Rubrica
Il punto, la pratica, il progetto

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE - Istituzione del Reddito Sociale Minimo

CESTES-PROTEO: un anno vissuto intensamente


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE - Istituzione del Reddito Sociale Minimo

Formato per la stampa
Stampa

I vari modelli di analisi economica e sociale adottati a tutt’oggi da studiosi di varia formazione e collocazione politica risultano ancorati a forme di misurazione basati su parametri elaborati e desunti da una logica interpretativa di “stampo industrialista”, logica che è assunta come centrale da gran parte delle forze sindacali confederali e da forze politiche della sinistra, anche di una parte di quella radicale e alternativa.

Sindacalizzare il territorio per la ricomposizione

dell’unità dei lavoratori

L’autoimprenditorialità, la precarizzazione del lavoro, la flessibilità del salario, l’occupazione interinale, cioè il nuovo caporalato, il telelavoro, la multifunzionalità del lavoro, la fabbrica diffusa e integrata, rappresentano la vera partecipazione dei lavoratori all’incremento di produttività, alla determinazione delle nuove modalità di accumulazione del capitale derivanti da sempre maggiori quantità di lavoro sociale complessivo erogato con modalità tecnologiche e retributive diverse, spesso attraverso processi illusori di democrazia economica.

Ma dietro gli incentivi, gli straordinari, i premi di produzione, l’azionariato dei lavoratori, il lavoro autonomo di seconda generazione, il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro.

E’ allora il territorio il centro verso il quale far convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in una fabbrica sociale diffusa nel sistema territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

E’ quindi a partire dalle nuove soggettualità del conflitto sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio. Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.

E’ ormai irrinunciabile porre l’analisi scientifica su un progetto che riparta dalla ricomposizione dell’unità dei lavoratori, occupati e disoccupati, garantiti e non garantiti, proponendo un progetto e una pratica capace da subito di percorrere nuove strade di politica economica che sappiano effettuare una completa inversione di rotta nelle scelte, nelle decisioni.

La capacità di analisi scientifica e di iniziativa politica deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla società dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante degli equilibri, controllore, ma uno Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più moderno sistema della qualità della vita.

Un progetto complessivo per un’Europa del lavoro

e delle socio-compatibilità solidali

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Oggi con la disoccupazione strutturale di massa si ha una conseguente contrazione del monte salari ( che in Italia tra il 1980 e il 1995 è passato dal 48% del PIL al 41%), che accompagnata da una evasione fiscale e contributiva istituzionalizzata, determina una condizione complessiva macroeconomica in funzione della quale vengono a mancare le modalità principali di finanziamento dello Stato sociale.

E’ per questo che oggi va riproposta una battaglia europea dell’intera classe dei lavoratori, occupati e non occupati, garantiti e non, come momento centrale della iniziativa legata alla riproposizione verticale dei conflitti sociali a partire dalla distribuzione sociale dell’accumulazione del capitale determinata da forme sempre più sofisticate di sfruttamento del lavoro, da quegli incrementi di produttività, che in ultima analisi altro non sono che ricchezza sociale generale complessivamente prodotta. Si propone così una iniziativa politica a livello europeo sulla salvaguardia e rivendicazione di distribuzione a tutti i lavoratori, occupati e non, dell’intero spettante salario sociale prodotto come classe, tralasciando le richieste corporative basate sul salario individuale e sulle forme di elargizione caritatevole di “soccorso agli esclusi”.

La costruzione di un’Europa del lavoro e delle socio-compatibilità solidali ha bisogno di ridistribuire reddito e ricchezza attraverso un fisco che aumenti la massa dei contribuenti, contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, colpendo i capitali speculativi, i movimenti di capitale all’estero, tassando l’innovazione tecnologica. E’ in ambito di un programma per un’Europa del lavoro che vanno recuperati in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.

Socializzare la ricchezza prodotta: dalla riduzione

dell’orario di lavoro, alla tassazione dei capitali,

al Reddito Sociale Minimo

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale.

Bisogna imporre un passaggio definitivo dal Profit State del consociativismo neo-liberista ad una riqualificazione non solo dello Stato sociale della cittadinanza, ma ad un nuovo Welfare State capace di redistribuire e socializzare la ricchezza complessiva.

Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore, a parità di salario, di ritmi e controllando i turni e il lavoro straordinario, adeguando il tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività.

Date le attuali condizioni internazionali di sviluppo dell’innovazione tecnologica risulta dall’elaborazione di dati provenienti da fonti ufficiali che la quota di lavoro socialmente necessario alla sussistenza media dell’intera classe dei lavoratori (occupati e disoccupati) sia pari a circa il 20% dell’attuale giornata lavorativa sociale a livello internazionale; ed è questa la parte di lavoro retribuita, mentre il resto è pluslavoro destinato ad accumulazione di capitale.

Allora la battaglia per la riduzione dell’orario deve da subito porsi su un terreno offensivo per superare le ostilità e il tentativo palese, da parte della Confindustria, di opporsi al connotato conflittuale di tale proposta. Bisogna altresì combattere le ipotesi di riportare la riduzione dell’orario di lavoro su una media annuale, ipotesi legata la tentativo di mediare in tal modo i periodi ad alta intensità con quelli a bassa intensità di lavoro, ponendo sul piatto dello scambio l’imposizione sociale della flessibilità salariale e del lavoro, l’accettazione delle compatibilità d’impresa e del profitto come al più un “male necessario”.

L’attenzione va posta anche sulle difficoltà interpretative e sulla divisione fra i lavoratori che la proposta sulla riduzione dell’orario di lavoro può provocare, sia in funzione di una difesa del lavoro straordinario sia relativamente alla rincorsa verso il “secondo lavoro”, spesso sommerso e atipico, aumentando così la divaricazione tra l’economia ufficiale e l’economia del lavoro nero e “grigio”, soprattutto legata al modello delle piccole e medie imprese.

Se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei garantiti e dei non garantiti; se tale proposta non è legata alla più ampia battaglia relativa alla socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo a tutti i non garantiti un Reddito Sociale Minimo; se le organizzazioni dei lavoratori non impongono la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento degli stessi turni, specialmente nelle attività produttive a ciclo continuo; se non si ha il controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore; allora si può cadere in un contesto contraddittorio, difensivistico, compatibile con le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico, creando anche forti conflitti orizzontali all’interno della stessa classe dei lavoratori.

Si deve allora riportare la battaglia sulla riduzione dell’orario di lavoro in funzione di una forte richiesta di diversificazione della qualità della vita, di socializzazione del tempo liberato dal lavoro, con la consapevolezza che l’obiettivo delle 35 ore, o meglio delle 32 ore come viene proposto in altri Paesi europei e in Italia dal sindacalismo di base (come ad esempio le Rappresentanze Sindacali di Base), deve avere carattere e natura intermedia.

Allora non si tratta di riconoscere ulteriori incentivi fiscali, sgravi e agevolazioni contributive alle imprese che accettano la riduzione dell’orario di lavoro, ma va immediatamente capito che l’incremento di produttività è ricchezza sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo socialmente l’accumulazione di capitale, e ponendo un programma di iniziativa che entro pochi anni possa portare alla giornata lavorativa, a parità di condizioni, di 15 ore e non di 35! Solo in tale contesto di riduzione d’orario continua nel tempo, con obiettivi di medio-lungo respiro che a fronte degli incrementi di produttività impongano sempre più intense riduzioni della giornata lavorativa a parità di salario, allora solo così si può creare nuova occupazione.

Si può intanto da subito proporre una battaglia politico-sociale, ma soprattutto culturale, che attraversi l’intera Europa e nella quale:

- si deve parlare di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario come battaglia contro la disoccupazione strutturale e per un diverso modello di sviluppo solidale e fuorimercato basato sul miglioramento complessivo della qualità della vita e del lavoro;

- l’ipotesi deve essere funzionale alla possibilità di creazione di occupazione legata al tempo liberato, quindi finalizzata a produzioni non mercantili, incentrando lo sviluppo sulle risorse immateriali e stimolando la crescita sociale del valore del capitale umano e del capitale intangibile;

- la riduzione oraria deve essere necessariamente legata alla redistribuzione sociale della ricchezza complessiva determinata dal lavoro e dal supersfruttamento del lavoratore, poiché la quantità di lavoro complessivamente necessario per la produzione diminuisce in continuazione grazie agli incrementi di produttività del lavoro ( in ambito europeo negli ultimi tre anni si sono avuti incrementi medi annui di produttività del 2% a fronte di incrementi medi annui di salari reali dell’0,5%) e grazie alle politiche di concertazione ciò non si è neppure tradotto in incrementi di occupazione, nè in miglioramenti della qualità del lavoro (ritmi, condensazione), nè in incrementi di salario sociale generale attraverso il miglioramento del Welfare (anzi si sono avuti in tutti i paesi europei tagli continui alla spesa sociale), nè in riduzione di orario a parità di salario. I dati statistici ci segnalano invece in tutta Europa riduzione di reddito complessivo e compressione del potere d’acquisto salariale anche attraverso il massiccio ricorso alla flessibilità, alla precarizzazione, alla sottoccupazione, al lavoro nero o sottopagato e all’annullamento totale o parziale dei diritti sindacali acquisiti;

- il salario sociale reale complessivamente distribuito (retribuzioni+ stato sociale) a livello internazionale oggi remunera soltanto il 20% della giornata di lavoro complessiva; come dire che per il lavoro socialmente necessario alla sussistenza media di tutti i lavoratori (occupati e disoccupati) servirebbe il 20% della giornata lavorativa complessiva e conseguentemente, in termini generali, mediamente l’80% della giornata di lavoro va a plusvalore, ad accumulazione di capitale. Ecco perché la proposta europea di riduzione dell’orario può benissimo partire da subito dalla richiesta delle 32 ore e non delle 35 ore, proprio per porre da subito una linea di tendenza a maggiori riduzioni di orario e per seguire altre impostazioni di lotta già proprie di alcuni sindacati europei e del sindacalismo di base del nostro Paese (vedi RdB). Anche questo comunque è un piccolo risultato intermedio derivato semplicemente dagli attuali rapporti di forza tra lavoro e capitale favorevoli a quest’ultimo, ma è utile per aprire una battaglia di prospettiva e offensiva che in pochi anni può porsi l’obiettivo di riduzione più massiccia e generalizzata dell’orario di lavoro, innescando processi rivendicativi continui di riduzione di orario, questi si di alto contenuto conflittuale e in gradi di aggredire la disoccupazione, fino a giungere ad imporre in 15-20 anni ad esempio la settimana lavorativa di 15 ore a parità di salario.

Come ipotesi di lavoro minima immediata per la legge sulla riduzione dell’orario di lavoro, bisogna continuare la battaglia, che oggi assume anche valenza di proposta di una inversione radicale nelle modalità future dello sviluppo, e quindi far si che la legge contenga assolutamente disposizioni in merito:

a) alla parità di salario e senza differenziazioni territoriali Nord-Sud e di settori produttivi;

b) la riduzione d’orario va contabilizzata su base settimanale e non annua poiché altrimenti non può creare nuova occupazione. L’ipotesi di riduzione su base annua (o anche la più sofisticata formula della riduzione di orario su media settimanale) porterebbe a forte flessibilizzazione del lavoro concentrando le ore sui picchi della domanda di prodotto; la riduzione va imposta sull’intero arco di vita del lavoratore (riprendendo così il tema della difesa delle pensioni di anzianità);

c) la legge non deve derogare dalla data già lontana del 2001, altrimenti non si crea occupazione, poiché la riduzione sarebbe compensata dagli incrementi di produttività, dei ritmi agendo anche sulla condensazione dei tempi;

d) la legge deve contenere precise disposizioni sulla drastica riduzione degli straordinari (non più del 5% dell’orario) e forte maggiorazione del costo o degli oneri sulle ore straordinarie; deve inoltre prevedere l’ipotesi di demonetizzazione dei residui straordinari o altre forme di disincentivazione;

e) la riduzione di orario deve riguardare da subito anche le imprese con meno di 15 dipendenti, e oltre all’industria anche il terziario (pubblico e privato);

f) la legge deve contenere precise disposizioni sul controllo dei ritmi, dei turni, della condensazione, sull’aumento dei carichi da lavoro e sull’assoluta salvaguarda di tutti i diritti già acquisiti;

g) non servono gli incentivi alle imprese, altrimenti si snaturano i contenuti di redistribuzione della produttività che è ricchezza sociale. Laddove le imprese spontaneamente accettano da subito la riduzione di orario, e non nel 2001, si può pensare ad un fondo di incentivazione da attivare attraverso il recupero dell’evasione ed elusione fiscale e tassazione dei capitali. Tali incentivi statali non devono andare alle imprese come sgravi fiscali, ma l’incentivo pubblico (assegno sociale dello Stato) deve essere dato al lavoratore per integrare quella parte di salari che l’azienda non dà a causa dell’immediata riduzione di orario (es. l’impresa paga le 32 ore di lavoro, lo Stato dà un reddito sociale per le altre 8 ore); in tal modo si pone il legame con il Reddito Sociale Minimo, anche perché la riduzione di orario non tiene immediatamente conto dei disoccupati, dei sottoccupati, dei lavoratori non garantiti, degli atipici, degli autonomi di seconda generazione; con il Reddito Sociale Minimo si lega la riduzione di orario alla distribuzione sociale della ricchezza e degli incrementi di produttività e alla tassazione dei capitali.