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Per la critica del capitalismo

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Armando Fernández Steinko
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Professore titolare di Sociologia, Università Complutense, Madrid

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Firenze ‘02: Altre Europe sono possibili. Costruire l’opposizione alla barbarie del capitale

Armando Fernández Steinko

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In terzo luogo, vi è il carattere tanto chiaramente globale della protesta, che possiede anch’esso molto di nuovo; è vero che anche il ’68 è stato una catena di avvenimenti che hanno percorso il mondo in tutte le direzioni, da Praga a Parigi, da Città del Messico alla California, dal Nord Italia al margine sinistro del Nervión ed i quartieri periferici di Madrid e Barcellona, ma il movimento contro la globalizzazione neoliberale nasce in un altro momento storico, sulla base di altre forze produttive, con un altro livello di sviluppo dei valori d’uso, di distruzione delle risorse non rinnovabili, ecc... Senza le tecnologie dell’informazione e senza internet non sarebbe stato possibile che persone tanto diverse e variopinte confluissero a Firenze. Tuttavia, ancora più importante di tutto questo è il fatto seguente: senza la riorganizzazione produttiva delle imprese capitaliste che hanno trasformato il mondo in una rete complessissima di imprese “subcontrattate” e “subsubcontrattate” unite tra di esse da autostrade, Oceani e da combustibile a basso prezzo, una rete il cui cuspide si trova nei centri del potere economico e finanziario, ma che danno origine ad una crescente concentrazione dei risultati del lavoro di milioni di persone in tutto il mondo (tra cui molti bambini) in alcuni gruppi sociali che vivono nei quartieri residenziali dei Paesi del primo mondo. Senza tutto questo, non ci sarebbe modo di proporre in maniera così visibile il carattere planetario dei meccanismi di sfruttamento capitalista. Solo la combinazione tra tecnologie dell’informazione e globalizzazione finanziaria, che dà un’ubiquità quasi da infarto ai processi economici e che vincola i processi più locali, più quotidiani che riguardano genti di tutto il mondo alle decisioni di un Greenspan o al cambiamento del prezzo del petrolio, spiega quel nuovo cosmopolitismo affatto ricercato, affatto costruito, ma sentito, intimo e naturale che è sbocciato nella città-fiore di Firenze.

Infine, c’è un’altra novità che non è esistita in forma analoga nè nel 1917, nè nel 1944 nè intorno al 1970, ma che è invece entrata con forza questa volta: il rapporto tra le questioni di classe, che a loro volta creano una determinata cultura politica molto vincolata ad organizzazioni di classe, e ciò che si potrebbe definire le “questioni universali”, come l’ecologia, i modi di vita e di consumo, la pace, il rapporto Nord-Sud o la democrazia. Questa affinità, ancora non esplorata sufficientemente dai sindacati (inibizione che comincia a diventare una vero e proprio atto di irresponsabilità) è emersa in maniera significativamente naturale a Firenze. Sia grazie all’apporto dei “vecchi” partiti e sindacati di sinistra che continuano a considerare seriamente - a torto o a ragione - il mondo del lavoro, sia attraverso tutte le migliaia di iniziative per la creazione di economie sociali e solidali, movimenti di cooperazione, imprese di commercio equo e solidale, iniziative per il controllo della attività di multinazionali, ecc, che iniziavano le conferenze dicendo che “altre imprese sono possibli”. L’analisi di classe non è stata affievolita a causa del punto di vista universalista nè i punti di vista che hanno al centro della propria prospettiva l’umanità intera non si sono negati ad introdurre questioni di classe nell’analisi e nella pratica, ma entrambi si sono ampliati e completati mutuamente. E questo è nuovo, o almeno è nuovo il fatto che questo scambio sia stato maggioritario e spontaneo. È vero che le richieste di soluzione dei problemi universali che riguardano tutti i gruppi e le classi sociali non sono nulla di nuovo; la militanza contro la guerra negli anni del Primo Ciclo di protesta nasce nel movimento operaio, ma si diffonde in tutta la società mano a mano che si accumulano le vittime e la distruzione, mano a mano che tutti, e non soltanto gli operai, escono perdenti dalla guerra. Non è nemmeno nuova l’esistenza di gruppi creatisi intorno a problemi globali che affettano tutte le classi sociali e che, pertanto, non vanno molto d’accordo con i sindacati ed i partiti di classe. Questo proliferare di gruppi legati a problemi di genere, mediambiente, rapporti Nord-Sud, ecc... si è verificato anche nel ’68. Ma un’altra delle novità promettenti di Firenze è che la maggioranza ha scelto una complementarità tra analisi di classe e analisi “universalista”, mettendo fine a degli schieramenti opposti che sono diventati sempre più assurdi mano a mano che il capitalismo mostra il suo lato più puro e con l’aumento della sua capacità distruttiva.

Tutto questo, inoltre, fissa un termine nella storia recente dei movimenti sociali. Durante il Terzo Ciclo di Protesta le questioni universali erano relativamente contrapposte alle questioni sociali, di classe. Con alcune eccezioni, il movimento operaio organizzato non ha saputo o non ha voluto capire intorno al 1970 tutto quello che, almeno potenzialmente, lo univa a ciò che allora si cominciava a chiamare “i nuovi movimenti sociali”. Bisogna comunque dire che esisteva un motivo specifico per questo blocco: il benessere sociale, anche quello che cominciava a conquistare la classe operaia, era costruito su forme di consumo e di produzione predatorie, perfino su una aggressività militare che era quella che permetteva di assicurare posti di lavoro grazie alla conquista di mercati neocoloniali e alla riduzione dei costi delle materie prime. Questo spiega la complicità cinica anche di una parte dell’ala socialdemocratica del movimento operaio con le politiche aggressive dei rispettivi governi, complicità che incarna perfettamente il percorso del “nostro amato” Javier Solana. Oggi, però, il disastro ambientale non si verifica più unito al progresso sociale come negli anni Settanta, la distruzione della biosfera non porta più nella stessa maniera alla democrazia economica in casa; i nuovi contestatori non sono figli di papà con un futuro lavorativo relativamente assicurato, ma giovani con poche prospettive, con molte più conoscenze di quelle che possono applicare sul lavoro e nella vita quotidiana. Sono giovani che non devono andare in guerra come nel 1914, ma la cui precarietà sociale e lavorativa assomiglia molto all’incertezza che vivono le masse del Sud che vivono inoltre un deterioramento simultaneo sia delle proprie condizioni di lavoro, che del proprio intorno ambientale, sia delle condizioni consumo che delle condizioni di vita in generale.

Tuttavia, penso che per continuare a parlare di Firenze 2002, la cosa migliore sia commentare un volantino preso a caso tra tutti i migliaia che sono stati distribuiti da uno di quei gruppi e iniziative che pullulavano nella Fortezza da Basso e nelle sue vicinanze. Il volantino incomincia così: “Il CONSUMO gioca una parte fondamentale nel mondo attuale. Mentre facciamo la spesa possediamo tutti un potente strumento a nostra disposizione per scegliere che tipo di mondo desideriamo. OGNI ACQUISTO è UNA SCELTA Politica ed abbiamo tutti la possibilità di incidere attivamente sulla realtà che ci circonda” (evidenziato nell’originale). E continua “Il Gruppo di Consumo Critico del Firenze Social Forum è un GRUPPO DI AFFINITA’ (maiuscolo nell’originale). Questo significa che non siamo semplicemente un gruppo politico: ci sentiamo uniti precisamente da un forte sentimento condiviso, che non nega le nostre differenze. Anche se il nostro comportamento verso noi stessi, il territorio e la società possiede un forte contenuto politico, non parliamo mai dell’ideologia: pensiamo che la nostra azione sia trasversale rispetto alla politica e che tematiche universali (evidenziato nell’originale) come il trattamento dei rifiuti, la valorizzazione delle risorse, la qualità dell’aria e dell’acqua, la difesa ambientale e le condizioni di vita e di lavoro siano importanti per tutti”. Penso che questo volantino contiene alcuni elementi nuovi, nuovi almeno per la loro presenza generalizzata nel Forum. Se riusciamo a decifrarli, avremo potuto definire l’originalità di Firenze.

Primo: l’autodeterminato “Gruppo di Consumo Critico” non è un’organizzazione definita solamente in funzione di profonde convinzioni comuni che la caratterizzano verso l’esterno (“forte sentimento condiviso”), che delimitano il suo territorio rispetto al resto della società generando coesione interna di fronte a terzi, ma che, inoltre, riconsce e convive con proprie differenze interne (“che non nega le nostre differenze”). La forte affinità verso l’interno, coesiste, apparentemente senza problemi, con il riconoscimento della diversità interna e del diritto a dissentire.

Secondo: il gruppo non nega il proprio sentimento politico (“il nostro comportamento verso noi stessi (...) ha un forte contenuto politico”). Tuttavia, il senso che qui si vuole dare al termine “politico” sembra essere al di sopra di ciò che si intende tradizionalmente per “politica” (“pensiamo che la nostra azione sia trasversale rispetto alla politica” e “ogni acquisto è una scelta politica”), ossia supera la sua definizione formale, estende l’esperienza di ciò che è politico a molti dei piccoli atti individuali e quitidiani. Il gruppo rifiuta così la nozione di politica intesa come somma di spazi specializzati e separati a livello organizzativo dalla quotidianità, le persone in quanto esseri politici, ma non la politicizzazione in sè. L’idea che “un’altro modo di consumo è possibile” è proprio un nesso ideale che permette di collegare i piccoli comportamenti nella vita quotidiana, con i grandi avvenimenti che provocano tanto dolore al mondo, nesso che nello stesso tempo diventa une leva efficace per trasfomarlo (“abbiamo tutti la possibilità di incidere attivamente nella realtà che ci circonda”). La “politicizzazione” della vita quotidiana, intesa come una serie di comportamenti individuali e soggettivamente implicati (“gruppo di affinità”), ma persistenti, ossia, con una coerenza, una particolare carica morale e supportata da una determinata analisi della situazione globale del mondo, non diminuisce, ma al contrario, trascende l’idea di ciò che è politico, la rende meno formale e cinica, la socializza, la diluisce nell’intera pratica sociale. Da quel che mi risulta, negli ultimi anni solamente il “nazionalismo militante” e una parte delle ONG hanno saputo elevare il politico fino ad una pratica quotidiana, trasversale e persistente in un modo simile. La differenza tra quello e ciò che abbiamo visto a Firenze è che quest’ultimo è essenzialmente universalista, multiculturale, e includente mentre il nazionalismo militante è essenzialmente escludente. Stiamo assistendo al ritorno di ciò che ho chiamato la “cultura politica del massimalismo democratico” [1].

Terzo: Per questo gruppo i problemi universali non sono contrapposti a tutte quelle preoccupazioni classiche del movimento operaio e dei lavoratori salariati moderni (“pensiamo che (...) le tematiche universali come il trattamento dei residui (...) e le condizioni di vita e di lavoro siano importanti per tutti” e “attraverso il boicottaggio delle multinazionali che sfruttano i lavoratori”). Qui il rosso (lo sfruttamento del lavoro umano) non si inserisce in un contesto isolato dal verde, dal rapporto Nord-Sude, ecc..., ma tutto l’opposto: esiste un insieme di tematiche e problemi interconnessi che sono quelli che stanno rendendo il mondo irrespirabile, temi che conflusicono (come la prospettiva di questo gruppo di consumo critico) in un determinato modo di comprare e consumare, ma che nascono da molti altri come quello delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone nel mondo.

Questa trasversalità, questa affinità culturale, geografica e sociale che sprizza senza troppa retorica, senza troppo intellettualismo avanguardista da questo volantino, doveva apparire, prima o poi, come idea base affinchè si riprendessero i movimenti di protesta, e non solo come effetto della globalizzazione neoliberale, che poteva portare la gente a pensare in questo modo a causa dell’aumento dell’integrazione economica del mondo, dell’abbassamento del costo della comunicazione. Vederlo in questo modo sarebbe, ancora una volta, cadere nel facile determinsimo; la spiegazione è secondo me più complessa, più ideologica e più immediata allo stesso tempo. Il frazionamento del sapere, del pensare, della pratica sociale, la separazione in compartimenti degli spazi di vita nei territori ultracompetitivi e nelle città neoliberali, la creazione di ghetti come forme dell’organizzazione della quotidianità e delle mentalità, sono le cause fondamentali e quotidiane dell’inquetudine che vive il mondo, cause che, evidentemente, hanno una forte spiegazione anche economica. Solamente rompendo molti dei modi di pensare lanciati dai postmoderni, solamente curando il pensiero “mutilato” che impedisce di “vedere”, cioè capire, analizzare, dimostrare e trasmettere il carattere insostenibile della situazione attuale, e tutto ciò nonostante la realtà non smetta di darci ogni giorno prove empiriche e anche immagini di questa situazione, solamente la distruzione del filtro ideologico che separa i “consumatori” occidentali dalla realtà mondiale e locale in cui vivono, ha potuto condurre a ciò che si è verificato a Firenze [2]. Doveva trionfare la convinzione che l’individualismo neoliberale non ha nulla a che vedere, ma proprio nulla, con l’individualità solidaristica che si è vista a Firenze. Doveva diventare egemonica la sensazione che le istituzioni e le urbanizzazioni della classe media/alta sorvegliate da guardie giurate non hanno nulla a che vedere con le migliaia di tasselli di identità che possono convivere in armonia in un mondo finito formando un grande mosaico multiculturale. Ognuno doveva sentire dentro di sè che il frazionamento postmoderno e quella stupida avversione a “tutto” con cui Fernando Savater ci ha venduto il termine della emancipazione individuale, non hanno nulla a che vedere, ma proprio nulla, con la pluralità sociale e identitaria che impara ad autoregolamentarsi. La libertà individuale con cui agiscono le persone che sono confluite a Firenze non è nemmeno nulla che assomiglia alle categorie di “consumatore” e di “produttore” atomizzati che crea il pensiero neoclassico-liberale, che si spiega nelle facoltà universitarie e si diffonde senza necessità nei mezzi di comunicazione: la specializzazione dei politici professionali di uno e dell’altro schieramento che i mezzi di comunicazione spacciano per la politica con conseguenze disastrose per la partecipazione elettorale, non hanno neanche essi a che vedere con il modo di “vivere” la politica che abbiamo letto in quel volantino del gruppo di consumo critico. Definire, o meglio, intuire e “sentire” chiaramente queste differenze era assolutamente necessario affinchè si riprendesse l’opposizione a questa barbarie in cui si sta trasformando il mondo. L’egemonia di questo sentimento ha fintio per arrivare entrando ed uscendo tra il 6 ed il 9 novembre nella Fortezza da Basso di Firenze.

Abbiamo detto che i Forum Sociali sono spazi prima di tutto, ma non spazi astratti come quelli che formula la società neoliberale, ma spazi concreti, geografici, territori con avvenimenti sociali, con una struttura della convivenza, con una storia. Il valore simbolico di Porto Alegre si fonda nel fatto che è una città media qualsiasi del Paese del mondo con maggiore differenza tra poveri e ricchi. Non è una capitale importante, non è un luogo che abbia potuto raccogliere un ruolo di protagonista di rilievo nel campo della storia, sebbene adesso faccia già parte di essa.Qual è il valore simbolico di Firenze, città toscana con un’identità, una cultura, una territorialità concrete?

Firenze, e il Nord Italia in generale, sono sempre stati esempi di spazi aperti, rappresentativi di un modello di civilizzazione policentrico e multiculturale che perdura fino ad oggi. Questa forma di organizzazione contrastava, già nel Medioevo, con quella di territori come Francia, Germania o Spagna, che eraano molto più influenzati dalla uniformità religiosa e feudale, dagli onnipotenti ordini monastici e della cavalleria. Gli artisti fiorentini, pisani, senesi, bolognesi, veronesi e padovani viaggiavano da una città all’altra, si facevano spesso visita tra loro, approfittando delle corte distanze e della varietà dei singoli microclimi urbani. Lo facevano imparando e assorbendo estetiche e modi diversi che, riannodati in una nuova sensibilità, hanno dato vita nientemeno che all’Età Moderna. La novità del Rinascimento non è però il naturalismo, che già esisteva nel Medioevo, e nemmeno l’individualismo, che sorge già prima in qualche angolo dell’Europa. La novità è che questo individualismo diventa nella Toscana del Quattrocento uno strumento di lotta, un grido di guerra. La novità nell’arte toscana di quegli anni è che l’individualismo smette di essere una goccia in più in un immenso, invertebrato e illimitato oceano come ai tempi del gotico, tempi paragonabili all’Oceano del caos, maree nere e barbarie senza frontiere visibili, che è ciò che sta oggi diventando il mondo. La novità del Quattrocento è che, per la prima volta, quell’individualismo e quel naturalismo diventano parte di una strategia per contemplare il mondo comprendendo contemporaneamente tutte le sue parti, uno strumento di addomesticazione di uno spazio, di una luce e di un colore che fino ad allora sembravano non addomesticabili con o senza naturalismo/individualismo. La prospettiva unitaria, che nasce proprio a Firenze, è lo stratagemma geniale per riuscirci, per ingabbiare il caos da mondo medioevale. Questa prospettiva si raggiunge facendo sì che il sogggetto assuma un unico punto di vista situato al di fuori del quadro dal quale può abbracciare con lo sguardo tutta la realtà. Non però disfacendosi nel caos del mondo come ai tempi del gotico, non diluendo la certezza del mondo in relativismo nello stile postmoderno, ma organizzando il mondo, razionalizzandolo, sistematizzandolo per affrontarlo e migliorarlo [3]. Senza questa rivoluzione culturale che rende la razionalizzazione che comprende un grido contro il caos ed i modi di produzione precapitalisti, non sarebbero stati possibili nè il capitalismo, nè la scienza, nè le burocrazie moderne con i suoi eserciti, ma nemmeno sarebbe stata possibile la cultura politica dominante nel XX secolo, dal neoconservatorismo democratacristiano fino alla socialdemocrazia ed il socialismo che trionfa negli anni Venti in Russia e si spacca clamorosamente nel 1990.


[1] Fernández Steinko (2002).

[2] Io ho fatto il mio tentativo in un saggio ancora inedito scritto nel 1997 (“Il sogno del frammento. Fine del secolo e pensiero mutilato”). In esso ricerco le radici intellettuali di questo pensiero e cerco di dimostare la sua importanza pratica per delineare questo mondo impossibile in cui viviamo.

[3] A.Hauser: Storia sociale della letteratura e dell’arte. Ed. Labor, Barcelona 1983, tomo 1, p.341.