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La transizione difficile

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Nicola Galloni
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Direttore generale, consigliere del Ministro del Lavoro per le politiche dell’occupazione.

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Nicola Galloni

 

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Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione

Nicola Galloni

Una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

 

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Non è nell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione, infatti, che la qualificazione della forza lavoro si depauperi per il mero obiettivo di una momentanea e anomala crescita dei profitti. Né la formazione professionale, “occupazionale” e “mirata”, sarebbe sufficiente da sola senza essere accompagnata dalla precisa volontà politica di dare stabilità (invece che incertezza) alle prospettive dei giovani; non è ragionevole, infatti, pensare che un giovane accetti continui supplementi di formazione obbligatoria o semi-obbligatoria solo per incontrare un impiego che, verosimilmente, non gli consentirà di costruirsi una famiglia che possa vivere al di sopra della soglia della povertà.

Certo, la formazione obbligatoria o semi-obbligatoria può essere appetibile oltre che per i formatori anche nella prospettiva di un qualche reddito e di un qualche implemento del curriculum; però le condizioni del mercato del lavoro possono venire influenzate da scelte della politica che contribuiscano a rafforzare e non a indebolire le prospettive di un adeguato inserimento da parte dei giovani o di re-inserimento da parte dei meno giovani.

A questo proposito, ovviamente, occorre distinguere tra l’aspettativa di un “posto” a prescindere dal senso produttivo dell’attività svolta e il proposito di riportare indietro le condizioni di dipendenza (dalle necessità economiche, da chi governa, da chi può decidere) che hanno caratterizzato l’involuzione politico-economica degli ultimi tempi.

Diversamente, la società finisce per frammentarsi in una miriade di pezzi corrispondenti a piccoli “regni” autonomi tra di loro (o relativamente autonomi) con un padrone, il suo piccolo esercito, i suoi schiavi. Certamente occorre che i giovani accettino che ciascuna attività, per esser definita lavoro, deve risultare produttiva e rispondere ad un bisogno, ad un’esigenza sociale; il lavoro, di per sé, è una necessità a cui corrisponde un valore, ma è conseguenza e non presupposto di un bisogno o, meglio, della soddisfazione di un bisogno. E siccome tutti non possono fare le stesse cose perché è più ragionevole dividersi il lavoro (anche in base alle proprie inclinazioni e capacità) in vista della soddisfazione dei bisogni di tutti, allora il lavoro ha anche un significato o valore generale/collettivo che è misurato dalla sua efficacia complessiva (appunto a soddisfare le esigenze della società di cui i lavoratori stessi sono parte integrante).

Di qui il giudizio su come vanno le cose: aumenta o si riduce la soddisfazione dei bisogni? Se aumenta e, per caso, si riduce l’occupazione, allora vorrebbe dire che il lavoro non è ben distribuito; ma se accade il contrario, come sembra concretamente succedere nelle nostre società (la soddisfazione diminuisce e l’occupazione non raggiunge il livello corrispondente, date le tecniche e l’organizzazione, alla produzione di tanti beni e servizi quanti ne servirebbero per tale soddisfazione), allora vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.

 

7. Oltre la mera resistenza, senza resa

 

Probabilmente l’errore delle classi dirigenti - compresi i sindacati - è stato quello di credere (o di far finta di credere) alla praticabilità dello scambio tra flessibilità e occupazione.

Questo scambio, infatti, ha funzionato, ma in modo perverso, come s’è visto: l’aumento (o il contenimento del calo) del numero degli occupati ha corrisposto a netti peggioramenti salariali, contributivi, assicurativi e normativi per i nuovi assunti e per gran parte dei lavoratori. L’occupazione non è aumentata per effetto della flessibilità; inoltre l’aumento dei profitti che ha accompagnato la flessibilità ha ridotto non solo la quantità di valore aggiunto destinato ai lavoratori, ma anche il potenziale sviluppo che si sarebbe avuto con una diversa dinamica salariale pur nei limiti dei guadagni di produttività.

Se, infatti, lo scambio fosse avvenuto tra flessibilità e moneta (nei limiti dei guadagni di produttività se non si voleva stimolare l’inflazione), allora i profitti correnti sarebbero stati ridotti, ma l’aumento della domanda interna avrebbe fatto crescere l’attesa di profitti successivi e ciò avrebbe stimolato gli investimenti produttivi che avrebbero rafforzato il trend della domanda ed anche il valore aggiunto e il trend dello sviluppo sarebbero stati maggiori.

Se i sindacati e le classi dirigenti avessero scelto questo tipo di scambio, dappertutto sarebbe stato così e le condizioni della concorrenza (globalizzazione) sarebbero state rispettate.

Ovviamente, sarebbe stato pur sempre possibile che qualcuno avesse cercato di forzare il gioco nel senso del contenimento salariale per ottenere di migliorare la propria condizione competitiva; ma ciò è potuto avvenire e avviene anche nel contesto di scambio fra flessibilità e occupazione che sconta i bassi salari perché la precarizzazione della forza lavoro (uso improprio dei contratti di consulenza e delle partiteIVA, lavoro irregolare, lavoro sommerso) non ha, comunque, limiti precisi. Lo scambio tra flessibilità e moneta - al contrario di quanto è avvenuto tra l’inizio della rivoluzione industriale e gli anni ’70 del nostro secolo - richiede e comporta la ricomposizione della classe lavoratrice, laddove lo scambio tra flessibilità e occupazione la ha ulteriormente divisa (di più di quello che non fosse implicito nell’ordine delle cose).

Di qui due possibilità per il movimento operaio:

1) richiedere un cambiamento nella disciplina del lavoro dipendente che tenga solo conto delle condizioni oggettive (integrazione nel ciclo produttivo) e non dell’opzione contrattuale che è falsata dai rapporti di forza individuali (sempre più sbilanciati a sfavore del lavoro); 2) ottenere il cambiamento nell’oggetto dello scambio, vale dire accettando non più la promessa dell’occupazione contro la flessibilità, ma la certezza di aumenti salariali che portino la classe lavoratrice a trovare significativi momenti di convergenza e coagulo. Oppure un po’ di tutt’e due le cose.

Oggi, infatti, esistono spaccature evidenti e di difficile riassorbimento all’interno delle categorie di occupati tra gli stabili e i precari; ma esiste anche una spaccatura più pericolosa tra i lavoratori che, pur essendo precari, risultano tuttavia all’interno del sistema e quelli che ne sono fuori, come i disoccupati veri e propri (privi di ammortizzatori sociali) e i lavoratori che non raggiungono quel minimo che consente di fuoriuscire dalle secche della povertà. Tra le due categorie, inoltre, si va sempre più ingrossando quella che si potrebbe chiamare della “semi-emarginazione”, vale a dire delle famiglie che passano alcuni mesi all’anno nell’ambito della povertà ed altri periodi lievemente al di sopra di tale soglia. Ma crescono anche il timore e la sensazione di cadere da un momento all’altro nella condizione peggiore senza sapere quanto durerà.

Tale situazione, estremamente pericolosa politicamente, perché facilmente strumentalizzabile in un’alleanza - certamente né nuova, né originale - tra emarginazione, semi-emarginazione e “poteri forti”, può venir affrontata solo individuando la giusta miscela di stabilizzazione dei rapporti di lavoro e di scambio fra flessibilità e moneta.

Negli ultimi 25 anni circa, la sinistra si è divisa tra coloro che, pur difendendo valori e princìpi propri della democrazia, tuttavia si sono limitati ad osservare e lasciar passare il carro della storia ritenendo
 non del tutto a torto - che tale carro non potesse venir fermato; e coloro che hanno pensato di opporsi al corso della storia, spesso con una notevole dose di velleitarismo.

In realtà, compito della sinistra non dovrebbe essere né quello di opporsi, né quello di lasciar fare, ma di salire sul carro della storia per governarlo, per cercare di imprimergli una direzione adeguata.

La partita, centrale e determinante, della flessibilità, quindi, richiede non una opposizione cieca che riproporrebbe velleitariamente rigidità nei processi produttivi che oramai la storia ha definitivamente superate; ma di separare ciò che serve veramente all’impresa (che dovrebbe risultare oggetto di scambio, ma fra cose certe) da ciò che serve alla proprietà e alle classi dirigenti per mantenere e rafforzare profitti e potere a scapito dello sviluppo e degli equilibri generali.

Qualificazione professionale, formazione, ricerca scientifica e tecnologica, progresso civile, solidità istituzionale, mercati che funzionano, sicurezza per i cittadini, certezze per i giovani, equilibri finanziari degli assetti pensionistici, richiedono stabilità e chiarezza nei rapporti di lavoro e aumenti della sua remunerazione nei limiti dei guadagni di produttività determinati dai miglioramenti nella organizzazione della produzione.

Anche lo stesso obiettivo delle 35 ore dovrebbe venir rivisitato alla luce di quanto esposto: esso non è un obiettivo di avanguardia, un punto di arrivo, ma semmai un punto di partenza per forzare il sistema, per sfidarlo ad essere più efficiente.

Esso ha avuto, in Italia, il merito di sbloccare la logica di una politica prona all’economia; ma, se fosse considerato un traguardo, finirebbe per evidenziarsi come una trappola autolimitativa.

Il movimento dei lavoratori, di tutti i lavoratori, vale a dire dei produttori, può guardare molto più avanti, mettendo insieme ciò che serve ad apportare miglioramenti e benessere alla maggior parte della popolazione e relegando al museo della storia - pur con i dovuti onori - i vecchi programmi di resistenza, oramai travolti dall’evoluzione degli avvenimenti.