugno 1950 rilanciò infatti il settore degli armamenti e mise in moto un vasto giro di lavorazioni complementari. Ciò valse anche per la FIAT: l’impatto della congiuntura coreana si rivelerà anzi tanto più incisivo in quanto la produzione automobilistica, in un mercato dalle potenzialità ancora modeste, non sarebbe bastata a sorreggere la sua ascesa". [8] In concreto, la FIAT ricevette dagli Stati Uniti commesse per la fabbricazione di ben 220 aerei da caccia "F86 K", e poi vinse una commessa NATO per la costruzione del caccia "G 91".

7. La motorizzazione di massa e il "miracolo economico"

"Dicono che in Italia non c’è programmazione, non è vero: c’è, ma la fa il professor Valletta"

(Eugenio Scalfari, 1961)

 

Nel 1955 la FIAT produsse la sua prima utilitaria di successo: la "600". Nello stesso anno il Parlamento inoltre varò un piano decennale per la costruzione di autostrade, che avrebbe dato nuovo impulso alla domanda (Valletta partecipò, assieme ai massimi dirigenti dell’IRI, addirittura alle decisioni sui tracciati delle autostrade!). Nel corso del 1955 la produzione giunse a 232.000 vetture e i profitti raddoppiarono. Iniziava la motorizzazione di massa in Italia (il cui simbolo sarebbe stata la "500", prodotta nel 1957), e la FIAT ne coglieva i frutti, sia a motivo dell’aumento dei ritmi di produzione, che dei forti dazi (pari al 45% del valore) a cui erano assoggettate le vetture straniere: cosicché nel 1956 furono soltanto 3.500 le automobili straniere su 220.000 nuove immatricolazioni (una quota addirittura inferiore a quella degli anni Venti). [9] Si spiega così la battaglia condotta da Valletta per impedire l’abbattimento delle tariffe doganali nel Trattato istitutivo della CEE.

Nel 1957 il capitale della FIAT ammontava a 100 miliardi, il suo fatturato complessivo a 350. Di fatto, il fatturato della FIAT rappresentava il 2,5% dell’intero reddito nazionale (nel 1961 avrebbe raggiunto il 3%) ed il 35% del prodotto dell’industria meccanica. Si può dire che la FIAT incarnasse il rilancio dell’accumulazione postbellico. [10] Negli ultimi anni Cinquanta la crescita del PIL si attestò su un +5% annuo. E la FIAT, sfruttando l’aumento della domanda anche grazie all’ormai piena realizzazione della produzione di massa (catena di montaggio, meccanizzazione e parcellizzazione delle mansioni), superò nel 1960 il mezzo milione di vetture, pari a poco meno del 5% del mercato automobilistico mondiale. Quell’anno i dipendenti FIAT crebbero di 15.000 unità, passando da 92.000 a 107.000 in un solo anno. Masse di lavoratori emigravano dal sud convergendo verso Torino, dove si concentravano gli stabilimenti del gruppo e le fabbriche dell’indotto (il picco fu raggiunto nel 1961, con 84.000 immigrati).

Lo sviluppo della FIAT sembrava inarrestabile. In quegli anni non solo impiantò stabilimenti automobilistici in Jugoslavia, Argentina, Spagna, ma mise a segno un risultato clamoroso, concludendo un accordo (firmato nel 1966) per costruire uno stabilimento in URSS, a Togliattigrad.


[1] V. Castronovo, cit., p. 495, e P. Grifone, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista [1936], Napoli, La Città del Sole, 2002, p. 54.

Quest’ultima era infatti proprietaria in via pressoché esclusiva dell’IFI. Puramente simboliche erano le quote detenute da alcune società controllate dalla stessa FIAT e dalle famiglie Borletti e Pirelli. Di fatto, tramite l’IFI, la famiglia Agnelli deteneva ormai il 70% delle azioni della FIAT. Nel 1927 tale quota era "appena" del 30%.

[2] Quest’ultima era infatti proprietaria in via pressoché esclusiva dell’IFI. Puramente simboliche erano le quote detenute da alcune società controllate dalla stessa FIAT e dalle famiglie Borletti e Pirelli. Di fatto, tramite l’IFI, la famiglia Agnelli deteneva ormai il 70% delle azioni della FIAT. Nel 1927 tale quota era "appena" del 30%.

[3] Documento interno della FIAT, cit. in Castronovo, p. 583.

[4] Tre di essi (tra i quali Aurelio Peccei) erano dirigenti FIAT, il quarto, il comunista Battista Santhià, aveva vissuto l’occupazione delle fabbriche del 1920 ed era stato successivamente incarcerato dai fascisti.

[5] Nei primi mesi del 1948 furono effettuati consistenti anticipi sui contributi previsti dall’European Recovery Program (meglio noto come Piano Marshall), con l’esplicita finalità di influenzare le elezioni del 1948.

[6] Cit. in Castronovo, p. 791 (corsivi miei).

[7] Soltanto dal 1954 al 1958 furono quasi 2.000 gli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra licenziati dalla FIAT: v. G. Carocci, "Inchiesta alla FIAT. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso FIAT, in "Nuovi Argomenti", 1958, pp. 3-31. Va inoltre aggiunto che le nuove assunzioni venivano effettuate attraverso vere e proprie schedature che consentivano di evitare operai con idee di sinistra. Le schedature della FIAT (oltre 350.000 schede) furono rinvenute, suscitando grande scandalo, nel 1970.

[8] Castronovo, p. 841. Sul tema del rapporto tra guerra ed economia mi permetto di rinviare al mio articolo "Perché la guerra fa bene all’economia", ospitato sul n. 3/2001 di Proteo.

[9] La FIAT esportava invece 80.000 automobili (negli anni Venti erano meno di un terzo). Sia perché negli altri principali Paesi europei i dazi erano molto più bassi che in Italia (30% in Francia, 17% in Germania), sia perché la FIAT praticava prezzi di dumping nelle vendite all’estero (potendo facilmente recuperare i costi sui prezzi interni, vista la rendita monopolistica che le era garantita dal controllo di più del 90% del mercato).

[10] A questo proposito è interessante riproporre alcuni dati. Fatto 100 l’indice di riferimento del 1948, la progressione degli indicatori più significativi al 1956 era la seguente: dipendenti 121; salari reali 196,5; produzione di autoveicoli 575; valore della produzione di autoveicoli 391; fatturato per unità 363; utile 1.465. Si tratta di cifre significative, per chi nei nostri anni di crisi voglia avere un quadro di cosa significhi una situazione di espansione economica (e al tempo stesso di come - anche in tale situazione - la crescita dei salari sia del tutto sproporzionata a quella dei profitti...).