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L’analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è

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Vivian Aranha Saboia
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Profess. Facoltà Scienze Economiche all’Universidade Federal do Maranhão (UFMA), DEA in Economia all’Università di Parigi 8 - Vincennes Saint-Denis in Sociologia all’Università di Parigi 8

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Flessibilità, precarietà dell’impiego femminile nella “nuova” società salariale (un paragone tra Francia e Brasile negli anni ’90)

Vivian Aranha Saboia

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5. La nuova società salariale: la società della flessibilità e della “possibilità” d’impiego

Il nuovo regime di crescita ha provocato una serie di cambiamenti nei rapporti salariali, al punto tale da poter parlare di una “nuova” società salariale.

Nella società salariale post-fordista (e nella nuova mondializzazione), la sussistenza del lavoratore smette di essere un problema comune all’impiegato, al datore di lavoro e allo Stato. In verità il pensionamento per ripartizione è minacciato dal pensionamento capitalizzato (poiché incerto), nel quale il lavoratore diventa l’unico responsabile della sua rendita futura (al momento del suo pensionamento). L’impiego stabile è minacciato dall’impiego precario e la remunerazione fissa da quella variabile (fisso più rendimento). In questo contesto le politiche riformiste applicano l’idea secondo la quale “[...] la società del pieno impiego non sarà una società senza disoccupazione, ma sarà una società dove la disoccupazione non duri” [PISANI-FERRY, 2000: 61], sebbene anche questa costituisca un rischio per i lavoratori [1].

Pertanto la nuova società salariale è segnata dalla forte supremazia del capitale sul lavoro. Questa è caratterizzata dalla flessibilità dell’impiego e del lavoro che induce anche ad un ribasso dei salari attraverso l’individualizzazione e la flessibilità. In altri termini, i salari diventano sempre più il principale margine di manovra di fronte alla concorrenza intercapitalista caratterizzandosi così come un “[...] cambiamento radicale: al principio civile e fondamentale della garanzia di sussistenza, si sostituisce la condizione di rischio esistenziale e di precarietà” [FUMAGALLI, in AZAIS et al., 2001: 124]. Nel nuovo regime d’accumulazione, i lavoratori sono ancor più soggetti ai rischi d’impresa, poiché il loro potere di negoziazione s’indebolisce. In questa maniera,

da un lato la solidarietà sociale scompare a causa del funzionamento dell’impresa nella rete, che manda all’esterno una parte crescente della sua produzione, e dell’aumento dell’individualismo: come conseguenza, il potere di negoziazione collettivo dei lavoratori è ridotto. Questa fluidità indebolisce il potere sindacale [...] Aldilà di ciò, con una logica azionista, i lavoratori diventano i soci più deboli del trio azionisti/dirigenti/salariati [...] In fase di rallentamento congiunturale, la massa di salariati costituisce la variabile principale d’aggiustamento a disposizione dei dirigenti per assicurare la costanza delle performance dell’impresa” [PLIHON, 2001: 93].

Gli aggiustamenti implementati dai dirigenti-imprenditori avvengono, nella pratica, con il sostegno delle politiche neoliberali che rendono flessibile l’impiego e contribuiscono alla formazione di una “nuova società salariale di tipo americano”. Questi aspetti innovatori esprimono di fatto, un cambiamento nella modalità di utilizzazione della forza lavoro da parte del capitale, sempre più contraddistinta dalla ricerca della flessibilità [BARBIER & NADEL, 2000]. In generale, nella società salariale post-fordista, la correlazione tra forze è talmente sfavorevole al lavoro, rispetto al capitale, che è difficile immaginare l’esistenza di un nuovo compromesso tra classi, del tipo che prevaleva durante la società salariale fordista. [BRUNHOFF, et al., 2001]

In questo nuovo quadro, la ripartizione dei “rischi” tipici della vita (salute, disoccupazione, invecchiamento, incidenti nel lavoro, ecc.) tra datore di lavoro, lavoratore e Stato è, di fronte agli importanti mutamenti nei rapporti salariali, continuamente minacciata. Ciò è vero nel momento in cui l’impiego e il diritto alla protezione sociale, che danno al lavoratore uno “statuto sociale che gli permette un’identità sociale” [BARBIER & NADEL, 2000: 21], sono resi instabili dalla flessibilità. Nel frattempo, l’intensità e la profondità di questi mutamenti dipendono dalla correlazione delle forze tra gli agenti sociali (sia per classe sia per sesso) che varia nel tempo e nello spazio.

È in questo contesto che, a partire dagli anni ’80 e ’90, si è avuto un considerevole progresso nell’impiego femminile. L’aumento e la diffusione delle politiche neoliberali hanno reso flessibile il mercato del lavoro ed accelerato l’aumento del lavoro “atipico” - o meglio precario - caratteristico della nuova società salariale. Di fatto, il progresso nell’impiego femminile avviene in un contesto caratterizzato dall’aumento e dalla diffusione della flessibilità nell’impiego, rafforzato dalle politiche pubbliche di gestione della forza lavoro implementate negli anni ’90 che incitavano al progresso materiale, indebolendo quello sociale (vedere riquadro I). Ciò implica un sorpasso della società salariale fordista e la costruzione di una nuova società salariale, nella quale la regolamentazione dell’impiego delle donne e il progresso nell’impiego femminile, non riducono le discriminazioni sociali proiettate anche nel mercato del lavoro.

6. Il luogo d’impiego femminile e la nuova società salariale

Secondo le statistiche ufficiali, l’aumento della partecipazione delle donne nel processo produttivo è stato proporzionalmente maggiore di quello degli uomini (fatta eccezione per l’Africa). Questo aumento, che avviene in maniera più o meno forte a secondo del paese, riflette una caratteristica importante della nuova società salariale post-fordista. Nel mondo questo progresso è stato accompagnato dalla creazione di una serie di misure e leggi riguardanti la promozione dell’impiego femminile e la parità tra i sessi nell’impiego. Nel frattempo l’universalità di queste norme - che è avvenuta attraverso gli orientamenti stabiliti dalle costituzioni e dagli organismi internazionali (come la OIL, ecc.) - non si è tradotta in pratiche ugualitarie all’interno del mercato del lavoro. Tanto nei paesi periferici come il Brasile, quanto in quelli centrali come la Francia, a causa della logica presente nel mercato del lavoro che governa le relazioni tra i soggetti economici, l’uguaglianza è stata conquistata solamente dal punto di vista formale, visto che la sua effettiva applicazione non si rivela evidente per la difficoltà nel praticare le punizioni previste sia a livello nazionale che internazionale. Aldilà di ciò, il Diritto del Lavoro rimane legato al tipo d’impiego offerto dal mercato del lavoro e non a persone individuali, comportando situazioni di dipendenza economica dal datore di lavoro. In effetti per arrivare ad un progresso sociale, il Diritto del Lavoro dovrebbe

“[...] esprimere un contratto d’attività tra la società e gli individui, invece di un contratto d’impiego. L’omogeneità dei diritti sociali su tutti i tipi d’attività sarebbe una sicurezza per le carriere femminili, la cui probabilità di non essere regolari è più forte di quella maschile” [AGLIETTA, in MAJNONI D’INTIGNANO, 1999: 64].

Così le pratiche di discriminazione continuano ad avere la supremazia sulle norme per la parità che riguardano gli uomini e le donne. Infatti esistono delle specificità nell’incompatibilità tra una legislazione ugualitaria e la pratica nei rapporti di scambio che discriminano le donne. In Francia e in Brasile, la specificità relativa all’impiego femminile e le politiche d’impiego post-fordiste si presentano nella seguente forma:

7. Brasile e Francia: le sfumature relative alla nuova società salariale

Lo sviluppo della nuova società salariale nei due paesi in questione avviene in maniera relativamente differente. A partire dagli anni ’80 avvengono alcune trasformazioni collegate all’implementazione di politiche neoliberali e tendenti alla globalizzazione - in particolare l’integrazione regionale, l’organizzazione di nuovi processi del lavoro e l’innovazione tecnologica. Questi cambiamenti hanno interessato paesi come il Brasile in maniera sfavorevole. Ciò è tanto evidente sia nella crisi del crescente indebitamento e della iperinflazione sia nelle difficoltà causate dai finanziamenti provenienti dall’estero. La soluzione a queste difficoltà è arrivata attraverso l’imposizione di alcune misure di risanamento dettate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Infatti,

in Brasile il processo di liberalizzazione finanziaria nei riguardi del capitale estero ha avuto inizio verso la metà del 1990. Tra queste misure bisogna evidenziare la flessibilità nell’uscita di capitali e nell’invio all’estero di utili e dividendi, l’apertura al capitale straniero delle operazioni di borsa e dei mercati del reddito fisso, l’eliminazione o la riduzione delle imposte sulle operazioni finanziarie, ecc. A confronto con il processo d’apertura commerciale, anch’esso avvenuto nello stesso periodo [...], la liberalizzazione finanziaria ha ottenuto risultati più immediati [...]” [COUTINHO, et al., in OIT & MTE-BRASIL, 1999: 65]

Nel frattempo, il processo con il quale nei paesi periferici si è evoluta la crisi del debito degli anni ’80 in direzione della globalizzazione finanziaria e commerciale dei primi anni ’90, o il fatto che questi sono passati dalla condizione di paesi “in via di sviluppo” a paesi “emergenti”, non ha escluso un’ineguale sviluppo. Questo è avvenuto in seguito ai seguenti fatti: da un lato la società mondiale ha creato un sistema che include omogeneità, gerarchia e differenziazione [LEFÈBVRE, 1980]. Dall’altro la globalizzazione non è andata oltre un sistema di contrapposizione del centro verso la periferia [AMIN, 1997]. In questa maniera, sin dalla fine degli anni ’40 a partire dalla particolare esperienza dell’America Latina, Raul Prebish ha dimostrato che

“[...] l’idea dell’armonia degli interessi promossa dalla concorrenza capitalista era ancor più fallace quando tradotta sul piano internazionale o delle nazioni, sottoforma di teoria dei vantaggi comparativi: lo sviluppo diseguale dell’economia mondiale, concepito in termini di rapporti centro/periferia, tendeva, al contrario a riprodursi e ad approfondirsi sotto l’egida del libero gioco delle forze del mercato” [MELLO, in TAVARES e FIORI, 1998: 15-16].

In sintesi, l’organizzazione del lavoro, il regime d’accumulazione e le regole inerenti al modello di sviluppo centrale sono penetrati nella periferia solamente in maniera parziale. Tanto la Francia quanto il Brasile presentano, secondo un approccio regolatore, caratteristiche, in termini di taylorismo, di keynesianismo e di fordismo, differenti le une dalle altre, poiché si collocano o nel centro o nella periferia del capitalismo. I due paesi seguono inoltre vie specifiche, per quanto riguarda i loro mercati, in direzione del post-fordismo. La frammentazione dell’insieme della forza lavoro nei due paesi (e particolarmente della forza lavoro femminile), acquisisce immediatamente proporzioni distinte secondo i quattro sottoinsiemi mostrati nel riquadro sotto. Nel post-fordismo, in tutti i casi, i primi formano un nucleo dell’esercito di riserva, ogni volta maggiore [Marx, 1976]. Questo riferimento permette di fare alcune distinzioni che riguardano gli aspetti essenziali della flessibilità esterna (inerente alla nuova società salariale), nei due paesi in questione. In questa maniera, si può partire dall’idea che il rapporto tra la flessibilità esterna e i sottoinsiemi della forza lavoro può essere reso esplicito secondo la tassonomia mostrata sotto.

8. Conclusione

Nella società salariale post-fordista e nell’attuale globalizzazione, la politica del lavoro in vigore nei due paesi qui considerati non cerca di garantire l’impiego come diritto universale (pieno impiego). La sua principale caratteristica è quella di offrire condizioni d’impiego in un contesto estremamente competitivo. Queste si traducono in politiche d’inserimento dei lavoratori attraverso la gestione pubblica delle indennità di ritorno all’impiego, invece di adottare politiche d’integrazione, con il risultato di accrescere la “nuova povertà” o il “neopauperismo” [NADEL, 1998; CASTEL: 1995]. In effetti, in Brasile ma soprattutto in Francia, i mutamenti favorevoli al capitale sono stati determinanti nelle attività statali di regolamentazione e di giurisdizione del settore dell’impiego femminile favorendone la sua prosperità e la libertà formale [MAJNONI D’INTIGNANO, 1999; TRONQUOY, 2001]. Nonostante il riposizionamento e il riequilibrio in corso del progresso quantitativo della forza lavoro femminile all’interno dell’impiego, non si ha alcuna riduzione delle discriminazioni nel mercato del lavoro [MARUANI, 2000]. In verità, i principali mezzi adottati dai governi francese e brasiliano durante gli anni ’90 (per quanto riguarda l’impiego), hanno un profondo ed intenso rapporto con la flessibilità del mercato del lavoro. Logicamente la separazione tra flessibilità esterna e flessibilità è possibile solamente per astratto, poiché tende a mettere in risalto un aspetto cruciale che fa parte di un argomento più complesso. Infatti la promozione delle donne e della parità dei sessi nell’impiego è inserita nel quadro più vasto dei rapporti salariali contemporanei, ossia della nuova società salariale post-fordista e della globalizzazione.

Sebbene nel periodo fordista predominasse una logica keynesiana, taylorista e fordista, dove la forza lavoro maschile (preferibilmente) era impegnata a tempo pieno e usufruiva, in parte, di guadagni sulla produttività più elevati, nella nuova società salariale, gli imperativi del capitalismo hanno comportato l’adozione di una logica d’impiego di tipo neoliberale che ha trasformato le caratteristiche dell’impiego. Ciò comporta anche l’abbandono di una logica “industriale” e l’ingresso nella logica dei “servizi”. La forza lavoro vive un processo di “feminização” [i], di esclusione dai guadagni sulla produttività e di occupazione con posti di lavoro precari, part-time, ecc. Così, per i lavoratori, la possibilità d’impiego diventa un’ossessione che comporta anche altri “accessori” neoliberali: la povertà, la precarietà, ecc. Durante il fordismo, sebbene le politiche pubbliche cercassero di assicurare il pieno impiego, queste erano, in un certo modo, sempre alla ricerca di una possibilità d’impiego. Tuttavia questa è una categoria storica e dipende dalla correlazione di forze tra classi sociali. Questa correlazione è parte della sua stessa essenza sia per quanto riguarda le misure della regolamentazione esterna al mercato del lavoro sia (come i diritti sociali e il diritto al lavoro) [2] per il sistema di negoziazione collettiva. È la regolamentazione statale e contrattuale che può impedire l’istallazione e il funzionamento di un mercato auto-regolabile le cui molteplici esperienze storiche rendono le società soggette a conseguenze devastanti (crisi, guerre, ecc.).

L’utopia di un mercato auto-regolabile appare sulla scena della storia come una mistificazione a sostegno ideologico delle politiche pubbliche della società salariale post-fordista e della globalizzazione. Queste politiche sono contrassegnate dal tentativo di fare conciliare due imperativi, che corrispondono in parte, agli interessi immediati della classe dei datori di lavoro e degli impiegati salariati. Questi imperativi rappresentano la domanda di flessibilità e aumentano sia il rendimento del capitale sia la possibilità d’impiego, quest’ultimo necessario ad assicurare un supporto della forza lavoro.Lo sviluppo in profondità e in estensione di questi imperativi si realizza attualmente in un contesto storico in cui la flessibilità predomina sulla possibilità d’impiego. Ciò esige una nuova forma di mediazione e di risoluzione dei conflitti che il movimento dei lavoratori attraversa, per il degrado delle condizioni d’impiego, del salario, ecc. Così la flessibilità va a beneficio dei datori di lavoro insieme ai suoi “accessori” neoliberali: la speculazione, il sapore del guadagno, ecc.

Il mito del ritorno all’auto-regolamentazione del mercato è rapidamente smentito dalla partecipazione statale all’insieme di condizioni di mediazione del processo che ingloba una nuova forma d’impiego sempre più precario, insicuro, ecc. È in questo senso che si sviluppa la regolamentazione statale nei confronti della discriminazione della forza lavoro femminile. Questo progresso arriva fino alla promozione del’impiego femminile e alla legislazione sui diritti delle donne. Tuttavia in un’era in cui il mercato del lavoro esige una natura flessibile, sensibile, mobile, agile, episodica, intellettuale, ecc. l’aspetto quantitativo non può nascondere quello sostanziale. Quest’ultimo è costituito, in ultima istanza, dalle misure adottate dai governi che cercano soltanto di fare della forza lavoro femminile un segmento perfettamente assimilabile al modello post-fordista e globale. Queste misure si distribuiscono nel tempo (post-fordismo) e nello spazio, sia centrale (in Francia) sia periferico (in Brasile).

In termini di paragone, affermare che l’esperienza francese si avvia a raggiungere quella brasiliana serve ad evidenziare una certa tendenza o a costatare certe caratteristiche comuni. Anche se si devono tener presenti le diverse sfumature che acquisiscono nei due paesi in questione. In effetti, le traiettorie e le politiche della flessibilità esterna adottate sono ben distinte, come ad esempio nel settore della precarietà e nell’esistenza di un sostenibile salario indiretto [3]. Così, in Brasile l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro non ha ridotto la differenza salariale tra i sessi, come invece è accaduto in Francia. La discriminazione sessuale nel mercato del lavoro in Francia è meno forte rispetto al Brasile, dove non esiste un’autentica promozione delle donne e della parità dei sessi nell’impiego. Questa differenza ha avuto effetti talmente pratici che, per esempio, durante la selezione per l’impiego in una azienda multinazionale francese situata sul territorio nazionale, non si è riscontrata alcuna discriminazione nei confronti delle donne sposate, cosa che invece non è avvenuta in Brasile [ANTUNES, 1999: 107].

Infine affermare in maniera categorica e senza un’attenta valutazione che in Brasile si sia stabilita e consolidata una società salariale post-fordista è così discutibile quanto asserire che nei paesi periferici sia mai esistita un’implementazione integrale del “fordismo”. In ogni caso questa questione è molto ampia e profonda e non può essere esaminata soltanto sotto l’aspetto della flessibilità esterna.


[1] Per una critica su questo concetto di “pieno impiego patrimoniale” vedere Hussaon [2001: 81 e seguenti

[i] Ndt. Ingresso delle donne nel mondo del lavoro impiegatizio.

[2] “Un nuovo diritto sociale e del lavoro non cadrà dal cielo sempre che sia indispensabile. Questo dovrà essere una base essenziale, comune, valida per tutti; non saprebbe essere decretato dall’alto; è protagonista necessario, legittimo, autentico e partecipativo” [Barbier & Nadel, “000: 76].

[3] Nella nuova società salariale, una tra le conseguenze nocive della flessibilità dell’impiego è la difficoltà a generare salari indiretti ma soprattutto la pensione.