Ancora una riforma delle pensioni tra crisi fiscale e attacco al salario
Vladimiro Giacché
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4. Vent’anni di attacco al salario. Ora basta
Da quanto abbiamo appena visto è chiaro che le pensioni
non sono una variabile indipendente, ma un tema che va inserito nel più
complesso contesto dei rapporti tra le classi. Sotto questa prospettiva, è
chiaro non soltanto la “riforma” delle pensioni non è “necessaria”;
non soltanto che il semplice recupero dell’evasione potrebbe riempire
qualsiasi “buco” immaginabile del sistema previdenziale; ma anche che l’odierno
assalto alle pensioni è il punto di arrivo di un attacco pluridecennale ai
salari e alle condizioni di vita dei lavoratori. Vediamo nelle sue linee
generali le direttrici di questo attacco.
a) Si è colpito il salario diretto. I salari da
anni crescono in misura nettamente inferiore tanto alla crescita del valore
aggiunto per addetto quanto all’inflazione (che nel 2002-2003 ha rivisto
valori a due cifre per quanto riguarda i generi di prima necessità). Più in
generale, gli ultimi due decenni del Novecento hanno visto una colossale
redistribuzione del reddito in termini sfavorevoli ai lavoratori, con la
quota dei salari sul PIL che è crollata dal 56,4% del 1980 al 40,1% del 1999
(-16,3%), a tutto vantaggio di rendite (+8,8%) e profitti (+7,3%). [1]
b) Si è colpito il salario indiretto, ossia le
prestazioni sociali, e lo si è fatto in molti modi: la privatizzazione
strisciante o conclamata di servizi pubblici (sanità, scuola, aziende
municipalizzate, ecc.), spesso preparata con lo smantellamento e l’”inefficienza
procurata” di ciò che è pubblico (emblematico il caso della scuola); l’aumento
generalizzato del prezzo dei servizi (vedi trasporti e sanità). Tra le
premesse di questo attacco vi è ancora una volta l’evasione fiscale, che
determina la crisi fiscale dello Stato e quindi crea la “necessità”
di tagli alle prestazioni sociali ed aumenti del loro prezzo.
c) Ora siamo all’attacco finale anche al salario differito, ossia
al TFR e alle pensioni. Ma anche in questo caso abbiamo a che fare con
processi preparati da anni:
- con il passaggio dal sistema a ripartizione a quello a
contribuzione (riforma Dini);
- con la riduzione dell’aliquota previdenziale a carico
delle imprese per i nuovi assunti;
- con la precarizzazione dei rapporti di lavoro (che ha
comportato tra l’altro minor gettito previdenziale), da ultimo codificata
dal governo Berlusconi nella famigerata legge 30; [2]
- con la pratica dei prepensionamenti, utilizzati per
risolvere crisi aziendali o - più spesso - per “svecchiare” la
forza-lavoro; [3]
- con lo sviluppo abnorme del lavoro nero (secondo l’Eurispes
i lavoratori in nero, per cui i datori di lavoro non pagano contributi di
alcun genere, sono tra i 7 e gli 11 milioni di unità).
È interessante constatare che in ognuna di queste
direttrici di attacco è stata adoperata come schermo una specifica
forma di mistificazione ideologica.
a) Così, l’attacco al salario diretto si è
riparato dietro il mito della “flessibilità del lavoro” come leva
competitiva (con i risultati che ognuno può constatare in termini di
declino del nostro apparato produttivo...).
b) L’attacco al salario indiretto ha assunto le
vesti dell’“efficienza del privato” e della “necessità
economica” delle privatizzazioni.
c) L’attacco al salario differito, infine, ha
assunto come forma mistificatoria lo slogan della “guerra tra generazioni”
(“meno ai padri, più ai figli”, ecc.). [4] In questo modo, una questione che attiene in
definitiva alla riduzione della quota del salario sul prodotto sociale, e
quindi alla lotta tra le classi, viene misticamente trasfigurata in una
conflitto tra generazioni.
Bene ha fatto Giorgio Lunghini a demistificare questa
paccottiglia ideologica, servendosi di una pacata constatazione: “se si
vuole che le condizioni economiche e sociali dei nostri figli e nipoti siano
almeno pari alle nostre, occorre migliorare quelle dei giovani, non peggiorare
quelle dei vecchi. Questo vuol dire aumentare i salari per i giovani che
entrano nel mondo del lavoro e renderne meno incerti e precari i percorsi
lavorativi. È esattamente l’opposto di quanto è stato fatto negli ultimi
anni.” [5]
In queste parole è racchiuso anche il significato più
profondo della lotta contro l’attacco alle pensioni. Si tratta di cominciare
a fare “l’opposto di quanto è stato fatto negli ultimi anni”. Si tratta
di dire basta all’attacco al salario.
[1] Si veda G.
Alvi, Il Corriere della sera, 15 gennaio 2001 (dati ISTAT).
Impressionante l’accelerazione avvenuta nell’ultimo decennio: profitti
+6,4%, salari -7,2%. La voce “rendita”, che contiene anche le pensioni
(che comunque rappresentano meno della metà dell’intera voce, ossia il
13%), è invece aumentata solo dello +0,8%.
[2] È interessante notare
come la precarizzazione non colpisca soltanto i giovani, ma anche la
forza-lavoro più anziana: secondo dati diffusi dalla Confartigianato di
Mestre oltre il 50% delle assunzioni a tempo determinato e dei lavori atipici
è costituita da persone di 53-64 anni (che a questo punto non matureranno il
diritto alla pensione, e - nella migliore delle ipotesi - riceveranno pensioni
di carattere assistenziale dallo Stato).
[3] Più del 50% dei prepensionamenti degli ultimi due anni è
costituito da mobilità e prepensionamenti “concordati”.
[4] Questa mistificazione ha
assunto toni addirittura grotteschi nella Repubblica Federale Tedesca,
allorché - all’inizio di agosto - il giovane (ir)responsabile dei giovani
della CDU, Philipp Mißfelder, ha dichiarato che per difendere gli interessi
dei giovani bisognerebbe smetterla di sprecare i soldi del sistema sanitario
nazionale facendo costose “operazioni all’anca” o impiantando denti
nuovi agli anziani. Vedi “Bevorstehender Krieg der Generationen”,
Handelsblatt, 8-9/8/2003; A. Neubacher, “Dummes Gequatsche”, der
Spiegel, 11/8/2003.
[5] Giorgio Lunghini, “Doppio taglio”, il manifesto, 28/8/2003.