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Tendenze della competizione globale

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Guglielmo Carchedi
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Professore Università di Amsterdam

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Il sindacato e il lavoro in Europa

Guglielmo Carchedi

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L’impresa europea in cui l’occupazione diminuisce

- È di proprietà di una multinazionale dell’UE

- Ha una grande forza lavoro

- È portoghese o tedesca

- Ha una forza lavoro molto sindacalizzata

L’impresa europea in cui l’occupazione è stabile

- È danese

- Opera nel settore non-profit

- Appartiene al settore del commercio

- Pratica la flessibilità funzionale

L’impresa europea in cui l’occupazione cresce

- È molto innovativa

- È una sussidiaria di una impresa non dell’UE

- È irlandese o olandese

- Pratica la flessibilità di contratto moderatamente

- Non è sindacalizzata

Si noti che l’occupazione diminuisce nelle imprese con forza lavoro sindacalizzata e che le imprese innovative agiscono negativamente sulla sindacalizzazione della classe operaia. Indubbiamnte ció é dovuto al tipo di lavoro creato dalle imprese innovative che assumono sempre di piú con contratti a termine o interinali. Secondo stime dell’Eurostat, tra il 1994 e il 2000, la proporzione dei lavoratori con contratto a termine o con contratti interinali sale dell’8.9% e del 15.1%.

In breve, le imprese europee sottopongono in varie misure i loro lavoratori alla dequalificazione delle mansioni, non introducono innovazioni (si preferisce tagliare i salari), riducono l’occupazione (un terzo di esse), e la maggioranza dei nuovi posti lavoro creati è o part-time o a contratto temporaneo. Questi lavori implicano una maggiore esposizione a condizioni di lavoro gravose e malsane. Per di più in quelle imprese in cui l’occupazione cresce di più, la forza lavoro è meno sindacalizzata. Questi sono dati su cui il movimento sindacale dovrebbe riflettere.

(C) Discriminazione sessuale. Vi sono grandi differenze tra gli uomini e le donne che sono impiegati nei vari settori dell’economia a livello europeo. Ciò è importante anche a causa delle diverse remunerazioni delle diverse occupazioni.

Degli impiegati e degli addetti alle vendite e ai servizi (occupazioni a bassi salari) le donne sono quasi il doppio degli uomini. Tra i professionisti, sono gli uomini che rappresentano una più alta percentuale. Tuttavia, tra i lavoratori non qualificati vi sono più uomini che donne, anche se la differenza non è vistosa.

I dati sulla distribuzione del reddito per sessi (Tabella 4 qui sotto) sono eloquenti. Essi rivelano che il 26% delle donne lavorano a basso livello di reddito mentre per gli uomini la percentuale è molto minore, il 9%. Se consideriamo il livello basso-medio, le percentuali sono del 24% e del 19%. Per il livello medio-alto, esse sono del 17% e 22%. Infine, gli uomini con un livello di reddito alto sono più del doppio delle donne.

È anche significativo che i lavoratori il cui diretto superiore sia una donna siano il 28% nei paesi scandinavi e nella Gran Bretagna ma solo il 17% in Italia, al di sotto della media europea del 19%. Sono interessanti anche i risultati delle interviste riassunte nela tabella 5.

Cioè circa il 20% dichiara di aver personale sotto la sua supervisione, ma di questi circa 24% sono uomini e circa il 14% sono donne. Infine, gli ultimi dati statistici disponibili sono eloquenti sia per quanto riguarda i salari sia per ciò che concerne la disoccupazione.

(D) Salute e benessere. Quest’aspetto include sia la salute fisica che mentale. I problemi più associati col lavoro sono di carattere muscolare e delle ossa (muscoloskeletol). Secondo la Fondazione Europea, questi disturbi hanno raggiunto una dimensione epidemica. “Nel 2000, il 33% dei lavoratori dichiararono dolori di schiena, in confronto al 30% nel 1995, e il 23% dichiararono dolori nel collo e nella schiena. È vero che queste sono dichiarazioni rilasciate dai lavoratori stessi, però un controllo incrociato condotto nel Regno Unito nel 1995 con dottori che esercitavano la professione al fine di verificare uno studio analogo confermò le dichiarazioni dei lavoratori.” (Fondazione Europea, 2002, pp.14-15). Inoltre il 28% dei lavoratori dichiarano di soffrire di stress dovuto al lavoro. La seguente tabella evidenzia una visione più dettagliata.

Le tabelle 1 e 2 più sopra hanno messo in evidenza l’aumento dell’intensità di lavoro e, all’interno di questo contesto generale, il maggior aumento per coloro con contratti interinali che per coloro con contratti a scadenza fissa e ancor più di coloro con contratti a tempo indefinito. Questo dato è importante perché numeroso studi evidenziano una correlazione tra il lavoro interinale da una parte e condizioni di lavoro gravose e dannose condizioni di salute dall’altra (si veda più sotto).

Questa tabella evidenzia come i lavoratori interinali siano esposti più dei lavoratori a contratto a termine fisso e più dei lavoratori a contratto indefinito a posizioni dolorose, a vibrazioni, e a rumore. Le differenze tra i lavoratori con contratto a tempo indefinito e con contratto a termine fisso sono meno grandi. Ma il dato che emerge più di tutti è la grande esposizione a queste tra fonti di lavoro gravoso e dannoso per tutte e tre le categorie di lavoratori.

Inoltre, vi sono problemi che anche se non sono problemi di salute nel senso stretto, sono in ogni caso problemi di benessere che sono strettamente correlati al lavoro, come le molestie sessuali e altre forme di violenza. Nella Finlandia ben il 15% dei lavoratori dichiara di essere soggetto ad intimidazione, seguita dall’Olanda e dal Regno Unito con il 14% mentre in Italia la percentuale è solo del 4%, la più bassa assieme a quella del Portogallo (mentre la media europea è del 9%). Ciò non vuol dire che le intimidazioni sul lavoro siano meno in Italia e in Portogallo che nelle altre nazioni europee. Ciò significa solo che le medie più alte si trovano in quei paesi in cui il dibattito su queste questioni è più attivo e aperto.

Le ragioni per l’aggravarsi della salute e del benessere dei lavoratori sono multiple. Prima di tutto, le nuove tecnologie, basate sull’uso del computer, aumentano la pressione e il ritmo di lavoro, così come la capacità di controllo sui lavoratori. In secondo luogo, non si sono ridotte sufficientemente (se si sono ridotte) le cause di tali disturbi, nonostante un’ampia documentazione sulla materia. Terzo, tali disturbi sono strettamente correlati con l’organizzazione del lavoro, specialmente in quelle aziende in cui la norma è il lavoro ripetitivo e stressante. Le privatizzazioni e le fusioni giocano un ruolo importante attraverso la riduzione del personale (il che aumenta la pressione su coloro che rimangono al loro posto di lavoro). A questo riguardo è importante sottolineare che un terzo dei lavoratori dichiara di non aver nessun controllo su come il loro lavoro e i loro compiti sono organizzati. Il 40% dichiara altresì di dover fare lavori e movimenti ripetitivi. L’analisi mette in luce la stretta correlazione tra lavoro ripetitivo e disturbi muscolari e delle ossa, una correlazione che diventa sempre più stretta se l’intensità del lavoro e il carico di lavoro aumentano. Infine, anche le nuove forme di organizzazione del lavoro - basate su una maggiore responsabilità, sulla multicapacità, e su un tipo di lavoro che domanda e richiede maggiori qualificazioni - necessitano allo stesso tempo un maggior impegno e dispendio di energie. Ciò, a sua volta, conduce ad un maggiore stress, a disordini muscolari e delle ossa, e ad incidenti sul lavoro. Questa intensità del lavoro, definita dalla European Foundation come ‘una delle tendenze più significative degli ultimi anni’, è aumentata costantemente nell’ultimo decennio, come si può vedere dalla tabella piú sopra.

Questa intensificazione colpisce tutti i paesi della Unione Europea, tutti i settori dell’industria e tutte le categorie occupazionali, anche se in varia misura. L’intensificazione del lavoro è direttamente collegata allo stress, ai disordini muscolari e delle ossa. Vi è anche una correlazione con fenomeni di violenza e molestie sessuali (European Foundation, 2002, p.17). Gli effetti sulla salute del dover lavorare ad alta velocità emergono chiaramente dalla tabella seguente, dove il confronto è fatto con coloro che non devono fare mai lavori sotto pressione.

È stata documentata ampiamente anche la correlazione tra problemi di salute e l’aumento delle ore di lavoro. Anche il lavoro a turni e il lavoro notturno possono avere effetti deleteri per la salute. Vi è anche, come già detto più sopra, una correlazione tra forme di lavoro precario e salute. Questo è stato documentato da un vasto corpo di ricerca. Le donne sono meno esposte ai rischi ‘tradizionali’ sul lavoro ma più esposte alla discriminazione, intimidazione e molestie sessuali. Infine, a differenze della situazione precedente, maggiori probabilità di danni alla salute esistono non solo nei settori ‘tradizionali’ come l’edilizia e la manifattura, ma anche in ‘nuovi’ settori come i trasporti e il catering.

Un’analisi per settore rivela le quattro le categorie che sonno soggette a rumore, a vibrazioni, a fumi e vapori, che devono lavorare in posizioni che causano dolore o stanchezza, o che devono portare pesi pesanti: esse sono i lavoratori agricoli, gli artigiani, gli operatori di macchine (machine operators) e coloro che hanno occupazioni elementari (European Foundation, 2001b, pp. 10-11).

(E) Qualità del lavoro. La qualità del lavoro dipende dalla possibilità che il lavoro offre di sviluppare le potenzialità dei lavoratori favorendo così la creazione di lavoratori qualificati (ma non necessariamente specializzati). Vi sono ovviamente varie misure della qualità del lavoro. La tabella 11 si basa su quattro indicatori.

Alcuni dati balzano subito all’occhio. La percentuale di coloro che lavorano durante il fine settimana aumenta se si passa dai lavoratori dipendenti con contratto permanente, ai lavoratori dipendenti con contratto temporaneo, e ai lavoratori indipendenti. Ben più della metà dei lavoratori indipendenti che lavorano a tempo pieno lavorano durante il fine settimana (56.8%) in confronto al 21% dei dipendenti permanenti a tempo pieno. La percentuale è minore per i lavoratori indipendenti part-time (35.6%) ma è maggiore di quella delle altre categorie di lavoratori. Ciò richiama alla memoria la caratterizzazione data da Marx dei lavoratori indipendenti come coloro che si ‘auto-sfruttano’ più di quanto siano sfruttati i lavoratori dipendenti. Il fatto che tra l’85% e il 90% di tali lavoratori possano controllare il loro tempo di lavoro indica non una maggiore libertà e una migliore qualità del lavoro ma semplicemente la condizione di doversi auto-sfruttare al massimo. Tale tendenza al massimo auto-sfruttamento è dovuta alla minaccia insita nel fatto che per molti di tali lavoratori l’unica alternativa è la disoccupazione. In questa categoria, si trova anche la maggior proporzione di lavoratori che non hanno ricevuto una formazione professionale sul lavoro nell’ultimo anno. La tabella che segue dà informazioni più dettagliate sulla mancanza di tale formazione per categoria di contratto. Si evince che i lavoratori più svantaggiati sono gli interinali, seguiti dai lavoratori con contratto temporaneo e infine da quelli con contratto permanente.

Infine, per quanto riguarda le specializzazioni, la maggior proporzione dei lavoratori non specializzati si trovano prima nei lavoratori dipendenti con contratto temporaneo part-time, poi nei lavoratori indipendenti con contratto part-time, e infine nei lavoratori dipendenti con contratto permanente ma part-time. In altre parole, in ciascuna di queste categorie il lavoro part-time ha maggiori probabilità di essere un lavoro non qualificato. Ovviamente, come aumenta il part-time, aumenta anche la precarietà del lavoro.

Un’altra misura della qualità del lavoro è data dalla tabella che segue. Essa permette un confronto tra il 1995 e il 2000. Purtroppo, però, su si basa su sei categorie diverse da quelle della tabella precedente.

La prima categoria, “far fronte agli standars di qualità” è vaga e probabilmente riflette più la percezione degli intervistati della propria posizione sociale che la qualitá del loro lavoro. Si nota in ogni caso un leggero peggioramento dal 1995 al 2000. Lo stesso si può dire della seconda categoria “valutazione della qualità” che riguarda la valutazione da parte dei lavoratori stessi della qualità del loro lavoro. A questo riguardo bisogna dire che l’autovalutazione può essere un metodo estremamente efficace di controllo da parte dell’azienda. Da una parte costringe il lavoratore ad immedesimarsi nei fini e negli obiettivi dell’azienda, dall’altra, se tale autovalutazione non è soddisfacente, scatta un meccanismo di auto-supervisione e auto-controllo. Infine, tale autovalutazione è immancabilmente collegata alla richiesta da parte dell’azienda di suggerimenti, che devono essere proposti dai lavoratori stessi, su come migliorare la qualità del proprio lavoro anche se la (auto)valutazione è stata positiva. Quindi questo secondo criterio è più un criterio per il controllo sul lavoro che sulla qualità del lavoro (nel senso indicato più sopra).

La capacità, o possibilità durante il lavoro, di risolvere problemi non previsti rimane immutata. Essa, come l’altro criterio, lo svolgere lavoro che implica compiti complessi, potrebbe essere una misura di un lavoro vario e gratificante. In effetti, questo non è il caso. Lo svolgere lavori complessi e il risolvere problemi possono essere una manifestazione sia di una dequalificazione delle mansioni sia di una loro riqualificazione. L’aggiungere compiti dequalificati ad altri e l’affrontare i problemi che ne possono derivare, lungi dall’essere un segno di un miglioramento delle condizioni di lavoro, indica una maggiore flessibilità funzionale ai fini, e vantaggiosa per l’azienda. [1] È in questa luce che i dati sulla monotonia del lavoro devono essere visti. Maggiori compiti possono diminuire la monotonia del lavoro ma possono altresì aumentare la flessibilità (disponibilità) e l’intensità del lavoro. Non a caso, a questa minore monotonia si accompagna una diminuita opportunità di apprendimento. Mentre il 92% dei professionisti gode di tali opportunità, la percentuale è del 38% per le occupazioni elementari e del 63% per i lavoratori nei servizi. In queste due categorie vi è anche una diminuzione di tali opportunità del 10% dal 1995 al 2000. Questo handicap si riflette anche sul piano della disoccupazione.

Questi dati, assieme a quanto detto più sopra sulla grande incidenza del lavoro part-time, e quindi della precarietà del lavoro, conduce ad un’unica conclusione: che il processo di globalizzazione è stato accompagnato da un deterioramento della qualità del lavoro, soprattutto per gli strati più deboli. Un’altra conclusione è altrettanto ovvia: che il sindacato dovrebbe enfatizzare la qualità del lavoro nell’elaborare la propria strategia.

3. I mutamenti nel tempo di lavoro e il pluslavoro. [2]

Negli anni ‘80 e ‘90 vi sono stati mutamenti importanti nelle relazioni tra lavoratori e datori di lavoro. Mentre i lavoratori a tempo pieno sono ancora la maggioranza della popolazione lavoratrice, si è visto negli ultimi anni il sorgere e l’espandersi di altre forme di contratto di lavoro, quali il lavoro non fisso e il lavoro part-time. I dati sono come segue:

Come si vede, oggigiorno coloro che hanno un contratto a tempo pieno e a tempo indeterminato (cioè con la maggior garanzia di un reddito regolare) sono stati ridotti a poco più della metà della popolazione lavoratrice: 55% per la UE and 57% per l’Italia. I contratti sono diventati flessibili (vedi sopra) e le condizioni di lavoro precarie. L’Italia si contraddistingue per la maggior proporzione dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, due categorie che spesso sono un serbatoio di disoccupazione nascosta.

Per quanto riguarda la durata del lavoro settimanale in Europa essa è di 38,2 ore per tutti i lavoratori. Vi è però una grande differenze tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, come si vede dalla seguente tabella.

Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, la seguente tabella analizza le grandi differenze per tipo di contratto.

La tabella che segue dimostra che vi è un aumento del lavoro part-time dal 1995 al 2000 è che tale lavoro è ancora e sempre di più un fenomeno che riguarda i lavoratori di sesso femminile.

Coloro che lavorano meno di 30 ore settimanali (part-time) aumentano dal 15% al 16% dei lavoratori, però dato che essi sono per il 30% donne (contro il 6% degli uomini) e dato che le donne si trovano nei livelli salariali più bassi (vedi tabella 4, più sopra), un aumento del lavoro part-time si riflette in una diminuzione del monte salari per tali lavoratori.


[1] A.Danford, M.Richardson, M.Upchurch, (2002), sostengono che l’intensificazione del processo lavorativo avviene “non solo aumentando il ritmo del lavoro ma anche catalizzando una ricomposizione del lavoro attraverso un processo di compiti multipli, o di mix di abilità” (p.15)

[2] Anche in questa sezione i dati provengono per la maggior parte dalle pubblicazioni della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti e le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.