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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è. Lavoro precario o lavoro vero?
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

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Analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è. Lavoro precario o lavoro vero?

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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I lavoratori interinali (nel 2002 rappresentano circa il 5% dei lavoratori atipici) sono di solito giovani, in quanto risulta da dati del Ministero del Lavoro che il 30,7% è al di sotto dei 25 anni e il 30,8% ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni. (Cfr. Tav. 1) [1]. Sempre fra i lavoratori atipici vanno considerati gli LSU (al 2002 sono l’1,7% degli atipici), i contratti a tempo determinato (il 18,7% degli atipici) e i PIP (Piani di Inserimento Professionale, che sono circa lo 0,3% degli atipici).

La presenza di tutte queste nuove forme di lavoro non si è accompagnata alla determinazione di nuove risorse economiche e nuovi investimenti produttivi tendenti a diminuire la disoccupazione né tanto meno a una nuova politica di welfare, in grado di assicurare adeguate coperture a tutti i lavoratori caratterizzati da lavoro discontinuo, precario e che si trovano quindi in una situazione di estremo disagio e di incertezza.

L’ISTAT nel rapporto per l’anno 2002 registra una crescita dell’occupazione (1996-2002 crescita media annua +1,2%) con un aumento maggiore del lavoro standard (+2,4%, a fronte del 2,1% del quinquennio precedente) ed una sostanziale stabilità dell’occupazione atipica (+2,1%). Per quanto riguarda invece la disoccupazione, a fronte di un tasso medio nell’UE del 7,4%, nel nostro Paese si è registrato un valore pari al 9,6% con valori molto più alti per le donne (13,1%). Sempre nel rapporto ISTAT si legge che i lavoratori “atipici”, arrivano a circa 5 milioni.

Sorprendenti i dati sugli interinali: a parte la crescita esponenziale delle missioni (+230% dal ‘99 al 2001), risulta che il 50% di loro lavora meno di 26 giorni all’anno, mentre il 7% un solo giorno. È cresciuto anche il ricorso al lavoro irregolare: dell’8,9% dal 1995 al 2000, attestandosi a un tasso del 15%. La regione dove il lavoro è più “pulito” risulta l’Emilia Romagna, quella con la percentuale più alta di irregolari la Calabria.

L’ultima rilevazione trimestrale Istat, riferita al periodo gennaio 2003, evidenzia un marcato rallentamento della crescita dell’occupazione nella seconda parte del 2002, e persino una riduzione per il Mezzogiorno.

Va rilevato, inoltre, che in aggiunta all’aumento del lavoro atipico si è avuto un mutamento nella combinazione demografica della disoccupazione in quanto negli anni tra il 1993 ed il 2002 i lavoratori adulti, ossia quelli con oltre 30 anni, in cerca di occupazione sono aumentati dal 34,7% al 49, 5%, mentre i lavoratori tra i 30 ed i 39 anni in cerca di occupazione sono aumentati dal 19,5% al 27,4%. Le maggiori difficoltà sono oggi incontrate da persone adulte che spesso si trovano in fasi di discontinuità lavorativa.

In sostanza, se si analizza l’evoluzione del lavoro atipico si può sostenere che dopo l’introduzione del Pacchetto Treu vi sia stato un periodo di utilizzo “entusiastico” di tali forme di occupazione da parte delle imprese che però hanno poi restaurato un cosiddetto equilibrio fisiologico tra forme di lavoro tipiche ed atipiche.

Comunque il nostro Paese si attesta su valori alti rispetto a quelli degli altri paesi europei per quanto riguarda l’occupazione temporanea (Italia 10,1%, Danimarca 10,2%, il Regno Unito 6,7%, l’Irlanda 4,7%, l’Austria 7,9% e Belgio 9,0%). Il lavoro part-time risulta invece essere più basso rispetto alla media europea (Italia 8,8% e 18% media europea) [2]. Va inoltre evidenziato che in Italia ci sono quasi 2 milioni di lavoratori “parasubordinati” e quasi cinque milioni di irregolari.

Si pensi inoltre che i circa 6 milioni di lavoratori atipici, che rappresentano al 2002 circa il 27% del totale occupati, sono destinati ad aumentare; infatti le previsioni parlano per fine 2003 di oltre il 30% degli occupati (nel 2002 non erano neppure il 20%). Inoltre il lavoro atipico comporta i più alti rischi di incidenti e di malattie professionali e il tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro dei lavoratori temporanei è almeno tre volte più alto di quello dei lavoratori stabili e permanenti.

Alcune considerazioni: lavoro atipico, vita precaria!

Oggi la disoccupazione è accompagnata da una precarizzazione con sfruttamento crescente dei salariati che restano in attività. Il padronato fa del tempo di lavoro un elemento essenziale del supersfruttamento dei salari e della ridefinizione della società a partire dall’impresa, con la sua centralità anche nel vivere sociale.

I giovani, le donne, i dipendenti con mansioni meno specialistiche sono i più duramente colpiti. La riduzione dei posti di lavoro comincia a pari passo con lo sviluppo tecnologico il quale apporta plusvalore, sempre maggiore, che viene accaparrato dalle rendite finanziarie e comunque con incrementi di produttività che vanno solo a profitto e che non vengono redistribuiti in alcun modo al fattore lavoro.

Anche se si analizza il settore del lavoro regolamentato (quindi con una significativa presenza sindacale) ci si accorge che poi in realtà la differenza tra orario contrattuale e orario di fatto è molto aumentata, grande è la differenza fra diritti disciplinati per legge e diritti applicati realmente . La precarietà del diritto è una norma, così come la precarietà del salario e delle condizioni di lavoro.

Molti studi attuati sia in Europa sia negli Stati Uniti hanno evidenziato come negli ultimi decenni il problema delle “Nuove povertà” sia da imputarsi non tanto e non solo a coloro che non dispongono di un reddito o di un lavoro regolare e regolamentato ma anche e soprattutto a coloro che pur lavorando non riescono ad avere certezze dei diritti e a raggiungere una soglia minima di reddito in grado di garantire loro un adeguato livello di vita.

Anche per quanto riguarda la disoccupazione giovanile sono molti i “Rapporti di studio” che evidenziano la grave carenza di lavoro per i giovani e cosa ancora peggiore il prolungamento del periodo di precarietà fino ad oltre i 30 anni.

Da queste analisi emerge che ci troviamo in una fase di transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati ben chiari all’interno della competizione globale. Si ha un aumento della produzione dei servizi su quella dei beni materiali, ma ciò avviene soprattutto con processi di esternalizzazione dei servizi e di fasi del processo produttivo a basso valore aggiunto basati su un supersfruttamento del lavoro. Un lavoro spesso attinto attraverso processi di delocalizzazione internazionali alla ricerca di forme di lavoro a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario; a ciò si accompagnata una forte presenza di lavori intellettuali e tecnico professionali spesso precarizzati come quelli manuali e ripetitivi.

Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere e nell’interagire dei nuovi soggetti produttivi e sociali in genere, e ciò non è possibile leggerlo e interpretarlo solo attraverso analisi ancora basate sulla centralità operaia e di fabbrica e su un ruolo dello Stato ormai superato. Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati, i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati, perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale.

Un nuovo ciclo del capitalismo, un nuovo modello che a fianco all’espulsione di manodopera, alla disoccupazione che si fa strutturale, alla disoccupazione invisibile, al lavoro sommerso, nero e sottopagato, alla precarizzazione e flessibilità, crea nel contempo gli ammortizzatori del conflitto sociale attraverso le alte retribuzioni agli operai specializzati, sviluppa una aristocrazia salariata che si fa compartecipe e soggetto cogestionale. Si vengono così a realizzare false forme di democrazia economica e industriale attraverso meccanismi controllati e funzionali di cogestione, creando in modo funzionale al nuovo assetto produttivo il mito del “fai da te”, dell’autoimprenditorialità che altro non è che nuova forma del lavoro salariato.

Si giunge così a meglio comprendere perché gli assetti attuali dell’economia capitalista determinano il riposizionamento sociale di impresa in una fase di profonda ristrutturazione per effetto del quale si riduce e non aumenta, come da una lettura superficiale potrebbe sembrare, la misura del tessuto reale imprenditoriale, anzi aumentano le diverse forme del lavoro salariato, palesi o occulte, si selezionano i soggetti più deboli, meno funzionali e compatibili, e meno consolidati, si ridisegnano i modelli relazionali sociali tra le aziende e il territorio con un tendenziale rafforzamento delle logiche di darwinismo sociale. In tale contesto si osserva una prevalenza delle scelte tipiche del capitalismo selvaggio dove chi non si integra è espulso, è schiacciato dalle leggi ferree di un mercato sempre più selettivo.

Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario e precario. Nuove attività produttive che generano, e forzano nello stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società e di accumulazione del capitale.

L’attuale questione economico-sociale del lavoro non è solamente connessa alla disoccupazione sempre più a carattere strutturale, bensì riguarda una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi delle nuove figure del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro, figure comunque tutte interne a sempre lo stesso modo di produzione capitalistico. Il problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie, non tutelate, con salario sociale assoluto, e anche relativo al singolo lavoratore, sempre minore e con alti livelli di mobilità e intermittenza.

Siamo oggi davanti a una molteplicità di prestazioni lavorative tra loro diverse che però si caratterizzano per un comune livello di sfruttamento molto più penetrante di quello di venti o trenta anni fa; la nuova divisione del lavoro fa sì che vi sia una nuova composizione dei lavoratori stessi distinti tra specializzati e con maggiore conoscenza (che occupano lavori con elevata attività cognitiva), lavoratori specializzati in attività tecniche (che occupano posti flessibili di tipo esecutivo) e infine lavoratori con poche specializzazioni che occupano i posti più degradanti e servili.

Tuttavia, le tendenze attuali, con l’aumento del numero dei lavoratori salariati impegnati al di fuori della produzione materiale propriamente detta, l’aumento del numero degli impiegati, dei flessibili, dei precari, dei temporanei, degli atipici in genere, l’incremento del tasso del lavoro intellettuale, o del finto lavoratore autonomo, nella composizione dell’ “operaio collettivo”, sono ben lungi da testimoniare la “deproletarizzazione” della classe operaia, o della classe lavoratrice in genere.

L’analisi va, quindi, riportata sul piano delle nuove relazioni industriali. Si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi produttivi locali basati sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei ritmi, sull’elevata divisione del lavoro, sulla spinta alla specializzazione produttiva; sulla molteplicità dei soggetti economici, di nuovi soggetti del mondo del lavoro; sulla diffusa professionalità dei lavoratori accompagnata, per i lavori più miseri, da commesse esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti faccia a faccia senza intermediazioni sindacali.

Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni che nascono dalla continua interazione del nuovo terziario postfordista con il resto del sistema produttivo, con tutto il territorio proprio perché si tratta di trasformazioni nate dall’esigenza di ridefinizione produttiva e sociale del capitale. Per poter essere lette sono pertanto necessarie analisi fortemente disaggregate della distribuzione localizzativa delle attività da confrontare con una lettura territoriale, più squisitamente sociale e politico-economica. Le nuove figure del mercato del lavoro, i nuovi fenomeni imprenditoriali sempre più spesso si configurano in forme occulte comunque di lavoro salariato, lavoro subordinato, precarizzato, non garantito, di lavoro autonomo di ultima generazione che maschera la cruda realtà dell’espulsione dal ciclo produttivo; si tratta di nuova emarginazione sociale altro che autoimprenditorialità!

Nonostante vi siano state trasformazioni nei metodi di produzione, la crescita del lavoro autonomo, precario, sottopagato, e una sempre più vasta diffusione della fabbrica nel territorio, il lavoro continua ad essere al centro del sistema produttivo ed è quindi ancora e sempre alla classe lavoratrice che bisogna rivolgere l’attenzione per poter cercare di attuare “un altro mondo possibile!”.


[1] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche... op. cit.

[2] Eurostat, Labour Force Survey, 2000