Rubrica
Per la critica del capitalismo

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Guglielmo Carchedi
Articoli pubblicati
per Proteo (11)

Professore Università di Amsterdam

Argomenti correlati

Stato

Stato sociale

Welfare

Nella stessa rubrica

Il declino dello Stato keynesiano
Guglielmo Carchedi

l problema dello sviluppo capitalista: un approccio critico di classe
John Milios

Le assurde dinamiche attuali dello sviluppo capitalistico. La questione in Irak è l’imperialismo
Max-Fraad Wolff, Rick Wolff

 

Tutti gli articoli della rubrica "Per la critica del capitalismo"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Il declino dello Stato keynesiano

Guglielmo Carchedi

Formato per la stampa
Stampa

Gli anni ’80 sono stati di un’importanza enorme, un punto di svolta, non solo per la classe lavoratrice mondiale ma per tutta l’umanità.

Essi hanno visto

- la fine dell’Unione Sovietica che, comunque la si voglia analizzare, è stata un fattore limitante dell’espansione del capitalismo privato selvaggio;

- l’introduzione di nuove tecnologie, come il computer e la bio-tecnologia, che, anche se la loro influenza sul sistema economico capitalista è ben minore di quanto si voglia far credere, ha avuto una grande influenza sul modo di vivere e persino di concepire la vita delle popolazioni dei paesi a capitalismo avanzato, cioè imperialisti;

- la cosiddetta ‘globalizzazione’, che altro non è che una nuova fase dell’imperialismo in cui l’espansione sfrenata del capitalismo privato si sposa al dominio incontrastato degli USA sul resto del mondo, anche se tale dominio è maggiore nel campo militare che in quello economico;

- l’adozione di una dottrina economica, il neo-liberalismo, a giustificazione di ciò, anche se la razionalità di tale approccio non ha nulla da invidiare a quella che si basa sull’oroscopo;

- l’emergere di scontri economici tra i paesi occidentali e il mondo musulmano, scontri camuffati da scontri religiosi se non addirittura di civiltà;

- e, infine, d’importanza speciale per quest’articolo, il declino dello Stato Keynesiano.

Le vittime di tali sviluppi sono state non solo la classe lavoratrice ma anche tutte le classi subalterne. Si noti che per classe lavoratrice o operaia s’intende coloro che partecipano al processo capitalista di produzione, distribuzione, e scambio senza essere gli agenti del capitale. Questi ultimi sono coloro che eseguono il lavoro di controllo e sorveglianza, o quella che Marx chiama nel terzo volume del Capitale la funzione del capitale, e che quindi non partecipano alla trasformazione di valori d’uso (si veda Carchedi, 1977, 1983, 1987, 1991). Le classi subalterne comprendono tutti coloro che dipendono, sia direttamente che indirettamente, dal sistema capitalista per la loro sopravvivenza e riproduzione da una posizione di subalternità. Esse comprendono non solo la classe lavoratrice ma anche quegli agenti del capitale che non hanno un potere decisionale riguardante le scelte strategiche per la riproduzione del sistema stesso. [1]

La domanda che si sviluppa nelle seguenti pagine è: perché tale declino? La risposta a tale quesito richiede che s’indaghi, anche se brevemente, sulle origini dello Stato Keynesiano. [2]

Lo Stato Keynesiano affonda le sue radici nel cosiddetto ‘welfare state’, o Stato del benessere. Il termine ‘stato del benessere’ è chiaramente apologetico, se non addirittura propagandistico. Tuttavia esso indica un tipo di Stato che, in confronto ad altre forme, pone una maggiore enfasi sulle politiche ridistributive e sulle riforme sociali a favore delle classi subalterne. Il fine, che sia apertamente riconosciuto o no, è quello di scongiurare o mitigare il conflitto di classe.

È necessario sfatare subito un mito. Secondo una credenza comune, le politiche ridistributive e le riforme sociali sarebbero pagate sia dal capitale che dal lavoro. Tuttavia, studi empirici sulla ridistribuzione del reddito dimostrano che nello Stato del benessere la quota del PIL che va al lavoro è più o meno la stessa, il che dimostra che è il lavoro che finanzia tali politiche economiche. Ma, in termini della teoria del valore lavoro, non è questo il punto essenziale. Secondo tale teoria, è la classe lavoratrice (più precisamente, i suoi lavoratori produttivi), e solo questa classe, che produce valore. Quindi, anche se la quota che va al lavoro dovesse aumentare, non vi sarebbe una ridistribuzione di ricchezza prodotta da altre classi a questa classe ma una maggiore restituzione a tale classe del valore precedentemente prodotto da essa stessa e ad essa sottratto. [3] In ultima istanza, quindi, il punto è quanto del valore sottratto alla classe lavoratrice viene ad essa restituito. Per lo stato del benessere l’ammontare di tale restituzione è maggiore di quello di altre forme di stato.

Lo Stato del benessere risale alla fine del diciannovesimo secolo. Lo sviluppo del capitalismo aveva spossessato le masse dai loro mezzi di produzione e le aveva rese dipendenti dal salario. Le condizioni d’abietta povertà della prima rivoluzione industriale avevano creato la necessità di riforme che in qualche modo supplissero alla mancanza di quei vincoli familiari che avevano contraddistinto le società pre-capitaliste. La crescita della forza della classe operaia e la disponibilità di plusvalore da essere distribuito, derivante non solo dalle condizioni di grande sfruttamento ma anche dalle relazioni imperialiste, avevano finito per imporre in tutte le nazioni industrializzate, anche se con tempi e modalità diverse, una serie di riforme. Esse, specialmente all’inizio, coprivano solo molto limitatamente i bisogni delle classi subalterne e le proteggevano solo molto limitatamente dalle condizioni inumane di lavoro. Più tardi, dati i mutamenti del processo lavorativo, che si basava sempre di più su una forza lavoro sempre più istruita, allora nuovi bisogni, e quindi nuove riforme, emersero, quali i sistemi scolastici, ospedalieri e assistenziali di vario genere. Ciò non abolì il conflitto tra capitale e lavoro, ma ne mutò la forma.

Di grande importanza in tale conflitto fu l’emergere dei sindacati e dei partiti politici della classe lavoratrice. Essi fornirono la struttura per una resistenza organizzata al predominio del capitale e furono occasionalmente gli strumenti per un attacco frontale a tale predominio. Tuttavia, il più delle volte essi furono trasformati in strumenti di collaborazione, in cambio di un minimo accesso al potere statale e di fondi per il finanziamento delle riforme sociali. Dal canto loro, il capitale, specialmente il grande capitale, e lo Stato erano disposti a fare tali concessioni perché le vedevano come valvole di sicurezza per la diminuzione delle tensioni sociali potenzialmente distruttive del sistema capitalista.

Lo Stato del benessere ha, come fenomeno corrispondente sul piano politico, la social-democrazia, cioè il riformismo. Essa dava voce a quegli strati sociali, sia all’interno della classe operaia che non, i cui interessi, anche se non necessariamente gli stessi di quelli del capitale, erano legati alla riproduzione e al successo del sistema capitalista nei paesi imperialisti. Questi strati avevano incominciato ad affiorare, dalla fine del secolo diciannovesimo in poi, a causa dei mutamenti nel processo lavorativo derivanti sia dalla introduzione di nuove tecnologie sia dalla necessità, derivante da tali tecnologie, da parte del capitale di controllare un processo lavorativo sempre più complesso. Tra questi mutamento si possono menzionare i ciclici processi di qualificazione/dequalificazione delle mansioni; i ciclici processi di incremento/restrizione della sfera produttiva in relazione a quella commerciale, distributiva e speculativa; e soprattutto i ciclici processi di formazione/riduzione di tutta una struttura di mansioni che esegue la funzione di controllo e di sorveglianza dei lavoratori (che va dai top manager ai capetti di reparto) piuttosto che partecipare al processo di trasformazione dei beni sia materiali che immateriali. Coloro che hanno queste mansioni non possono quindi essere compresi nella classe lavoratrice (vedesi la definizione più sopra).

Tali trasformazioni avevano prodotto profondi cambiamenti nella classe operaia in termini della sua frammentazione, segmentazione, e mobilità sociale. Nuove stratificazioni, sia salariali che in termini della gerarchia aziendale, avevano introdotto una varietà d’interessi immediati, alcuni dei quali, a causa dei privilegi che rappresentavano, coincidevano con un interesse per la riproduzione del sistema capitalista. Allo stesso tempo, l’appropriazione di valore internazionale attraverso lo sviluppo dell’imperialismo rendeva più facile la cosciente frammentazione della classe operaia attraverso una gerarchia di ‘alti’ salari nei paesi imperialisti relativamente a quelli del Terzo Mondo. La social-democrazia nasceva così e si sviluppava come la forma politica e ideologica di (1) sezioni della classe operaia dei paesi imperialisti i cui interessi non erano più antitetici e quelli del capitale a causa dei loro privilegi, in verità il più delle volte limitati, e (2) sezioni delle altre classi subalterne, sempre dei paesi imperialisti.Tali sezioni formavano la base delle nascenti classi medie. A causa dei loro interessi oggettivi esse erano quindi intrinsecamente incapaci di diventare una forza radicalmente alternativa al capitalismo.

Tuttavia, esse potevano dar voce, anche se in maniera deformata, troncata, e privata delle sue aspirazioni di cambiamento radicale, alle rivendicazioni della classe operaia nella misura in cui le organizzazioni radicalmente e realmente alternative erano carenti o assenti. Quando ciò si avverava, e ciò vale ancor più oggigiorno, la social-democrazia era vista come l’organizzazione di tutta la classe operaia e poteva fissare il programma della sinistra nel suo insieme. Ma lo faceva (fa) non da un punto di vista di classe, cioè non concependo la società come divisa prima di tutto in classi definite in termini di relazioni di produzione. Piuttosto, la nozione di società sottostante la teoria e pratica della social-democrazia era strutturata attorno alle differenze di reddito e di occupazione, cioè puramente in termini distributivi sia di reddito che di potere. Il suo scopo era, ed è, quello di ridurre tali differenze il più possibile, compatibilmente con le esigenze del capitale, al fine di continuare a rappresentare le classi subalaterne. In mancanza di credibili alternative al sistema capitalista, una ideologia basata su tali miglioramenti può essere diffusa nella sinistra nel suo insieme. E quando la social-democrazia stessa diventa debole perché ha accettato le dottrina (neo)liberale (diventando così praticamente indistinguibile dai partiti più apertamente conservatori), fette consistenti della classe lavoratrice possono passare a partiti e movimenti decisamente di destra. Questa è la situazione attuale in Europa.

È importante sottolineare che le riforme social-democratiche, anche se sono il risultato delle lotte delle organizzazioni riformiste contro organizzazioni più apertamente conservatrici, sono rese possibili da precedenti lotte anti-capitaliste. In altre parole, tali riforme derivano dalla trasformazione, da parte delle organizzazioni (partiti o Stati) riformiste o talvolta da parte di organizzazioni più apertamente conservatrici, delle domande radicali - avanzate delle organizzazioni e movimenti alternativi - in misure compatibili con la riproduzione del sistema. Ogni stagione riformista è preceduta da periodi, più o meno lunghi, di aspre e radicali lotte popolari. Ciò vale anche per il modello social-democratico per antonomasia, quello svedese. Per molti decenni, e fino a non molti anni fa, la Svezia aveva il minor tasso di povertà e una dei maggiori tassi di eguaglianza nel mondo, per merito dei successivi governi social-democratici. Ma quando la social-democrazia svedese venne al potere, nel 1932, nel mezzo della grande depressione, essa aveva alle spalle decenni di lotte della classe lavoratrice svedese che era una delle più combattive al mondo. Basti ricordare gli scioperi generali del 1902, del 1909, del 1919, e del 1928. La combattività non diminuì durante la depressione, quando i tassi di sciopero furono molto alti e gli scioperi molto lunghi. Fu solo nel 1938 che i sindacati, con un accordo con gli imprenditori, divennero chiaramente gli agenti del capitale dopo aver segnato un accordo con cui essi si impegnavano a impedire che scoppiassero altri scioperi, in cambio di aumenti salariali automatici legati all’aumento della produttività. Ma torniamo allo stato Keynesiano.

Il capitalismo portò con sé non solo il costante scontro tra capitale e lavoro ma anche il ciclo economico e il periodico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutte le classi subalterne. Date certe condizioni politiche e di coscienza di classe, periodi di crisi possono portare ad un accresciuto livello dello scontro di classe. Per questo, il sistema, attraverso i suoi economisti, è alla ricerca, tanto costante quanto futile, di un ‘rimedio’ alle crisi. È in questo contesto che emerge lo Stato Keynesiano, dal nome dell’economista inglese Keynes. Negli anni 1930, lo Stato del benessere assume una forma modificata: mentre l’enfasi sulla ridistribuzione e sulle riforme rimane, un’altra dimensione viene aggiunta, quella delle opere pubbliche come un tentativo di regolamentazione del sistema e del ciclo economico capitalista. Lo Stato si appropria del valore prodotto dalla classe lavoratrice e lo usa per commissionare o per fare esso stesso opere pubbliche che creino sia occupazione che produzione. Questo è il Keynesismo di pace. Ma vi è anche un Keynesismo di guerra che è basato principalmente sulla produzione d’armi. Mentre i due tipi di Keynesismo coesistono sempre, la questione è quale delle due forme è prominente.

Quindi, lo Stato Keynesiano, nell’accezione di quest’articolo, è una forma più ampia e più storicamente specifica dello stato del benessere. Alla dimensione redistributiva e riformista, tipica dello Stato del benessere, lo Stato Keynesiano aggiunge la dimensione dello stimolo della produzione, dell’impiego, e della crescita del PIL, tramite lo Stato, ma non necessariamente da parte dello Stato.

Lo stato Keynesiano, e quindi del benessere, ha conosciuto la sua maggior espansione dopo la Seconda Guerra Mondiale, cioè dopo una parentesi in cui si passò dal Keynesismo di guerra a quello di pace. Questa grande espansione fu dovuta alla concomitanza di tre fattori.

- Primo, la distruzione delle economie europee, ma non di quella statunitense, richiedeva la loro ricostruzione attraverso un massiccio programma di aiuti da parte degli Stati Uniti e attraverso la ricostruzione delle infrastrutture e delle economie europee. Ciò richiedeva un massiccio ruolo organizzativo dello Stato.

- Secondo, le idee socialiste e comuniste erano diventate le aspirazioni di larghi strati popolari, in seguito sia all’emergere dell’Unione Sovietica e del suo ruolo fondamentale nel fermare l’aggressione nazista, sia all’orrore generalizzato per quanto i ‘campioni’ dell’anti-comunismo erano stati capaci di fare prima e durante la guerra. La ricostruzione imponeva quindi alti livelli d’occupazione e crescenti livelli di vita e quindi tutta una serie di riforme per poter dimostrare la ‘superiorità’ del capitalismo vis-à-vis il comunismo (o quello che si credeva essere tale).

- Terzo, la previa distruzione di valore tramite la guerra era stata immane. La ricostruzione, e quindi la ripresa della produzione di valore sulla stessa scala, doveva essere quindi di dimensioni tanto grandi quanto era stata la sua distruzione. Ma il valore e plus-valore deve essere non solo prodotto ma anche realizzato, cioè le merci che incorporano tale valore devono essere vendute. Da una parte, la realizzazione di tale valore era praticamente assicurata (1) dalla domanda interna (resa possibile da alti livelli di occupazione e dai crescenti livelli salariali e di profitti), (2) dalla domanda da parte europea e degli altri paesi avanzati dei beni e servizi necessari alla ricostruzione e che solo gli USA potevano provvedere, e (3) dalla decolonizzazione del Terzo Mondo che richiedeva beni e servizi e provvedeva mano d’opera a buon mercato. Queste grandi quantità di plusvalore prodotto e realizzato rendevano quindi possibile l’appropriazione da parte dello stato di una quantità sufficiente di plusvalore per finanziare sia attività ridistributive e riforme che politiche Keynesiane. Dall’altra, la crisi derivante dalla ridotta produzione e realizzazione di valore poteva essere anticipata e posposta a causa della guerra fredda e dalla distruzione di valore insista nella produzione delle armi. Infatti, nel sistema capitalista, il valore che non può essere realizzato può essere distrutto, eliminando cosi temporaneamente e parzialmente la crisi di realizzazione che conduce poi alla crisi di produzione. Il rinvio della crisi attraverso la Guerra Fredda (la distruzione del valore eccedente) rese possibile il prolungamento del periodo di crescita economica e quindi del periodo delle riforme e della social-democrazia.


[1] Queste definizioni sono ovviamente solo in termini economici.

[2] Per un approfondimento di alcuni dei temi trattati più sotto, il lettore può consultare Teeple, 1995.

[3] A parte le apologie, le discussioni più serie su questo punto si focalizzano su se le tasse pagate dalla classe lavoratrice siano più o meno del valore dei servizi sociali ricevuti da essa, cioè se vi sia un trasferimento netto dai lavoratori allo Stato o viceversa. Ma siccome lo Stato ridistribuisce valore (nella forma di servizi sociali) precedentemente prodotto solo dalla classe lavoratrice, un trasferimento netto dallo Stato al lavoro significa solo che, a conto fatti, meno valore è sottratto a tale classe.