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L’analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Lavoro flessibile, lavoro che cambia, lavoro “tipicamente” atipico

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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1. Un cenno storico alle trasformazioni del lavoro. La nuova frontiera: il lavoro precario a vita

Il cambiamento di culture, schemi intellettuali e convinzioni politiche, è legato ai processi economico-produttivi e al connesso sviluppo socio-politico ed economico; si modificano così continuamente i modelli di vita a partire dalle determinazioni del rapporto di forza del conflitto capitale-lavoro.

Dal secondo dopoguerra, lo sviluppo tecnologico ha provocato forti cambiamenti sia nel metodo di produzione, sia, più direttamente, nel mondo del lavoro. L’industria è stata trasformata, le macchine, nate per migliorare la produttività lavorativa degli operai nei processi ripetitivi hanno in realtà aumentato i ritmi e i carichi dei lavoratori senza determinare pari incrementi di salario reale né corrispondenti riduzioni dell’orario di lavoro.

Si è avuto poi un altro importante cambiamento: si è passati dalla grande industria che accentrava al suo interno tutti i processi produttivi, ad un modello di decentramento produttivo.

Dal punto di vista dei lavoratori, l’informatizzazione, oltre a provocare disoccupazione strutturale, ha dequalificato il lavoro già esistente, rendendo ormai “tipico” il lavoro cosiddetto atipico a forte contenuto di precarietà.

La messa diretta a produzione dell’informazione, la conoscenza, la creatività e delle risorse in genere del capitale intangibile offrono uno spunto al dibattito tra economisti, sociologi, politici e uomini di cultura, sulle conseguenze della nuova rivoluzione: toglierà lavoro, o piuttosto ne produrrà di nuovo e di che tipo?

Jeremy Rifkin sostiene: “Entro il prossimo secolo, il lavoro di massa nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni” [1].

Ma è nostra opinione che il lavoro non è finito, sta solo cambiando all’interno delle nuove regole della società salariale dell’era postfordista.

Ma quale costi dovranno pagare il lavoratori per questo cambiamento, sui loro salari, sulle garanzie, sui diritti? Saranno coinvolti in un processo di ristrutturazione d’impresa che li trasformerà in “un esercito di riserva senza occupazione che gode del “tempo libero” in via obbligata?” [2].

Ma per comprendere fino in fondo la fase politico-economica in cui stiamo vivendo è necessario analizzare i nuovi processi di accumulazione e la nuova rigidità del mercato del lavoro e non affidarsi a semplici e irreali proclami.

Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale degli ultimi 25 anni nei paesi a capitalismo maturo è stato, infatti, contraddistinto quasi sempre e, anche se in modo diversificato, ovunque da un forte aumento della produttività del lavoro, a cui è corrisposto un risparmio di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività, dovuta ad intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, hanno fatto sì che tali incrementi si traducessero esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi di produttività. Infatti, non si è realizzato incremento occupazionale, né corrispondenti incrementi nell’andamento dei salari reali, né tanto meno relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed, infine, neppure il mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva.

La fase della cosiddetta nuova globalizzazione, cioè l’attuale processo di mondializzazione capitalista, ha significato, quindi, dominio delle Borse e della finanziarizzazione dell’economia, in conflitto con qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ostacolando la libertà di scelta e allargamento dei diritti sindacali e universali. Questo concretamente è il concetto di modernità del capitalismo selvaggio anche se si tenta di plasmarlo su toni più moderati ed equilibrati con irreali ipotesi di mercato sociale.

Si ricorda che negli anni ’80 si è avuto un sostanziale cambiamento nella durata dei cicli economici che, mentre nel periodo seguito alla seconda guerra mondiale duravano circa cinque anni, dal 1980 in poi si caratterizzano per una distanza di 10 anni, anche se la ripresa economica nel senso di vera e propria espansione ha poi stentato a realizzarsi. Al contempo si è cercato così di “snellire” le imprese pubbliche e private per attuare una “produzione snella”.

Si determina così l’accentuarsi delle disuguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo maturo. A ciò continua ad accompagnarsi la marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più intensa.

La mancata ripresa dell’economia, soprattutto dagli anni ’90 in poi, è anche dovuta alla contrazione della domanda dovuta sempre più all’estrema disuguaglianza economica e sociale, allargando la forbice di condizioni tra ricchi e poveri. Si tratta di una ulteriore prova del fallimento del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le distanze esistenti tra le classi sociali.

Oggi siamo in una fase di transizione dal fordismo al cosiddetto postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di sistemi di produzione alla distribuzione flessibile. Si sono avuti in questi ultimi anni sempre più licenziamenti, che hanno portato a picchi sempre più alti di disoccupazione a carattere strutturale. Tutto questo anche perché le imprese per diminuire il peso degli oneri sociali, ritenuti responsabili del costo del lavoro eccessivo hanno cominciato ad utilizzare il cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di interi processi produttivi per aumentare l’efficienza e la produttività dell’impresa e diminuire i costi.

Domina, quindi, la produzione snella che assicura direttamente risultati, profitti mentre tutto il resto viene affidato all’esterno, le imprese tendono sempre più a limitare costi superflui e accumulare scorte eccessive in una sorta di produzione in tempo reale, sempre più flessibile. “In sostanza a differenza della produzione fordista, in cui tempi e modi di produzione erano programmati, nell’epoca postfordista tutto è affidato alle occasioni che il mercato offre. Nella produzione snella, la comunicazione, il flusso di informazioni accedono direttamente nel processo produttivo: comunicazione e produzione si fanno coincidere. Il programma di produzione è impostato a partire dalle esigenze del mercato. La delocalizzazione, la frammentazione e la dispersione dei luoghi fisici della produzione non implicano affatto una diminuzione del potere della grande impresa capitalistica. Essa continua, proprio grazie alle concentrazioni finanziarie e al downsizing (dimagrimento), a mantenere il suo potere”. [3]

Si realizzano così le filiere produttive nazionali ma anche internazionali, alla ricerca di luoghi produttivi in cui il fattore lavoro è specializzato ma bassi sono i suoi costi e le garanzie sindacali.

Vi è poi una ulteriore diversità tra il modo di lavorare fordista e postfordista ed è nella composizione, nella forma e nel modo di organizzare la forza lavoro. Mentre nel sistema fordista era necessaria una forza lavoro specializzata, e abituata al lavoro sempre uguale nel sistema postfordista ci si trova davanti ad una richiesta di forza lavoro con alto grado di adattabilità ai mutamenti di ritmo, di mansione e che sappia essere al passo con il mercato. La nascita della forza lavoro precaria ha messo in crisi la visione fondata sul tempo di lavoro formale piuttosto che sul tempo di produzione reale.

Tutto ciò porta alla diversa impostazione dei diritti sociali dei lavoratori che nel sistema fordista avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre nel sistema postfordista sono le leggi del mercato a comandare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale e il lavoro diventa sempre più costrittivo e senza garanzie. Oggi i lavori si svolgono sempre più nell’ambito delle relazioni interpersonali.

L’attuale crisi di credibilità degli indicatori economici classici adottati dalla Statistica Economica rivela l’insufficienza della scienza economica nell’analisi della trasformazione in atto. La diffusione del postfordismo impone oltre che nuovi modelli e misurazioni economiche anche una nuova ridefinizione delle relazioni industriali e del rapporto capitale-lavoro con un ritorno ad un ruolo centrale dello Stato e del suo rapporto con il mercato. Centralità quindi di una funzione non solo di mediazione ma fortemente interventista dello Stato, mentre invece gli economisti della globalizzazione sottolineano che lo Stato sociale inteso sia come ridistributore di reddito attraverso la fiscalità, sia come creatore di redditi, rappresenta per il capitalista postfordista un fattore di disturbo da eliminare.

Parlare attualmente di era postfordista non significa che non sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi l’attuale era socio-economica produttiva è caratterizzata per la compresenza di strutture, soggetti, funzioni prefordiste, fordiste e postfordiste con compiti diversi nelle diverse localizzazioni produttive e nelle diverse fasi della catena del valore.

È in tale quadro storico politico-economico che vanno interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul paradigma dell’accumulazione flessibile. Caratteristiche che comunque si possono schematizzare con: una specializzazione flessibile, la volatilità dei mercati, la riduzione sostanziale della funzione di regolazione economica dello Stato-nazione e l’individualizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro con un forte abbattimento dei costi del lavoro.

2. L’accumulazione flessibile a partire dal lavoro flessibile e precario

A questo proposito va ricordato che Ford razionalizzando le vecchie tecnologie e la preesistente divisione del lavoro e facendo scorrere il processo produttivo davanti agli operai che rimanevano fermi nello stesso posto ottenne elevati incrementi della produttività. Il sistema fordista si instaurò dopo un processo lungo e complicato durato quasi mezzo secolo anche perché uno degli ostacoli da superare era rappresentato dalle modalità e dai meccanismi degli interventi statali.

La diffusione internazionale del fordismo si verificò in una particolare cornice storica e politico-economica nella quale gli Stati Uniti avevano una posizione dominante dovuta alle alleanze militari e ai rapporti di potere.

Il mercato del lavoro si divideva in un settore di “monopolio” e in un settore “competitivo”, molto diverso, in cui i lavoratori erano molto svantaggiati. Lo Stato allora doveva cercare di garantire un minimo di benessere sociale a tutti, e cercare di trasmettere a tutti i benefici del fordismo assicurando soprattutto assistenza sanitaria adeguata, casa e istruzione.

Gli insuccessi che si ebbero in questo ambito produssero una seria crisi del sistema; così iniziarono una serie di nuove sperimentazioni sia sul piano dell’organizzazione industriale che su quello della vita politica e sociale e ovviamente sulla composizione e le dinamiche del mercato del lavoro. Si è trattato del graduale passaggio a un regime di accumulazione del tutto nuovo, accompagnato a un sistema completamente diverso di regolazione politica e sociale.

Si parla allora di accumulazione flessibile, contraddistinta da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Un dominio sociale complessivo che si basa su una determinata flessibilità nei confronti dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo. In questo senso nascono settori di produzione del tutto nuovi, nuovi modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e, principalmente, da tassi molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologia e organizzativa.

L’accelerazione del ciclo di produzione implica una parallela accelerazione negli scambi e nel consumo; la flessibilità è governata dalla finzione, dalla fantasia, dall’immaterialità,dal capitale fittizio, dalle immagini, dall’effimero, dal caso, dalla flessibilità nelle tecniche di produzione, nei mercati del lavoro e nelle nicchie di consumo.

Questo processo di accumulazione flessibile ha portato a una crescita molto elevata nel “settore dei servizi” ed al contempo ha avuto come conseguenza principale la crescita a dismisura dei livelli di disoccupazione “strutturale”, caratterizzata anche da aumenti salariali nulli in termini reali accompagnati da un sempre minore potere sindacale cha aveva caratterizzato il regime fordista.

Il passaggio ad un sistema di l’accumulazione flessibile ha portato alla nascita di nuove forme organizzative e nuove tecnologie di produzione. L’accelerazione della produzione della disintegrazione verticale - il subappalto, il ricorso a fonti esterne, e così via - hanno rovesciare la tendenza fordista all’integrazione verticale e determinando un decentramento della produzione anche in presenza di una crescente centralizzazione finanziaria.

Altri cambiamenti nell’organizzazione - come il sistema di gestione del magazzino just-in-time che diminuisce il volume delle scorte - uniti alle nuove tecnologie di controllo elettronico, produzione in piccole quantità hanno diminuito i tempi del ciclo produttivo in molti settori. Per il lavoratori questo ha avuto come conseguenza una velocizzazione dei processi produttivi e dei ritmi di sfruttamento con una conseguente dequalificazione e riqualificazione necessari per soddisfare le nuove esigenze del lavoro.

Nel mercato del lavoro questo ha portato ad una trasformazione con la nascita e lo sviluppo di regimi di lavoro e contratti di lavoro molto più flessibili.

La transizione dal fordismo all’accumulazione flessibile ha posto serie difficoltà alle teorie di ogni tipo.

Oggi, comunque, il cosiddetto modello postfordista tipico dell’area centrale dei paesi a capitalismo avanzato convive con un modello ancora fordista della periferia e addirittura con modelli schiavistici dei paesi dell’estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro nei paesi a capitalismo avanzato). Tutto ciò perché oggi convivono le diverse facce di uno stesso modo di produzione capitalistico, anche se lo si vuole identificare come l’era della “New e Net Economy” e del paradigma dell’accumulazione flessibile. È comunque una fase in cui si accentua crescita distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di civiltà.

Vi è una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato, a flessibilità imposta e precarizzazione del lavoro e dell’intero vivere sociale, a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie che ne permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità prodotta e prezzo (elementi tipici del fordismo).

E a questo proposito scrive Bennet Harrison nel suo libro “Agile e Snella” (1998) “Tutto ciò determina un inasprimento delle sperequazioni, poiché due persone che lavorano fianco a fianco possono avere eguale competenza, ma una otterrà un lavoro a tempo pieno, mentre l’altra passerà da un lavoro precario all’altro” [4].

Nella transizione dal fordismo al postfordismo il lavoro cambia, sia nella sua forma di lavoro dipendente, sia nella forma del lavoro autonomo ma sempre all’interno delle diverse forme del lavoro salariato.

Le possibilità connesse al lavoro o alla mancanza di lavoro e i modi in cui vengono affrontati i rischi ad esso connesso sono diversi e quindi cambiano o vengono a mancare il welfare universalistico, la solidarietà, ecc. Ci si trova in una situazione in cui la disponibilità al precariato diventa fondamentale, sia per l’entrata e la stabilità intermittente nel mondo del lavoro dipendente e indipendente.

Le figure del lavoro tradizionali sono inserite oggi in un mondo caratterizzato dalla flessibilità.

“Il diamante del lavoro, che aveva tre facce che riflettevano luce a varia intensità, il lavoro salariato e normato, il lavoro autonomo e le professioni libere, si è scheggiato in una molteplicità di schegge dove più che le forme di cui si è al lavoro conta quanto si è nomadi lungo il ciclo produttivo e quanto si è multiattivi, cioè disponibili a più attività lungo l’arco della propria esistenza. Questo vale sia per chi è fuori nel ciclo della subfornitura, sia per chi è nel sottoscala del lavoro sommerso, che per i tanti al lavoro nella rete dei servizi” [5].

La parcellizzazione del lavoro ha modificato la vecchia concezione dell’impresa fordista ed ha ridotto il lavoro salariato con la nascita di nuove figure professionali, che svolgono i propri lavoro dentro e fuori l’impresa.


[1] Cfr. Rifkin J., in particolare su questo argomento si veda il suo “Fine del lavoro”.

[2] Cfr. Rifkin J., anche sulle nuove frontiere socio-economiche della società informatizzata.

[3] Cfr. J. C. Barbier, H.Nadel, La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, 2002, Roma.

[4] Su tali argomenti si veda anche il precedente nostro articolo su PROTEO n. 1/2003.

[5] Cfr.Cnel: Rapporto “Postfordismo e nuova composizione sociale”, Documenti CNEL, Roma 2000, pag. 34