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Teoria e storia del movimento operaio

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio

Alessandro Mazzone

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1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.

Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].

Naturalmente, non è stato sempre nella coscienza soggettiva dei lavoratori organizzati, che le rivendicazioni elementari, di salario, normative, erano in germe rivendicazioni di un diverso modo di vita, di una diversa organizzazione del vivere associato. Questa diversa organizzazione è quello che 100, 130 anni fa si chiamava, in generale, “socialismo”. Nella coscienza era la solidarietà come principio, la dignità di vita e l’emancipazione del lavoro come scopo, come pure si diceva. Solo per gradi, e in forme diverse (che costituiscono la storia del sindacato e del Movimento Operaio in genere in ogni Paese) [2], e soprattutto nell’età dell’imperialismo e delle sue guerre, cioè nel ‘900 e fino ad oggi, diventa via via più chiaro il legame obiettivo tra singole lotte e - come si è detto - “questioni di società” [3].

Obiettivamente, però, l’oggetto del contendere, cioè il lato obiettivo della lotta di classe, il suo contenuto è sempre il modo di vita degli uomini associati, cioè, in astratto, la Riproduzione Sociale Complessiva. Questa, naturalmente, è una astrazione [4]. Tuttavia essa si concretizza nel processo storico stesso: il lavoratore complessivo è concetto molto più attuale oggi che quando Marx lo esponeva, nel 1867.

2. Lavoratore complessivo non è più nozione riferibile soltanto agli operai che cooperano in una fabbrica, e il cui agire individuale è sensato nel fatto, e dunque anche pensabile, solo come elemento del tutto; non è più nemmeno riferibile all’insieme delle unità di produzione, p. es. di un Paese. Lavoratore complessivo tende a diventare la totalità dei lavoratori salariati a livello mondiale (questo significa il c.d. “outsourcing” per opera delle multinazionali grandi e piccole, p. es.). Tende soltanto, notabene: non è ancora. Già. Ma la questione non sta nel vacuo chiedere “quanto ci vorrà per arrivarci...”! La questione concreta è un problema di lotta!

La controparte non si fa scrupoli, e casomai utilizza la paroletta “globalizzazione” quando le serve per spiegarti che chiudo a Treviso e faccio produrre in Romania dove i costi del lavoro sono minori, o anche che svendo la Fiat per passare all’investimento finanziario, o che “purtroppo” la concorrenza globalizzata spinge a ridurre il salario sociale globale (cioè intanto quello in forma differita, pensioni ecc., o indiretta, sanità, istruzione ecc. ecc.). Ma il lavoratore complessivo reale, che anche attraverso questi eventi viene prodotto, ma viene prodotto come segmentato geograficamente, culturalmente (diverse tradizioni, lingue...) e corporativamente (solidarietà indotta con la “propria” impresa) - questo lavoratore complessivo reale, che cresce ogni giorno in numero, e però anche in sfaccettature, è in difficoltà a intendere i processi di cui è soggetto - poiché a lavorare e produrre, dopo tutto, è lui! - e dunque subisce questi processi, non ha l’iniziativa, è oggetto piuttosto che soggetto. (E diversi sociologi, anche “vicini” al movimento dei lavoratori, bontà loro, scrivono dotti studi per mostrarti che “in questa fase” è così, non può essere che così, e non c’è niente da fare. Cioè, raddoppiano il fatto dandogli un nome, una categorizzazione astratta - tratto tipico della pseudoscienza secondo Gramsci, sia ricordato di passaggio) [5].

E tuttavia, un sindacato di classe non può essere che sindacato del lavoratore complessivo in ogni momento reale - proprio perché sa che gli interessi dei suoi aderenti, che deve difendere in ogni momento, in ogni momento sono legati alla dinamica di quello. E se “in questa fase” lo sono difensivamente (perché di fatto, è la controparte di classe che complessivamente è all’offensiva, tende dappertutto a ridurre il salario globale reale, cercando in questo una via d’uscita dalla crisi di valorizzazione, che attanaglia il capitale mondiale da 30 anni) - ebbene, questo non toglie che la miglior difesa è quella che ha nozione del processo, ne conosce le contraddizioni interne e ne fa momenti della sua tattica di lotta, e dunque non subisce passivamente il processo, e nel processo l’iniziativa dell’avversario e la sua tattica.

Ma: se faccio questo davvero e non a parole, se opero in modo specifico e per interessi particolari, tenendo però in vista il loro nesso con l’universale (il lavoratore complessivo reale, in divenire), la mia tattica non si esaurisce mai nel (parziale) successo (o insuccesso) che posso ottenere - diventa momento di una strategia. Strategia lontana? Può darsi. Intanto, primo, vedo il legame, e tengo conto del legame, tra interessi particolari da difendere e contesto (contesto intercategoriale; talvolta “nazionale”, cioè dei lavoratori in quanto sono la forza produttiva operante, esistente, acculturata, effettiva: e se il riferimento è al Paese, ebbene essi sono la forza produttiva operante, esistente, acculturata, effettiva - senza la quale gli strumenti di produzione, dalle roncole ai computers, diventerebbero ferrivecchi). Poi, secondo, opero in modo tale che la coscienza del legame tra interessi particolari, “nostri”, e contesto obiettivo, legame che c’è comunque, che si modifica ogni giorno, che l’avversario conosce per occultarlo e sfruttare la segmentazione - la coscienza di questo legame operi nella mia parte - certo, un poco alla volta. Ma questo significa solo e precisamente, che sto agendo come sindacato di classe. Infatti quel legame, che c’è, obiettivamente, piaccia o no; che si modifica ogni giorno e le cui modificazioni vanno studiate, conosciute e praticamente fatte valere - quel legame, che la controparte conosce istintivamente, poiché essa rappresenta l’interesse del capitale come “potenza obiettiva”, e lo utilizza per i fini di una “potenza obiettiva” cui tutti gli individui (salvo i padroni) devono “fatalmente” sottomettersi : quel “legame”, finalmente, una volta teoricamente e praticamente conosciuto, in modo da diventar grado a grado strategia della mia parte, ha un nome, e si chiama, semplicemente, coscienza di classe.

La strategia del ricreare, riprodurre, ovviamente in forme e modalità nuove, adatte alla realtà nuova e attuale del nato e crescente lavoratore complessivo mondiale, la coscienza di classe è certo - s’intende!
 una strategia di lungo periodo, anzi forse lunghissimo. Ma essa ha un vantaggio inestimabile. Eccolo: questa strategia comincia oggi, non domani. Non è separata astrattamente dalle lotte quotidiane, anzi sono le lotte quotidiane separate da lei che sono “astratte”, e tendenzialmente perdenti (l’avversario lo sa anche troppo bene... - impariamo da lui senza paura.) - Il sindacato di classe è “di classe” perché e in quanto opera con questa strategia.

Qui, sia chiaro, se ne è detto in generale: i casi specifici sono da vedere a chi compete.

3. Veniamo a un altro aspetto. Il sindacato di classe intende le vertenze particolari, salariali, per i diritti, o altre, come momenti della lotta di classe generale, e lo fa praticamente, non a parole. Bene. Ma, si è detto, oggetto della lotta di classe è - da sempre - la Riproduzione Sociale Complessiva, l’insieme della attività umane da cui risultano gli uomini stessi, e la loro vita associata. E, si è detto, questa astrazione diventa progressivamente realtà effettuale [6].

In questa formula si può ricomprendere, volendo, la storia intera del Movimento Operaio - dai primi inizi di resistenza immediata, leghe di mutuo soccorso e rivendicazioni di condizioni meno disumane di vita e lavoro, nella prima metà dell’800, alla Prima Internazionale, e poi ai grandi sindacati e partiti operai a fine ‘800, alla Seconda Internazionale, che almeno in alcuni Paesi, come la Germania, costituì realmente una sfida all’“ordine” esistente. Con il 1914, tanto il riformismo quanto lo anarcosindacalismo sono fuori gioco, definitivamente battuti. Essi erano - prima - due varianti interne del “socialismo”. Ma “socialismo” significava allora democrazia, pace, e unità di sviluppo economico e progresso sociale. Questa unità cade nei fatti (prima che nelle ideologie negatrici del “progresso” in generale, divenute moda ai nostri giorni) con il passaggio dei grandi Stati nazionali borghesi a Stati imperialisti, che si spartiscono il mondo in colonie (possiamo dire convenzionalmente: tra il Congresso delle Potenze a Berlino, 1878, e i primi anni del ’900). La Seconda Internazionale vide chiaramente l’imperialismo, e la guerra mondiale, inaudita per distruzioni e massacri, che esso portava con sé; proclamò solennemente, nel 1912 e nel 1913, che alla guerra imperialista si sarebbe risposto, per bloccarla, con lo sciopero generale in tutti i Paesi belligeranti; mancando a questo impegno, proclamato e non preparato, essa decretò la sua morte - e con lei, la fine di tutta una fase del movimento operaio internazionale. Il resto, con la Rivoluzione russa, il suo non-riuscire-a-diventare “scintilla” della rivoluzione mondiale, la nascita della Terza Internazionale come progetto storico di lavoro alla rivoluzione mondiale, che i comunisti seppero esser opera di più generazioni (e questa consapevolezza, finché ci fu e fu operante, li costituì come comunisti dovunque operassero, attraverso le necessarie modificazioni strategiche, come in Italia) - poi la sconfitta economico-sociale del “socialismo reale” e la nuova figura, ancora poco compresa, del dominio imperialistico sul mondo, con lo sterminio per fame prima, durante e dopo le sue “guerre di media intensità” (sterminio per fame e malattie in un mondo di risorse abbondanti, come è dimostrato da oltre 30 anni) - tutto questo NON è “storia di ieri” - ma invece è il nostro presente, senza conoscere e intendere il quale semplicemente non possiamo sperare di agire.

4. La consapevolezza della propria storia non si esaurisce nella memoria delle battaglie vinte e perdute. In ciascuna di esse è presente, come del resto nella vita quotidiana degli uomini in società, tutto il passato che ha reso possibile questi uomini, questo lor modo di vivere, agire, pensare - un vivere, agire, pensare che sono tutti attività sociali [7].

Anche qui, l’azione dell’avversario di classe non si limita alla propaganda dell’assurdità neoliberale, per cui “società” sarebbe un insieme di individui astratti, isolati in ogni istante, e in ogni istante in competizione tra loro, ecc. - No. Si tratta di molto di più, e non soltanto di propaganda. Quello che deve essere cancellato dalla coscienza è l’obiettivo modo d’essere di tutti gli “agenti della produzione capitalistica”  [8], cioè tendenzialmente di tutti gli individui in questa modalità di Riproduzione Sociale Complessiva, in cui il rapporto di capitale e la riproduzione degli uomini attraverso e mediante merci si estendono a sempre nuove sfere. E si capisce. Proprio oggi, nell’epoca della massima espansione - mondiale, “globalizzata” - della produzione capitalistica e del dominio del capitale, è indispensabile impedire con ogni mezzo che si formino, giorno per giorno, e dovunque, cittadini consapevoli, dotati di cittadinanza politica, sociale, culturale. Impedire che noi conosciamo e intendiamo praticamente il nostro mondo, il nostro presente - perché l’avversario sa bene che così “non possiamo neppure sperare di agire”, e perdiamo i motivi della nostra forza, che risiede in primo luogo, da sempre, nella solidarietà.

(Del resto, che cosa sono la “comunicazione deviante”, la controriforma della scuola, la atomizzazione nella “società dello spettacolo”, la sostituzione della politica con comitati di potere nascosti dietro alle fumisterie e pseudonotizie mediatiche - se non aspetti dell’offensiva reazionaria in atto da almeno tre decenni, e che nella crisi, e attraverso la crisi, deve dividere i lavoratori, per categorie, per etnie, per località, per nazioni, paralizzandone l’azione, potenzialmente tanto più pericolosa quanto più emerge l’intrinseca incoerenza del sistema che si pretende unico, onnipotente, vittorioso, eterno, punto d’arrivo insuperabile della storia umana, ecc.?) [9].

Non c’è sindacato di classe senza consapevolezza della sua storia - della storia del movimento dei lavoratori in primo luogo, e di questa come un aspetto della storia complessiva dei popoli moderni, e della lotta di classe in lei.

5. Ma altrettanto. Non c’è sindacato di classe senza consapevolezza della sua teoria. Vuol dire questo che dobbiamo diventare tutti specialisti di teoria del movimento operaio? No, ovviamente. (Questa vecchia sciocchezza torna a galla, anche lei, ogni volta che si tratta di dividere, seminare il sospetto, rompere la solidarietà.)

Consapevolezza della teoria vuol dire almeno quattro cose.

Primo. Che è possibile l’integrazione della visione del mondo dal punto di vista dei lavoratori, che è il punto di vista attuale (anche se nascosto) - cioè il punto di vista della Riproduzione Sociale Complessiva dalla parte di chi la attua - invece che dal punto di vista di chi ne trae profitto, e la manipola per perpetuare profitto, privilegio, potere ecc.

Secondo. Consapevolezza della propria teoria significa conoscenza dei modi in cui “un altro mondo è (diventato) possibile” - per noi, per i nostri figli. E non è solo genericamente possibile, ma indispensabile e fattibile (certo non dall’oggi al domani...); ed è l’alternativa alla “guerra infinita”, alla lotta sempre più disperata per le risorse (petrolio, acqua...), alla contrapposizione sempre più violenta tra isole di benessere e un oceano di miseria, fame, malattie, cioè di un praticato sterminio, in confronto al quale quello nazista appare ormai come un precedente poco abile. - Tutti questi sono temi di studio, attuali, di oggi. Non ci sono “ricette” in testi classici. Ma lo studio del presente è possibile partendo da modelli teorici, sviluppandoli, verificandoli. Si tratta di cominciare dall’inizio, senza pretendere di trovare qualche facile toccasana. E così si esce dalla semplice aspirazione, o nostalgia di “un mondo diverso”.

Terzo. La teoria è un’arma. (Di “armi più raffinate e decisive” parlava Gramsci nei Quaderni del carcere.) Forse mai come oggi è stato così. Non solo perché, anche qui, l’avversario ha messo in opera una gigantesca macchina (anti)culturale, tendente a distruggere nei lavoratori, e nei cittadini in genere, ogni consapevolezza teorica - anche e soprattutto nella formazione delle nuove generazioni. Ma perché è una superstizione, e nulla più, che la teoria nasce dall’”intelligenza” di qualche testa. È vero il contrario: l’intelligenza nasce dalla teoria. Imparo a dimostrare il teorema di Pitagora (ricordi di scuola...), a capire come è fatto, come funziona - e acquisto intelligenza matematica, e perciò e solo perciò, capacità di dimostrare altri teoremi. “Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” era, non per nulla, un motto dell’Ordine nuovo di Gramsci, nell’anno rivoluzionario 1919.

Quarto. Tutti sappiamo che noi, la nostra parte, dobbiamo ricominciare da molto lontano. Le vittorie e il potere dell’imperialismo in questi anni sono sotto gli occhi di tutti. L’offensiva economica e politica dell’avversario di classe contro i lavoratori e le loro organizzazioni dura da decenni, e ha ottenuto successi. La classe lavoratrice è segmentata. Il mito neoliberale dell’antisolidarietà è penetrato in settori popolari, e non crea certo sbarramenti alle derive etnicistiche, localistiche, perfino razziste. L’occhio fisso al presente immediato apre la strada alla demoralizzazione.

In queste condizioni, riappropriarsi della nostra storia e della nostra teoria, se è indispensabile per intendere le tendenze presenti e agire per modificarle, vale anche a riconquistare l’orgoglio, la dignità nostra - nella continuità di un movimento che, in cinque generazioni di lotte, ha imposto quel tanto (o poco) di democrazia che sia mai esistita in Italia, ed è stato, e ancora è, nella pratica, la dignità degli uomini, il loro diritto al lavoro, a condizioni degne, all’istruzione, alla salute, alla possibilità di guardare al futuro come qualcosa da creare, per sé e per gli altri. Nulla di tutto questo è stato “generosamente concesso”, tutto è stato conquistato con sacrificio, lotte tenaci, abnegazione. La storia del movimento operaio italiano è il libro di queste conquiste; da lei si riparte, per andare avanti.


[1] Nessuna società potrebbe sussistere, se il lavoro umano cessasse: ma nella società moderna, capitalistica, il lavoro umano tende ad essere quello del lavoratore salariato. (Anche in forme camuffate: oggi, lavoratori “con partita IVA”, pseudo-cooperative, “co-co-co” ecc.)

[2] V. Idomeneo BARBADORO, Il sindacato in Italia dalle origini al 1908, Milano, Teti, 1979, p. 20 ss., per i caratteri peculiari del movimento dei lavoratori italiano, alle sue origini, rispetto a quello inglese e tedesco.

[3] Si può pensare, p. es., anche alle “vertenze” per la salute, la casa, la organizzazione del territorio dopo lo “autunno caldo” 1969. O, più addietro, al “Piano del lavoro” avanzato dalla CGIL nel dopoguerra. Ma naturalmente, è in questo quadro che si è posta la difficile questione del rapporto tra organizzazione sindacale e partiti politici dei lavoratori, in tutto il secolo.

[4] “Riproduzione Sociale Complessiva” è produzione e riproduzione di uomini associati. Essa risulta dall’insieme di tutte le attività degli uomini stessi (e anche di enti naturali, come la terra, modificati e resi utili dal lavoro umano). Ma nel mondo moderno (capitalistico) questa astrazione si concretizza, grazie proprio allo sviluppo del rapporto e processo di capitale. Lo si può vedere, partendo dal lavoro.

Il lavoro effettivo (concreto) è sempre, ogni volta, lavoro compiuto da un determinato lavoratore in un contesto determinato, qui ed ora. Ma perché ciò avvenga, quel determinato lavoratore e quel contesto (rapporto di capitale, cioè salariato; condizioni tecniche, e a monte, anche scientifiche, ecc.) devono essere venuti in essere.

Dunque. Perché il lavoratore effettivo esista, deve esser stato messo al mondo, cresciuto, educato eccetera, e ciò avverrà sempre in modi e condizioni socialmente determinate. Se considero l’insieme delle attività che mi portano ad avere il mio “lavoratore effettivo” in carne ed ossa, con quel carattere, abilità, tipo umano, linguaggio eccetera, vedo due cose: 1° quelle attività (che producono condizioni, che si cristallizzano anche in istituzioni, p. es. scuole) sono tutte, in ogni istante, risultato storico, ma con ciò anche risultato della lotta di classe (la scuola pubblica, obbligatoria, gratuita, aperta a tutti, ne è un esempio). E, 2°, che ogni attività umana entra, direttamente o indirettamente, nella produzione del “lavoratore concreto, effettivo” (Anche il buon padre che fa passeggiate col figlio? Certo!) - ed entra nella produzione delle condizioni (industrie, oggi concorrenza di capitali, finanza...), condizioni nelle quali soltanto il lavoro effettivo (concreto) può esistere e venire realmente compiuto.

Il Movimento Operaio ha lavorato e lottato per “condizioni umane” di vita e di lavoro, che erano (e sono) storicamente umane -e, così, ha lavorato e lottato per “umanizzare” quelle attività, nel loro complesso, che producono, mettono in essere, fanno esistere tanto il “lavoratore effettivo” quanto le condizioni in cui esso opera (compreso il dormire? Certo, abolendo le giornate lavorative di 14 o 16 ore...). - Questo si vuol riassumere in breve, usando l’espressione teorica “Riproduzione Sociale Complessiva”

[5] La forma capitalistica della mondializzazione (della riproduzione sociale complessiva su scala mondiale), produce disastri: fame e sterminio nell’abbondanza, guerre, disastro ambientale (l’accordo di Kyoto non attuato...), esclusione dal lavoro e dalla potenziale ricchezza di vita (ricchezza umana) anche nelle metropoli, eccetera.

Intanto, il lavoratore complessivo, che produce merci, plusvalore, e anche sé stesso come salariato, in quanto riproduce il capitale di fronte a lui, cresce ogni anno di milioni di unità, attive e/o disoccupate. Questo esercito di lavoratori c’è - ma è mediato nei rapporti di capitale e sottoposto alle loro vicende - come mostrano per es. le concentrazioni e acquisizioni gigantesche degli ultimi 10-15 anni.

[6] Il lavoratore effettivo (concreto) è - molto più che in passato - prodotto e riprodotto in forma capitalistica. Basterà ricordare come la massima parte di ciò che ci fa vivere - dagli alimenti alle abitazioni ai medicinali ecc. ecc. - sia divenuto e divenga sempre di più prodotto capitalisticamente, in imprese capitalistiche. Ma c’è di più, proprio oggi. Si vede come l’avversario miri a capitalistizzare tendenzialmente tutta la vita (formazione, scuola, sanità, cultura). E questo non è un semplice ritorno indietro: il medico condotto dei nostri nonni, il maestro elementare (e altri non ve n’erano per la massa della popolazione) non producevano profitto, non erano “aziende”. Dunque: il lavoratore effettivo (concreto) è risultato anche di lotte di classe passate, che hanno reso possibile che da bambino andasse a scuola, che i suoi genitori avessero una casa decente, che non fossero analfabeti, ecc. - Anche quelle lotte sono il nostro presente: non saremmo (diventati) quel che siamo senza di loro.

[7] Attività sociali - di fatto, come mostra un po’ di riflessione (non creo la lingua in cui parlo, ecc.). Ma questa socialità non è immediatamente evidente, e non può esserlo, come mostra G. LUKACS nei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milano, Guerini & ass., 1990, p. 92 ss.

[8] L’espressione, e la tesi che l’obiettivo modo d’essere non compare senz’altro nella coscienza degli “agenti”, sono di Marx, Capitale I, sez. VI (Salario). In superficie, il contratto di lavoro è - un contratto, accordo di volontà libere e pari tra individui uguali e indipendenti, come il contratto d’acquisto di un chilo di mele al mercato di quartiere.

[9] Questa parvenza di insuperabilità assoluta del capitalismo non è, in sé, cosa nuova. (V. l’utile raccolta di saggi di E. J. HOBSBAWM, I Rivoluzionari, in italiano presso Einaudi, Torino, 1975 - cioè assai prima della fine del “socialismo reale”). Tra i marxisti inglesi del ‘900, essa diede luogo a quello che Hobsbawm chiama il “settarismo impossibilista”, con la sua incapacità di “fare da soli il proprio lavoro... condurre la propria analisi di ciò che avveniva nel capitalismo inglese...” (p. 132) - comprendere, in una parola, che quel “lavoro” era stato soltanto avviato da Marx ed Engels.