VITE FLESSIBILI. Documentario-inchiesta sulle condizioni dei lavoratori precari
Intervista a cura di Rita Martufi
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Quali sono le conseguenze del processo di “flessibilizzazione”
sull’esistenza di chi si trova a lavorare da precario? Quali le ripercussioni
sotto il profilo del reddito, dei diritti, del peso sociale dell’individuo; ma
anche sulla qualità della vita nel suo complesso, sulla definizione stessa dell’identità
della persona, sulla capacità di elaborare progetti per il futuro? È da questi
interrogativi di base che prende le mosse VITE FLESSIBILI, film documentario
prodotto dall’Associazione Mondi Visuali e dall’Archivio
Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Ne parliamo insieme agli
autori, Nicola Di Lecce e Rossella Lamina.
Come nasce il progetto di VITE FLESSIBILI?
Nasce in primo luogo da una constatazione: mentre ormai da
tempo nel nostro paese era stato avviato un processo indirizzato verso la
precarizzazione del lavoro, non ci sembrava che l’informazione e la
riflessione audiovisiva su questa problematica fosse andata di pari passo. In
generale, a prevalere sono state le pure e semplici parole d’ordine (del
genere: “scordatevi il posto fisso”; “siate imprenditori di voi stessi”,
e così via), fatte proprie acriticamente e propagandisticamente dai media a
grande diffusione, i quali ci hanno rappresentato la flessibilizzazione da un
lato come ricca di promesse per il singolo lavoratore - magari reso libero dalla
schiavitù del cartellino e impegnato nell’organizzazione del proprio ozio
creativo - oppure quasi fosse un fenomeno “naturale”, insito nella realtà
stessa dello sviluppo economico e della necessaria competitività sul piano
globale, e dunque inevitabile.
Il nostro atteggiamento è stato allora quello di
incominciare a chiederci cosa, nel frattempo, stesse accadendo ai diretti
interessati. Cercare insomma di riportare i lavoratori al centro del discorso. E
perciò siamo andati a domandare agli stessi precari cosa vuol dire vivere delle
“vite flessibili”.
Il vostro film è incentrato sulle storie di quattro
lavoratori. Considerate queste storie emblematiche dell’universo del
precariato oppure ritenete che il loro valore sia principalmente nella
soggettività dell’esperienza raccontata?
Ormai il lavoro cosiddetto “atipico” è presente
praticamente in tutti i settori produttivi e la neonata Legge 30 lascia
prefigurare un aumento esponenziale della precarizzazione in atto. Per
descrivere un universo così ampio e articolato non sarebbe forse sufficiente
una serie di documentari in 56 puntate, figuriamoci un solo film di 56 minuti!
Quindi abbiamo preferito un approccio mirato all’approfondimento del vissuto
di quattro persone, che vivono e lavorano a Roma ma provengono da diverse zone
di Italia. Sicuramente ci sembrava che dalle storie di ciascuno di loro
potessero emergere degli aspetti emblematici: Giovanna, orientatrice al lavoro e
a sua volta precaria, si confronta con il continuo andirivieni fra lavoro e non
lavoro sia suo che dei suoi utenti; Antonio, che per mettere insieme un vero
reddito si barcamena fra due occupazioni antitetiche come pizzaiolo e libraio;
Luca, interinale di call center, aspira a dedicarsi anima e corpo ai suoi studi
storici; Alessia, laureata e specializzata, che vive da segretaria co.co.co. una
maternità con tutele di serie B. Di queste persone, lungo l’arco del film,
abbiamo tentato di delineare un ritratto che ce le raccontasse come lavoratori e
come esseri umani. Crediamo che attraverso la forza della loro testimonianza, la
lucidità delle loro riflessioni, e proprio grazie anche alle differenze
soggettive insite in ciascuna esperienza, possano emergere quegli aspetti nodali
che accomunano e caratterizzano la condizione di chi lavora - e vive - da
precario.
Quale è stato il vostro metodo di lavoro, sia per quanto
riguarda la fase di ricerca e progettazione, che in quella più strettamente
realizzativa del film?
Il lavoro su VITE FLESSIBILI nel suo complesso è durato
circa un anno. Innanzi tutto è stato necessario un consistente periodo di
ricerca e di documentazione sull’argomento, che ci interessava comprendere al
di là di quanto stava avvenendo in ambito strettamente nazionale. Di qui, anche
dopo varie ed animate discussioni con chi ha avuto la pazienza di sopportarci (e
supportarci), è scaturita la messa a punto di un progetto di ricerca unitamente
ad un questionario. Si è trattato di uno schema di domande anche questo “flessibile”,
il cui impianto di volta in volta è stato discusso, verificato e opportunamente
variato insieme a coloro che hanno accettato di essere intervistati. Questa
forma di collaborazione è stata per noi fondamentale, visto che non miravamo ad
estorcere rapacemente dei brandelli di vita altrui per ricombinarli in un nostro
personale teatrino - un rischio che in particolare nell’audiovisivo è facile
e ricorrente. Abbiamo piuttosto intrapreso un percorso di conoscenza reciproca,
protratto nel tempo. E chi ha accettato di imbarcarsi con noi in questa
esperienza, di esporsi personalmente davanti alla videocamera, ci ha dedicato
molto del proprio tempo e della propria intelligenza. Dopodiché la fase di
montaggio ha richiesto uno sforzo di grande sintesi e al contempo di attenzione:
da un lato nel cercare di non tradire il pensiero degli intervistati, e dall’altro
di costruire una struttura narrativa ed un ritmo che rendessero fruibile il film
anche a chi non fosse già sensibilizzato all’argomento.
In quella che è un’indagine sulla realtà attuale avete
utilizzato diverse immagini d’epoca, in gran parte risalenti agli anni ’60 e
’70: si tratta una scelta mirata a sollecitare la memoria storica dello
spettatore?
Sì, sicuramente. Eravamo alla ricerca di elementi di
raffronto, che evidenziassero come le condizioni descritte dai precari di oggi
rappresentino un arretramento complessivo di tutti i lavoratori sotto il profilo
dei diritti, delle conquiste ottenute attraverso stagioni di lotte - lotte
sostenute anche con costi durissimi dai lavoratori stessi. In qualche caso, poi,
sentivamo proprio la necessità di sottolineare alcuni passaggi con un commento
sarcastico. L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico,
che ha creduto nel nostro progetto ed ha deciso di co-produrlo, ci ha messo a
disposizione per le ricerche dei materiali di repertorio la preziosissima
memoria audiovisiva che come Fondazione preserva e diffonde.
Fra le immagini di repertorio colpiscono particolarmente
quelle di Porto Marghera, con i lavoratori del petrolchimico che manifestano
indossando le maschere antigas...
Sono tratte da “Porto Marghera - Gas Tossici”, un
documentario prodotto dall’Unitelefilm nel 1973. La ragione per cui
abbiamo introdotto nel film la vicenda di Marghera è innanzi tutto di natura
biografica: Luca, uno dei nostri protagonisti, è originario di Mestre, ed è
stato personalmente coinvolto come attivista di Greenpeace nella battaglia sul
petrolchimico. In secondo luogo pensiamo che una vicenda così agghiacciante,
con la conclusione processuale che ha avuto, debba rimanere viva nella memoria
di tutti noi. Terzo, e non ultimo, ci sembrava necessario introdurre una
riflessione solo in apparenza digressiva rispetto al tema centrale del film: il
lavoro è un valore assoluto da perseguire ad ogni costo e con qualunque mezzo?
Anche a discapito della salute dei lavoratori, della salute delle comunità che
vivono nei territori interessati, della distruzione dell’ambiente? È un
interrogativo che ci sembrava importante riproporre.
A quale pubblico intendete rivolgervi con “Vite flessibili”?
E comunque, a chi pensate possa essere utile la visione del vostro film?
Chi opera nell’audiovisivo desidera sempre raggiungere un
pubblico più vasto possibile, vista la grande efficacia comunicativa del
linguaggio e l’ampiezza di diffusione (almeno potenziale) del mezzo.
Ovviamente ci rivolgiamo in particolar modo ai precari, che fra l’altro vivono
spesso in modo isolato la propria condizione, augurandoci che questo film possa
mettere in luce come certe problematiche insite in una “vita flessibile” non
derivino da jatture o inadeguatezze personali (un tipo di autocolpevolizzazione
che si può frequentemente riscontrare), ma da ragioni oggettive e condivise da
molti altri lavoratori. Quello che soprattutto ci auguriamo è che questo film
raggiunga tutti i lavoratori, sia precari che non, ed anche chi nel mondo del
lavoro si accinge ad entrare. Infatti uno dei principali obiettivi per cui
abbiamo realizzato VITE FLESSIBILI è stato quello di tentare di segnalare ad
una classe lavoratrice che si intende invece plasmare all’accettazione del
precariato a vita, come questo non sia uno “stato di natura”, ma il frutto
di scelte politiche che dobbiamo e possiamo mettere in discussione. Il gioco
delle “parole chiave” che conclude il documentario, in cui ciascun
intervistato commenta a suo modo cinque fra i termini che in questi ultimi anni
ci hanno maggiormente perseguitato (“autoimprenditorialità”, “competitività”,
“creatività”, “mission”, “professionalità”) risponde proprio a
questa idea di ridiscutere quali debbano essere le necessarie parole d’ordine.
Infine speriamo che anche le organizzazioni sindacali e politiche possano
servirsi di questo film, in primis come opera di monitoraggio indipendente su
una condizione che ci sembra finora non adeguatamente contrastata e tutelata; e
poi magari utilizzandolo come possibile spunto per ricominciare a valutare i
bisogni concreti delle lavoratrici e dei lavoratori, bisogni da cui crediamo
necessario ripartire per elaborare delle adeguate strategie di contrapposizione
alla prospettiva di precarizzazione cui si vuole condurre l’intera la classe
lavoratrice.