Rubrica
Eurobang

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Vladimiro Giacché
Articoli pubblicati
per Proteo (16)

Studioso di economia e politica economica

Argomenti correlati

Capitalismo

Capitalismo italiano

Nella stessa rubrica

Cent’anni di improntitudine.Ascesa e caduta della FIAT
Vladimiro Giacché

Automobili, crisi e scontro alla FIAT
Joseph Halevi

 

Tutti gli articoli della rubrica "Eurobang"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Cent’anni di improntitudine.Ascesa e caduta della FIAT

Vladimiro Giacché

Formato per la stampa
Stampa

11. Gli anni Novanta: un triste declino

Gli anni Novanta segnano una netta inversione di tendenza rispetto al decennio precedente: la FIAT perde vistosamente posizioni sia sul mercato domestico che su quello europeo, mentre concorrenti come Ford, Renault, Peugeot e Volkswagen migliorano le loro. Nessuna meraviglia, se si pensa al fatto che dal 1988 al 1993 la FIAT non aveva prodotto alcun nuovo modello. A peggiorare la situazione, si aggiunse nel 1993 lo smantellamento delle ultime barriere alla circolazione di merci nella Comunità Europea. Era giunto il momento che Valletta aveva tanto temuto: quello di doversi confrontare con la concorrenza senza più scudi protezionistici, di natura tariffaria o di altro genere. I risultati non si fecero attendere: quota sul mercato europeo ridotta al 12%, e perdite per oltre 1.800 miliardi.

Cosicché si corse ai ripari, ma tenendo fede alle migliori tradizioni della casa: attuando innanzitutto una gigantesca ricapitalizzazione della FIAT (4.285 miliardi) sotto la regia di Mediobanca, che fece entrare nell’azionariato FIAT nuovi azionisti quali la stessa Mediobanca, Deutsche Bank, le Generali e Alcatel. Questi azionisti composero, assieme alle finanziarie di famiglia IFI e IFIL, un sindacato di blocco che avrebbe mantenuto il controllo della FIAT nelle solite mani. Ossia, in ultima analisi, in quelle degli Agnelli: infatti una clausola del patto diceva a chiare note che nessuna decisione avrebbe potuto essere presa senza il loro consenso. D’altro lato, Mediobanca avrebbe sin d’ora esercitato un forte potere di condizionamento, e questo rafforzò in particolare Romiti, che godeva per l’appunto della fiducia di Cuccia e di Mediobanca.

Romiti affrontò la situazione in perfetta continuità con il recente passato: proseguendo la "diversificazione", ossia la finanziarizzazione del gruppo; chiedendo lo "stato di crisi" e licenziando (questa volta, però, anche molti impiegati e capi); [1] assumendo giovani in contratto di formazione-lavoro, per pagarli di meno; aprendo nuovi stabilimenti nel sud (Melfi e Pratola Serra) per giovarsi dei previsti contributi pubblici e operare - come afferma delicatamente Castronovo - "in un ambiente socio-economico non ancora sfiorato dall’industrialismo e dai suoi risvolti conflittuali [sic!]". [2]

Si è molto cianciato dei formidabili risultati produttivi e di mercato dei nuovi stabilimenti, della "qualità totale", del nuovo "modello partecipativo" introdotto dalla FIAT. La verità è ben diversa: se in qualche momento degli anni Novanta si è registrata una ripresa della FIAT, ciò è stato dovuto essenzialmente alla svalutazione del 30% della lira avvenuta nel 1992. E non appena i suoi effetti sono svaniti, le vendite della FIAT hanno ripreso a crollare. Tant’è vero che a soccorso della FIAT è dovuta arrivata nel 1996 la "rottamazione" decisa da Prodi e Bersani.  [3]

Peraltro, proprio mentre il governo varava gli ennesimi incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la FIAT spostava produzioni all’estero, con il risultato che nel 2001 il 66% del fatturato era realizzato all’estero (nel 1990 era il 44%); più del 50% della forza-lavoro operava fuori d’Italia (nel 1990 era il 22%); e all’estero era fabbricato il 47% delle macchine prodotte (nel 1990 era il 17%). [4] Purtroppo per i conti di FIAT Auto, questo ingente sforzo delocalizzativo non ha dato i risultati sperati, a causa delle crisi che hanno sommerso i "mercati emergenti" nel 1997-98.

Nel 1998 Paolo Fresco subentra come presidente della FIAT a Romiti (che a sua volta era subentrato nel 1996 a Gianni Agnelli, divenuto presidente onorario), e, vista la situazione, nel 2000 negozia con la General Motors un accordo che prevede la cessione del 20% di FIAT Auto, e l’opzione a comprare il restante 80% nel 2004. [5]

12. La situazione odierna: le cifre del disastro

Negli anni successivi la situazione continua a peggiorare. Se il 2001 si era chiuso malissimo, con un reddito operativo che non era sufficiente neppure a pagare gli oneri finanziari, nel 2002 la situazione tracolla. A fine maggio, l’esposizione complessiva di FIAT raggiunge i 35,5 miliardi di euro. In prima fila tra i creditori, ovviamente, ci sono le banche italiane, esposte per un valore di 8,4 miliardi di euro. [6] Per di più, buona parte del debito è a breve.

Scatta quindi l’operazione di salvataggio-ristrutturazione del debito FIAT da parte delle banche (Sanpaolo, Intesa, Bancaroma, Unicredito), che allungano a 3 anni la scadenza di 3 miliardi di euro di debiti a breve. In cambio del riscadenzamento, FIAT accetta un piano di dimezzamento dei debiti, e intanto dà il benservito all’amministratore delegato Cantarella (che va a casa con appena 40 miliardi di lire di liquidazione). [7] Se il piano non sarà realizzato nei tempi previsti, le banche potranno trasformare i loro crediti in azioni della società.

Siamo a luglio e la FIAT presenta il suo nuovo Piano Industriale, che prevede pesanti misure (in primo luogo, non lo credereste, tagli di personale per 3.800 unità). La FIOM e i sindacati di base (CUB, FLMU e SLAI-COBAS dell’Alfa) sono i soli sindacati a contestare il piano, giudicandolo totalmente inadeguato. E in effetti col passare dei mesi la situazione peggiora con rapidità impressionante. Il 9 ottobre la FIAT chiede al governo lo "stato di crisi". Il "piano di ristrutturazione" presentato dall’azienda, con 8.100 tra operai ed impiegati in cassa integrazione dal 2 dicembre (la metà dei quali - nelle intenzioni della FIAT - non tornerà in fabbrica), assomiglia molto da vicino ad un vero e proprio smantellamento della FIAT Auto. Ormai è chiaro che entro la fine dell’anno la FIAT perderà 2 miliardi di euro.

Anche dal punto di vista delle quote di mercato, siamo al punto più basso di un declino ormai più che decennale. In Italia, la percentuale delle auto vendute da FIAT era del 60,42% nel 1986. Nel novembre 2002 è stata del 28,1%. In Europa (Unione Europea, Italia inclusa, più Svizzera) la quota FIAT era del 13,85% nel 1990, al secondo posto dopo la Volkswagen. Nel novembre 2002 è stata del 7,7%, e la FIAT è ora all’ottavo posto, dopo Volkswagen, Peugeot, Fords, GM, Renault e i produttori giapponesi.  [8] Le cose non vanno bene neppure fuori d’Europa. Così, per il 2000 il piano industriale FIAT prevedeva la produzione di 1.000.000 di vetture (i modelli Palio e Siena) in zone extra UE, di cui 400.000 in Brasile, 100.000 in Argentina, 50.000 in Polonia. I risultati del 2001 ammontavano invece a 400.000 vetture in totale e, per i Paesi citati, rispettivamente a 270.000, 31.000 e 6.000 unità. Addirittura desolanti, poi, i risultati ottenuti in due grandi mercati quali l’India (previste 100.000 unità, realizzate meno di 9.000), e la Cina (previste 100.000, realizzate... 0). [9]

In questa situazione, le principali agenzie di rating internazionali dichiarano possibile il declassamento del debito FIAT al livello dei titoli "spazzatura" (junk), cosa che avviene il 23 dicembre.  [10] Nel frattempo, le lotte dei lavoratori impongono la vicenda FIAT come un caso di assoluta rilevanza. Ai piani alti delle stanze del potere, dopo un tentativo fallito di Mediobanca e Berlusconi di appropriarsi della FIAT (e del "Corriere della Sera"), prendono a circolare voci di una proposta di Colaninno per acquisire una partecipazione di controllo in FIAT, avviandone la ricapitalizzazione. [11] Al momento in cui scriviamo, non è dato conoscere i dettagli dell’operazione (e soprattutto del relativo piano industriale per il rilancio dell’azienda). Una cosa, però, è certa: i capitali necessari per un risanamento dell’azienda sono ingenti, e decisamente non appare praticabile il meccanismo della scalata di Colaninno su Telecom (comprare un società a debito, facendolo poi pagare a questa stessa società).

 

13. Chi è il colpevole?

Ora, è evidente che all’esplosione della crisi FIAT hanno contribuito tanto una crisi congiunturale, quanto gli specifici problemi del settore auto. In effetti, una (grave) crisi congiunturale investe tanto l’Europa, quanto il Giappone e gli Stati Uniti, nonché molti Paesi in via di sviluppo (e nell’unico grande Paese che registra tassi di crescita considerevoli, la Cina, la FIAT come abbiamo visto non è presente). Questa crisi ha ovvi e pesanti riflessi sul mercato dell’auto. Ma, al di là della congiuntura, il settore dell’auto è investito da una vera e propria crisi strutturale da sovrapproduzione. Nel maggio 2002 su un articolo del Wall Street Journal si poteva leggere che "i costruttori possono produrre 22 milioni di automobili di troppo ogni anno, 22 milioni in più di quelle che i consumatori compreranno." Di qui il forte processo di concentrazione del settore che non ha conosciuto soste dal 1970 (anno di inizio della fase di crisi che tuttora perdura): nel mondo i produttori di auto indipendenti erano 40 nel 1970. Sono scesi a 14 nel 2001. Saranno 7 nel 2010. [12]

Detto questo, va anche rilevato che alcuni produttori (Peugeot, BMW, Honda Daimler-Chrysler...), stanno espandendo la loro capacità produttiva. Insomma, anche in una fase come l’attuale c’è chi vince e c’è chi perde. Ci sono episodi che raffigurano emblematicamente questa diversità di destini. Ad esempio, negli stessi giorni di fine maggio in cui le banche si accordavano con la FIAT per trasformare i debiti a breve in debiti a medio-lungo termine, la Peugeot lanciava i turni lavorativi nel week-end per poter soddisfare la domanda della "307". Non solo: il 28 ottobre la stessa casa automobilistica ha pubblicamente annunciato la costruzione di una nuova fabbrica in Europa per poter raggiungere, entro il 2006, l’obiettivo di 4 milioni di veicoli prodotti. [13]

Proviamo, quindi, a passare in rassegna alcune cause più specifiche della crisi della FIAT.

1) Struttura proprietaria anacronistica (capitalismo familiare). A questo proposito è stato notato che è un nonsenso pensare ad un’"impresa transnazionale di tipo famigliare": infatti una struttura proprietaria di questo tipo non è in grado di dotare l’impresa di capitali sufficienti per il mantenimento di posizioni competitive accettabili. [14] Tanto più che la famiglia Agnelli è nota per l’ampiezza della sua rete parentale (120 sono i membri della famiglia, a ciascuno dei quali spetta la sua brava quota di dividendi...). Tutto vero. Va però notato che questa spiegazione, da sola, non è sufficiente a spiegare la crisi FIAT: anche perché non va dimenticato che una delle principali società automobilistiche tedesche, la BMW, è per il 49% di proprietà familiare (della famiglia tedesca Quandt), e nonostante questo va benissimo.

2) Una politica errata di fusioni e acquisizioni. L’unica acquisizione di rilievo fatta da FIAT Auto negli ultimi vent’anni è quella dell’Alfa Romeo. In compenso, FIAT ha perso Seat (venduta nel 1981), e non è riuscita nell’intento di acquisire né Volvo, né Daewoo. Nello stesso periodo di tempo, Volkswagen ha acquisito marchi come Seat, Skoda, Audi. Risultato: la produzione del gruppo Volkswagen è oggi di 5 milioni di unità all’anno. Quella FIAT è inferiore ai 2 milioni e mezzo. La soglia minima per essere competitivi è stimata in circa 4 milioni di unità prodotte all’anno.

3) Modello di globalizzazione "povera". [15] La FIAT ha sottratto risorse al mercato europeo per lanciarsi in avventure rivelatesi fallimentari nei Paesi in via di sviluppo, sperando di poter lanciare un’"utilitaria globale" (world car), operazione riuscita solo in parte (in definitiva solo in Brasile, dove FIAT ha superato le quote di mercato di Volkswagen). In verità, come dimostrano i dati riportati più sopra, il problema vero è che FIAT non è riuscita a penetrare nei mercati più promettenti (India e Cina): da questo punto di vista, non si è globalizzata troppo, ma troppo poco. E del resto l’espansione in aree diverse dall’Europa non implicherebbe affatto, di per sé, un crollo delle quote di mercato come quello patito da FIAT nel suo originario mercato di riferimento.

4) Esternalizzazione selvaggia di funzioni produttive. L’"outsourcing" (parola chiave di tutti i consulenti aziendali degli anni Ottanta e Novanta, assieme al "downsizing" - ossia al licenziamento di lavoratori) è stato in effetti praticato da FIAT in misura tale che intere porzioni di produzione, anche strategiche (ad esempio la progettazione di nuovi modelli), sono state collocate al di fuori dell’azienda. Verissimo. Peccato che sino a poco tempo fa questo genere di "esternalizzazione" fosse magnificato da tutti, ma proprio tutti, gli "esperti" di politica aziendale...

5) Investimenti insufficienti in ricerca e sviluppo tecnologico. Che la FIAT investa poco in sviluppo tecnologico (come del resto la media delle imprese italiane) è noto. La misura di questo deficit di investimento, però, è decisamente sorprendente. I dati li ha citati il governatore della Banca d’Italia Fazio l’11 ottobre scorso: la FIAT nel decennio compreso tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha destinato agli investimenti in ricerca 4 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la Volkswagen (che all’epoca aveva le stesse dimensioni di FIAT) ne ha spesi 20, BMW (all’epoca più piccola di FIAT) ha speso 8 miliardi. [16]

6) Operazioni finanziarie azzardate. Gli esempi non mancano. Ad esempio, FIAT negli anni scorsi ha ritirato dal mercato le quote di minoranza di Toro, Magneti Marelli e Comau, pagandole un’enormità. Inoltre ha fatto acquistare, dalla controllata americana New Holland (tra i leader mondiali nei trattori e nelle macchine di movimento terra), la società concorrente Case per 4,3 miliardi di dollari (per la cronaca, attualmente la partecipazione del gruppo FIAT nella Case New Holland è valutata meno di 1,1 miliardo di dollari).

Tutto vero. Detto questo, in genere i soldi i capitalisti non li spendono per caso. Per mettere qualche punto fermo, proviamo a partire proprio da qui.


[1] A costoro Romiti tenne ad esprimere tutto il proprio rammarico per aver falcidiato "coloro che più hanno dimostrato attaccamento all’azienda e che noi abbiamo sempre considerato come un patrimonio fondamentale". Insomma: dopo tante benemerenze (vedi marcia dei "40.000"), il danno e le beffe!

[2] Castronovo, p. 1665. Cosicché a Melfi fu possibile introdurre da subito un istituto tremendamente avanzato quale il sabato lavorativo... Per quanto riguarda i contributi pubblici basta ricordare che le agevolazioni di cui la FIAT beneficiò ammontarono a 1.350 miliardi di lire. Più di quanto la FIAT aveva ricevuto nell’intero decennio precedente.

[3] Che però ha avuto unicamente l’effetto, come ha ammesso di recente lo stesso amministratore delegato di Fiat Auto Boschetti, di aiutare la concorrenza (consentendo la sostituzione di vecchie FIAT con nuove Volkswagen).

[4] Dati FIAT, 20/2/2002.

[5] Di recente si è saputo che fu proprio la FIAT ad insistere per inserire nel contratto con la GM l’opzione a cedere l’80%: v. A. Plateroti, "Wagoner: ’GM non voleva il put sull’80%’", Il Sole-24 ore, 3/12/2002.

[6] Ma anche 33 banche estere vantano crediti per complessivi 5,8 miliardi di euro. La più esposta è una banca pubblica brasiliana: il BNDES (Banco Nacional de Desenvolvimento Economico e Social). V. il Sole 24 Ore, 5/6/2002.

[7] Una vera miseria in confronto ai 185 miliardi intascati a suo tempo da Cesare Romiti...

[8] Dati: il Sole 24 Ore, 16/11 e 27/12/2002.

[9] Vedi A. Enrietti, "La crisi del sistema Fiat. La struttura aziendale e i suoi punti deboli", in gli argomenti umani, anno 3, n. 9, settembre 2002, pp. 52-66, e partic. p. 55.

[10] Nonostante la vendita delle partecipazioni in GM, Burgo, Fidis per fare cassa.

[11] Il primo giornale a darne notizia è stato il Riformista, vicino a Massimo D’Alema.

[12] Cifre contenute in un rapporto della società Roland Berger al ministro Marzano e rese note da L’espresso (31/10/2002).

[13] Vedi le Monde, 29/10/2002.

[14] M. Revelli, "Fiat, vivere fra i tagli", la Rinascita, 1 novembre 2002. Per inciso, può essere utile ricordare che per la FIAT la famiglia Agnelli non mette mano al portafoglio dal lontano 1985 (v. O. De Paolini, "L’Apocalisse schivata", Borsa & Finanza, 14712/2002).

[15] M. Revelli, cit.

[16] il Sole 24 Ore, 12/10/2002.