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La transizione difficile

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Nicola Galloni
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Direttore generale, consigliere del Ministro del Lavoro per le politiche dell’occupazione.

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Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione

Nicola Galloni

Una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

 

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Così, migliaia di anni di civiltà hanno alla fine prodotto il loro risultato: “si deve fare così e basta”.

Il problema è che risulta non solo falso che non possano perseguirsi alternative, ma altresì evidente che proprio l’incapacità a proporre e a praticare alternative porta l’attuale sistema verso crisi e squilibri che sembrano negare gran parte e il minimo dei valori civili risultanti dagli ultimi diecimila anni di evoluzione umana.

Disgraziatamente sembrano confrontarsi, almeno a livello delle idee, i difensori dell’attuale sistema liberistico da una parte (peraltro in un momento di evidente difficoltà per quanto sta accadendo nel mondo proprio a causa delle scelte cosiddette liberistiche) e, dall’altra, gruppi sparuti di alternativi che, però, ritengono che l’economia sia completamente adattabile ai desideri della volontà organizzata.

Si tratta di due tipi opposti e simili di follia politica (che non si possa e/o non si debba far nulla, che tutto sia possibile e fattibile) che finiscono per avvantaggiarsi dell’attuale sistema dei mass media in cui tutto deve venir banalizzato e ridotto a funzioni lineari. Purtroppo la realtà è complicata e intervenire, ad esempio, sulla disoccupazione richiederebbe passaggi logici e ragionamenti di non agevole sintesi all’interno di un telegiornale o di un articolo giornalistico di facile lettura.

Ma proprio nelle società complesse c’è bisogno di semplificazione e di efficacia nei messaggi, sicché chi controlla i mass media è in grado di indicare la rotta che la società segue (anche se, a volte succede, i fatti si evolvono secondo dinamiche indipendenti dalla loro rappresentazione).

Comunque sia, tale situazione - associata con la rapidità dei cambiamenti ed il fatto che i centri del potere economico e finanziario, in prevalenza “privati”, decidono prima che si sappia su che cosa occorrerebbe prendere una decisione - determina l’annichilimento di ciò che un tempo si chiamava resistenza operaia (parente, seppure non vicinissima di quella che, con linguaggio cristiano, si chiamava testimonianza).

Non sembrerebbe rimanere che la scelta tra due possibilità:

1) la negazione radicale del sistema e delle sue regole, in una parola il (tentativo del) suo rovesciamento;

2) la resa.

In effetti, la società complessa consente di organizzarsi per sopravvivere all’esterno di essa, ma al prezzo della totale rinuncia ad incidere sui meccanismi sociali complessivi. Questa “politica” è stata sperimentata negli USA a partire dagli anni ’70: non a caso da quando il liberismo attuale si è proposto come visione dominante ed esclusiva del mondo (risultato che ha potuto raggiungere solo in seguito la caduta dei regimi cosiddetti comunisti).

Dopo di che è stata introdotta, in modo più o meno massiccio, negli altri paesi industrializzati. Ciò ha consentito il congelamento delle energie che potevano esser definite, fino agli inizi degli anni ’70, rivoluzionarie.

Nessuna possibilità rivoluzionaria è ipotizzabile in una società complessa se non si sono già costituite delle solide teste di ponte al suo interno.

Ma non si parlerebbe di società complessa se si pensasse a gruppi rivoluzionari che si preparano fondando e gestendo banche, scuole, ospedali, aziende all’interno del sistema. Si tratta, invece, di qualcosa che deve influire sulla regolazione del sistema (della società complessa) non di una semplice presenza fisica, seppure qualificata.

Dopo la crisi del 1929 e l’introduzione dello Stato interclassista che rompe con la tradizione dello Stato stesso come mero momento organizzativo della classe dominante, si arriva - quasi contemporaneamente - alla più alta realizzazione della previsione marxiana della fine del capitalismo, ma anche alla negazione del suo esito in termini di dittatura del proletariato come forma di transizione verso il vero e proprio comunismo.

Il conflitto tra forze produttive e modo di produzione porta effettivamente alla crisi capitalistica (e, come previsto da Marx, cade, come conseguenza, la sovrastruttura statuale corrispondente alle esigenze organizzative della classe dominante). Ma il modello che emerge non è di quelli previsti da Marx: è un modello (peraltro non perfettamente unitario) di regolazione capitalistica che, dal lato strutturale, riduce il conflitto tra sviluppo produttivo e organizzazione dell’economia; mentre, dal lato della sovrastruttura, introduce lo Stato pluriclasse.

Tale modello finisce per spiazzare qualsiasi prospettiva rivoluzionaria in quanto la contrapposizione politica viene trasformata continuamente in contrappeso (o controbilanciamento del nuovo sistema a quello vecchio che generava più squilibri) a cui corrisponde il fenomeno sociale della continua riduzione della condizione di emarginazione che, nel passato, aveva interessato strati ingenti della popolazione.

Qui, ovviamente, si sta cercando di parlare di prospettive, non di singole persone che, durante il periodo successivo agli anni ’30 (a parte la parentesi della guerra e della lotta al nazifascismo), hanno scelto di continuare una battaglia rivoluzionaria; quest’ultimo fatto dimostra solo che l’uomo è un essere libero anche quando pretende di comportarsi come se le condizioni oggettive non esistessero.

Con il regresso liberistico, dunque, la forza di quei contrappesi è venuta meno, ma la società è comunque cambiata ed il modello rivoluzionario “tout court”, come si cercava di evidenziare in precedenza, non è più praticabile se non come conseguenza dell’avvenuto fallimento della regolazione interna al sistema. Ma, senza un previo ed esteso tentativo di ricostituzione dei contrappesi, una forza rivoluzionaria mancherebbe completamente di appigli in una società come l’attuale.

Dunque, resistenza e rivoluzione, così come storicamente si sono affermate in Europa e negli USA per oltre due secoli, non risultano più strumenti adatti per affermare quei criteri di giustizia sociale che sono alla base di qualunque aggregato che voglia definirsi umano non solo in modo superficiale.

La prima (la resistenza) risulta poco efficace per il fatto che gli eventi marciano su tracce troppo spesso imprevedibili e ad un ritmo più rapido delle capacità degli esclusi di organizzarsi per controllarli.

La seconda (la rivoluzione) non appare più proponibile in prima battuta, in quanto occorrerebbe non solo escludere la praticabilità di un’ipotesi di regolazione alternativa (i contrappesi), ma anche realizzare il cartello delle forze che, unicamente dopo aver compreso che il sistema non è riformabile, accettano di sostituirlo.

 

5. Progresso dello sviluppo e della forma capitalistica

 

Ma forse c’è un altro modo per raggiungere conclusioni simili.

Se l’essenza della questione politico-sociale consiste nel conflitto che esiste tra forze dello sviluppo (forze produttive) e modi di valorizzazione del capitale, l’opposizione deve riguardare questi ultimi e non coinvolgere anche lo sviluppo. La distinzione può sembrare ovvia e banale ma, forse, non è così.

Identificare cosa sta dal lato dello sviluppo e può favorirlo, distinguendolo da quanto lo contrasta, è il compito precipuo dell’organizzazione politica delle forze che vogliono opporsi non solo alle limitazioni della crescita economica, ma anche alle grandi ingiustizie sociali che si accentuano via via che i modi di produzione e di valorizzazione del capitale sono lasciati liberi di estremizzare i loro comportamenti e i loro obiettivi.

Questo potrebbe spiegare perché il concetto di progresso è così controverso in un’epoca come l’attuale - epoca iniziata verso la metà degli anni ’70, di fatto terminata dopo l’estate del 1998, ma attualmente solo in via di superamento - che si caratterizza per un aumento di predominio della componente proprietaria rispetto all’apparente ristagno della componente produttiva.

Quando prevale lo sviluppo produttivo, tecnologico, sociale, civile, umano sugli interessi dei proprietari è più agevole parlare di progresso; ma quando “a progredire” sono le forze che possono contrastare il progresso, allora concetti e situazioni appaiono confusi.

La confusione, infatti, è reale, non apparente ed è generata dalla insufficiente capacità a distinguere veramente i cambiamenti che portano a ridurre la dipendenza o il bisogno economico e l’asservimento di persone ad altre persone da ciò che determina regressi rispetto a tali obiettivi.

Il “progresso” tecnologico, ad esempio, e, nel nostro tempo, le biotecnologie, sono fenomeni a cui le forze progressiste debbano opporsi perché il loro sviluppo - se mal pilotato - può peggiorare lo stato di cose esistente (dal punto di vista della grande maggioranza della popolazione) oppure no?

Tecnologie e biotecnologie, in altre parole, sono fenomeni cattivi in sé o per un uso non corretto (non utilmente indirizzato) che se ne fa, che se ne può fare?

Tutto ciò che è capace di contribuire al cambiamento delle cose contiene necessariamente una rilevante componente distruttiva e, quindi, non tutto ciò che appare contenere elementi distruttivi sarà incapace di apportare vero progresso.