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Tendenze della competizione globale

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Alvaro Bianchi
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Professore di Teoria Politica all’Università Metodista di San Paolo

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I nuovi crociati: crisi organica e nuovo ordine mondiale

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4. Potere militare e rivoluzione passiva permanente

La nuova crociata promossa dall’imperialismo nordamericano deve essere interpretata dal punto di vista della sua rinnovata strategia militare e della crescita delle spese militari. Questa non è una guerra contro piccoli nuclei fondamentalisti, è un’azione imperialista che tende ad espandere il controllo politico ed economico sul mondo. O, parafrasando il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, una guerra per “adeguare l’ambiente” e garantire la “vitalità e la produttività dell’economia globale” in un contesto internazionale segnato dalla crisi economica e politica.

“Se Osama bin Laden non esistesse bisognerebbe inventarlo” aveva affermato, pochi giorni dopo l’attentato, George Mambiot sul giornale The Guardian [1]. Di fatto, gli attentati alle torri del World Trade Center si sono trasformati nel pretesto necessario per una nuova offensiva economica e politico-militare nordamericana, una risposta capitalista alla crisi del capitalismo. Da lì la necessità di condannare non soltanto la politica estera nordamericana, ma gli attacchi terroristici che hanno sacrificato migliaia di vite di lavoratori, hanno unificato le forze dell’imperialismo e posto sulla difensiva i movimenti antiglobalizzazione.

La risposta nordamericana presuppone molto più che eliminare Osama bin Laden e si estenderà molto più in là del sud-est asiatico. Certamente il nemico dichiarato è molto più “diffuso” di quanto gli Stati Uniti desidererebbero, come evidenzia Le Monde Diplomatique nel suo numero di ottobre. Ma gli obiettivi sono ben concentrati.

Come ha sottolineato Marco Cepik, in un articolo pubblicato pochi giorni prima dell’inizio degli attacchi, la strategia degli Stati Uniti è così articolata: “1) Una guerra di coalizione il cui nucleo è formato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, contro il regime dei Talebani in Afghanistan, con l’appoggio locale russo e pachistano. 2) Una escalation repressiva di portata globale contro il terrorismo, definito in modo tale da includere anche le forze insorgenti e le organizzazioni criminali” [2].

Per quanto riguarda il primo punto, il risultato, se favorevole agli Stati Uniti, sarà una maggiore presenza nordamericana in una regione strategica. Al nord, l’Afghanistan confina con le ex repubbliche sovietiche del Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. La regione, soprattutto quella intorno al Mar Caspio, è ricca di gas naturale, petrolio e uranio, e possiede grandi riserve ancora inesplorate. È anche zona di passaggio e nodo di oleodotti e gasdotti ancora in fase di progettazione ed espansione, che permetterebbero l’accesso a quelle risorse di Cina, India, Giappone e della Comunità Europea. Così ci mette in guardia José Miguel Martins, “considerando che dopo la guerra del Kuwait sarebbero stati i Paesi con forze militari nella regione ad ottenere i contratti di ricostruzione, allora, forse, la coalizione occidentale non si è ristretta soltanto per ragioni ‘militari’” [3].

Completano il quadro: i Rogue States, l’Iraq e l’Iran; una potenza nucleare alleata, il Pakistan; ed all’est, nuovamente lei, la Cina. Ricordiamo che, nell’includere l’area dell’est asiatico tra le priorità strategiche, il Quadrennial Defense Review del 2001 affermava che “esiste la possibilità che emerga nella regione un concorrente militare con una formidabile base di forze”. Il nome di tale potenza non veniva menzionato, ma evidentemente era la Cina [i].

Dall’inizio delle operazioni i nordamericani hanno utilizzato le basi militari cedute dall’Uzbekistan e dal Tagikistan, con il consenso del governo di Vladimir Putin. Dal punto di vista commerciale, aveva intravisto la possibilità di utilizzare il suo ruolo strategico nella regione come leva per il rapido ingresso della Russia nell’OMC e per la sua integrazione nell’Unione Europea. Dal punto di vista della politica interna, Putin spera di risolvere definitivamente la questione cecena per la quale ha già ricevuto carta bianca dall’imperialismo occidentale. Sul fronte della politica estera, i russi cercano di recuperare le posizioni strategiche perdute, e partecipare in modo subordinato, ma più attivo, alla creazione di un nuovo ordine mondiale [4].

Ma, sebbene Putin insistesse affinché l’utilizzo delle basi militari nell’Asia centrale fosse regolato dalla Comunità degli Stati Indipendenti, di cui la Russia fa parte insieme alle altre ex repubbliche sovietiche, gli Stati Uniti hanno stipulato accordi diretti con Uzbekistan e Tagikistan. Nonostante le ambizioni di Putin e l’interesse della Russia per lo scenario dell’Asia centrale, da cui si era allontanata dopo la sconfitta in Afghanistan, gli Stati Uniti scommettono sulla trasformazione dell’Uzbekistan in forza alleata regionale [5].

Una conseguenza di questo inaspettato avvicinamento tra Russia e Stati Uniti può essere la neutralizzazione di un altro potente avversario. Negli ultimi anni Russia e Cina erano andati avvicinandosi e avevano firmato, a luglio, il trattato russo-cinese di Buon Vicinato e Cooperazione Amichevole, contrastando gli interessi strategici degli Stati Uniti. L’interesse russo per l’Asia centrale può infastidire entrambi i Paesi, allontanando il pericolo che avrebbe rappresentato l’accordo politico e militare delle due potenze nucleari [6].

La seconda delle dimensioni segnalate da Cepik, quella della “scalata repressiva contro il terrorismo”, rivela la portata della politica imperialista. Definendo il terrorismo in una accezione ampia, si includono in quella categoria tutti gli Stati che si collocano ai margini del sistema di dominio imperialista, come pure tutti i movimenti di contestazione e opposizione ad esso. “Avversari asimmetrici”, nel gergo del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti. È una sezione fatta su misura per potervi includere il nemico occasionale.

5. Prospettive imperialiste e movimenti sociali

È toccato a Robert Zoellick, capo della delegazione degli Stati Uniti alla conferenza ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) prendere l’iniziativa e mettere in chiaro le cose. Nel discorso fatto due settimane dopo gli attentati, Zoellick ha affermato: “la scelta degli obiettivi del nostro nemico la Casa Bianca, il Pentagono e le World Trade Towers- evidenzia come il potere e la luce dell’America, emanate dalla nostra politica, sono la sicurezza e la vitalità economica. La nostra controffensiva dovrà confermare la leadership degli Stati Uniti su tutti questi fronti”. D’accordo con Zoellick, gli antichi nemici avevano già compreso che gli Stati Uniti erano “l’arsenale della democrazia”, adesso i nemici avrebbero conosciuto il potere economico nordamericano: “Forza economica -in casa e fuori- è la base del potere duro e duttile degli Stati Uniti. Inoltre, la leadership nordamericana è vitale per promuovere il sistema commerciale internazionale”. Il commercio, ha concluso Zellick, “è più che semplice efficienza economica. Promuove valori nel cuore di questa lunga lotta”  [7].

L’artiglieria pesante di Zoellick è stata diretta anche contro il movimento antiglobalizzazione. Nel suo discorso ha affermato che, essendo i terroristi contrari alle idee difese dagli Stati Uniti, è naturale supporre che avessero legami “con chi ha utilizzato la violenza per attaccare la finanza internazionale, la globalizzazione e gli Stait Uniti”. Minacciosamente ha affermato, “Questo presidente (George W. Bush) e questa amministrazione lotteranno per i mercati aperti e il libero commercio. Non ci faremo intimidire da chi ha preso di mira il commercio - e gli Stati Uniti- accusandoli dei mali del mondo” [8].

Il rappresentante nordamericano a Doha non è stato l’unico ad attaccare i movimenti antiglobalizzazione. Greenspan, nel discorso tenuto all’Istituto Internazionale di Economia, si è dedicato a confutare le argomentazioni dei movimenti sociali, concludendo poi che “la globalizzazione è un sistema che può disseminare nel mondo i valori della libertà e del vivere civile, l’antitesi del terrorismo” [9]. Il falso legame, costruito da Greenspan, tra globalizzazione e libertà, trova la sua contropartita in quello stabilito tra resistenze contro la globalizzazione e terrorismo.

L’eco della dichiarazione di guerra contro i movimenti antiglobalizzazione è arrivata anche in Brasile. Gustavo Franco, che quando era presidente della Banca Centrale rimise il controllo della politica monetaria alla Federal Riserve, ha sintetizzato la polemica in poche righe: “Il terrorismo è forse il prodotto più radicale del brodo della cultura antiglobalizzazione? Forse un pretesto sbagliato da parte degli esclusi quanto i metodi di lotta? O una barbarie perpetrata da un gruppo di pazzi? Indipendentemente dalle azioni del presidente Bush, l’attentato deve farci riflettere sui limiti dell’azione politica e sulla strana “libertà di saccheggiare” di chi sfrutta i movimenti antiglobalizzazione” [10].

La guerra commerciale dà luogo alla guerra di fatto. Alla conferenza dell’OMC gli Stati Uniti hanno posto sul tavolo delle negoziazioni le proprie armi. Il messaggio è brutalmente diretto: chi non fosse stato d’accordo con le loro indicazioni economiche avrebbe dovuto fare i conti con le conseguenze. È il paradosso del capitalismo nella sua fase imperialista. Lo sfruttamento della forza lavoro impera e l’espropriazione di ciò che più serve al proprio processo produttivo, cioè ciò che definisce il capitalismo stesso, cedono gradualmente il posto al lavoro compulso e a meccanismi di appropriazione extra economica. Invece di andare “oltre la storia”, l’imperialismo ci porta oltre il presente.

L’idea che la mondializzazione del capitale aveva messo sotto scacco lo Stato-nazione, non ha fatto meno rumore. Si deve ricordare che anche la sinistra si era avvicinata a questa idea. Eric Hobsbawm, ad esempio, è arrivato ad affermare che “il mondo più conveniente per i giganti delle multinazionali, è quello degli Stati nani, o quello dell’assenza dello Stato”  [11]. Il mondo più adatto al potere delle multinazionali è quello in cui l’egemonia è ingoiata dalla coercizione, l’ordine economico è nascosto dal potere militare e politico degli Stati. “Microsoft o Goldman Sachs non potranno inviare portaerei o F16 nel Golfo per inseguire Osama bin Laden; soltanto i militari potranno”, ha affermato, a ragione, Francio Fukuyama , dopo essersi svegliato, insieme ad Alan Greenspam, dal sogno di “fine della storia” [12].

L’egemonia affermata dalla politica estera degli Stati Uniti è molto lontana dal rappresentare una rinnovata capacità di direzione politica e ideologica. Piuttosto si afferma, essenzialmente, con la coercizione. È iniziato così il processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale che non riesce a trovare il suo punto di equilibrio. E non potrà mai trovarlo. Avendo come presupposto la unilateralità del più forte, è incapace di creare un consenso spontaneo costruito sulla base degli accordi e delle concessioni, come chiede la socialdemocrazia europea. Nell’ordine del capitale, l’idea di piena egemonia, egemonia nel senso gramsciano del termine, di direzione etico-politica, è fuori luogo. Sarebbe più giusto parlare di una rivoluzione passiva permanente, ossia, di un processo continuo di costruzione di un ordine mondiale non inclusivo, in cui l’uso della forza si collega alla corruzione e la frode all’obiettivo di spaccare e frammentare chiunque gli si opponga.

La sfida della sinistra è quella di scomporre questa rivoluzione passiva. Impedire la costruzione di quella riconfigurazione economica, politica e geografica del mondo, sostenuta dai crociati del neoliberismo. Contrapporre alla politica globale dell’imperialismo la politica mondiale degli sfruttati. Impedire che il nuovo secolo inizi peggio di come è terminato il secolo precedente. Una sconfitta degli Stati Uniti e dei suoi alleati è la chiave per tutto questo.


[1] George Manbiot, “The need for dissent”, in The Guardian, 18.09.2001

[2] Marco Cepik, “Contra-terrorismo como guerra de coalizão: riscos sistêmicos”, in Conjuntura Politica, n. 30, sett. 2001, disponibile su: http://cevep.ufmg.br/bacp/030/02-wtc.htm

[3] José Miguel Martins, “O terror e a ‘justiça infinita’. Realinhamentos internacionais e o novo alcanne da coerção extra-econômica”, in Conjuntura Politica, n. 30, nov. 2001, disponibile su: http://cevep.ufmg.br/bacp/031/07.htm

[i] Quadrennial Defense Review 2001, op. cit., p. 4

[4] “Suddenly, such good neighbours”, in The Economist, 10.11.2001 e “From evil empire to strategically”, in Business Week, 12.11.2001

[5] Nina Bachkatov, “Porquai Moscou a saisi la balle au bond”, in Le Monde Diplomatique, nov. 2001, p. 14.

[6] Marco Cepik, op. cit., e José Miguel Martins, op. cit.

[7] Robert B. Zoellick, American trade leadership: what is at stake?, Washington D. C., The Washington International Trade Association/The National Policy Association, 25.09.2001, disponibile su: www.npal.org/aid/zoellick.asp

[8] Idem

[9] Alan Greenspan, “A globalização pode semear pelo mundo valores da libertade, antitese do terrorismo”, in O Estrado de S. Pailo, 28.10.2001

[10] Gustavo Franco, “Terror e (anti)globalização”, in O Estrado de S. Paulo, 16.09.2001

[11] Eric Hobsbawm, op.cit., p. 276. A questo riguardo si veda anche la ben articolata critica di Leo Panitch, “The new imperial State”, in new Left Review, n. 2 (second series), mar. 2000.

[12] Francio Fukuyama, “Francio Fukuyama says Tuesday’s attack marks the end of ‘America’s exceptionalism’“, in Financial Times, 15.09.2001