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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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Il declino dello Stato keynesiano

Guglielmo Carchedi

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Verso la metà degli anni 1970, con l’emergere del lungo ciclo di stagnazione e di crisi mondiale che sta ancora perdurando, le basi economiche dello Stato Keynesiano (grandi e crescenti masse di plusvalore) incominciano ad incrinarsi. Allo stesso tempo, le nuove tecnologie vengono usate non solo per aumentare la produttività (con conseguente perdita di occupazione) ma anche per dequalificare mansioni precedentemente qualificate (la proletarizzazione di tecnici, impiegati, ecc.). Ciò contribuisce a provocare inizialmente grandi stagioni di lotte operaie che, tuttavia, si spengono quando, dalla metà degli anni 1970 e poi ancora di più negli anni 1980, le condizioni economiche mutano (vedi sotto), i grandi movimenti sociali si esauriscono, e la resistenza della classe operaia viene prima incrinata e poi frantumata. A questo punto, lo Stato Keynesiano incomincia la sua lunga marcia discendente, il Keynesismo cade in disgrazia, e i partiti social-democratici o si sgretolano o diventano praticamente indistinguibili dai partiti più apertamente conservatori e neo-liberali. La scelta tra la ‘destra’ e la ‘sinistra’ (esclusione fatta per partiti di sinistra minori, sopravvissuti alle sconfitte degli anni ’70 e ’80 e per i nuovi movimenti sociali) più che una scelta di campo diventa una scelta di immagine. I risultati per la classe lavoratrice internazionale sono catastrofici. La disuguaglianza economica, tra i paesi dominanti e quelli dominati, all’interno di ciascuno di questi due blocchi, e all’interno di ciascun paese dei due blocchi, cresce a livelli mai visti nella storia dell’umanità; la tendenza verso l’inquinamento, in parte scaricato dai paesi imperialisti su quelli dominati, si approfondisce; i salari e gli stipendi sono presi d’assalto mentre gli incrementi dei profitti non si traducono in investimenti produttivi: al contrario masse enormi di denaro si riversano sulle piazze finanziarie e in attività speculative o addirittura criminali. E lo Stato, verso la fine del secolo precedente e l’inizio di quello attuale, con quello statunitense in testa, lascia il Keynesismo di pace per buttarsi nel Keynesismo di guerra. La social-democrazia sembra essere moribonda, incapace di opporre anche una minima resistenza alla marcia devastatrice del capitale. Ma questa marcia non è senza ostacoli. Alle forze di sinistra che hanno tenuto e continuano a tenere contro il dominio del capitale, si sono aggiunti nuovi movimenti, contro-movimenti, e lotte di varia natura, anche se le difficoltà che essi incontrano sono enormi sia a causa del potere del nemico che a causa della loro intrinseca debolezza.

Per coloro che rimpiangono lo Stato Keynesiano e che, giustamente, si oppongono al neo-liberismo e al dominio sfrenato del capitale privato, è opportuno segnalare che lo Stato Keynesiano è possibile solo quando sono presenti certe condizioni sociali e economiche (vedi sopra). Esso non fu il risultato di un compromesso tra capitale e lavoro nel loro insieme attraverso l’intervento statale. Esso fu il risultato di un compromesso tra il capitale e quelle sezioni della classe operaia e delle classi subalterne dei paesi imperialisti che si lasciarono cooptare e che furono cooptate nel sistema. Esse, nel perseguire i loro interessi immediati e miopi, non si resero conto che i vantaggi derivanti da tale cooptazione (vantaggi in termini di reddito, ecc.) sarebbero stati ben minori degli svantaggi che sarebbero sopraggiunti quando le condizioni per il mantenimento di tale compromesso sarebbero venute a mancare (la crisi). Esse non si resero neanche conto che la dimensione nazionale dello Stato Keynesiano nascondeva (per chi non voleva vederla) la dimensione internazionale del suo finanziamento, cioè la stretta relazione tra lo Stato Keynesiano nei paesi imperialisti e il flusso di valore dai paesi dominati che era un elemento molto importante per mantenerlo. La cooptazione di frazioni delle classi subalterne nei paesi imperialisti richiedeva quindi la loro negazione della solidarietà internazionale.

Infine, non si resero conto che, come si vedrà in un prossimo articolo, è lo Stato Keynesiano stesso che getta le basi per le crisi susseguenti e quindi per il suo stesso declino. Per anticipare, lo Stato Keynesiano può posporre le crisi attraverso degli investimenti (politiche anti-congiunturali) che conducono ad un temporaneo aumento dell’occupazione, del reddito, del PIL e quindi della domanda. Tuttavia, l’investimento statale del valore appropriato e necessario per tali politiche diminuisce il valore prodotto. La crisi quindi si nasconde dietro agli investimenti Keynesiani ed è alimentata da essi, anche se la crisi emerge solo dopo un certo periodo di tempo. Ma tali politiche sono possibili solo in una lunga fase di crescita economica quando (1) a causa dell’alta produttività, la diminuzione dei salari in termini di valore non incide sul livello salariale in termini di valore d’uso (la percezione empirica del livello salariale) e (2) dati gli alti tassi di profitto, la loro diminuzione non conduce (inizialmente) a serie difficoltà economiche e bancarotte. Quindi lo Stato Keynesiano è oggettivamente possibile solo in una lungo ciclo ascendente. Esso non libera i lavoratori né dal rapporto col capitale né dal mercato. Al contrario, esso è esplicitamente teorizzato come una condizione per il mantenimento delle relazioni di produzione, e quindi di realizzazione e di consumo, capitaliste.

I miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice, prodotti dalle politiche Keynesiane, anche se temporanei e limitati, sono legittimi obiettivi della lotta di questa classe. Ma essa dovrebbe essere sempre cosciente della natura di classe di tali riforme, e cioè (1) che esse sono possibili solo se le condizioni oggettive sopra menzionate sono presenti, (2) che esse vengono finanziate dalla classe lavoratrice stessa [1], e (3) che esse non possono evitare la crisi, i cui costi saranno pagati dalla classe lavoratrice stessa attraverso un aumento del tasso di sfruttamento (tagli di bilancio per servizi sociali, flessibilità, riduzioni salariali, aumenti del ritmo di lavoro, ecc.).

Non sono le riforme e le politiche anticongiunturali che dovrebbero essere rifiutate ma l’analisi (che non è quella basata sulla produzione di valore e plus-valore) e la prospettiva (che è quella social-democratica, riformista) entro cui tali politiche e riforme sono inquadrate. Solo così si può superare la contraddizione insita nelle riforme capitaliste, cioè quella di essere un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice e delle classi subalterne in genere (anche se di natura temporanea) e di essere allo stesso tempo un fattore della riproduzione del sistema capitalista. Se non si percepisce questa contraddizione si cade in uno dei suoi due opposti poli e si vede o solo la funzione riproduttrice del sistema o solo il miglioramento delle condizioni delle classi subalterne, aprendo così la via all’illusione che di riforma in riforma (tutte riforme all’interno dell’ottica capitalista) si possa raggiungere ad un certo punto un sistema sociale alternativo.

Si fa un gran parlare oggigiorno della natura della fase di sviluppo in cui ci si trova. Si parla di un cambiamento da un sistema imperialista a uno incentrato sulla globalizzazione, o dall’imperialismo cosiddetto classico all’Impero negriano, da un modo di produzione basato su processi semi-automatizati ad uno basato sulla cosiddetta terza rivoluzione scientifica e tecnologica, da un capitalismo marcato dalle contraddizioni di classe ad un capitalismo in cui tali contraddizioni sono sparite, e di altre simili sciocchezze. In verità mentre il capitalismo rimane quello che è e che è sempre stato, vi è un importante mutamento, cioè ciò che è cambiato è la forma delle contraddizioni di classe. Più precisamente:

1) da un punto vista nazionale sono mutate le condizioni che avevano reso possibile il compromesso di classe di marca Keynesiana nei paesi imperialisti; la crisi economica subentrata nella metà degli anni 1970, ha eroso le possibilità di finanziamento di tale compromesso; e

2) dal punto di vista internazionale si è passati da un sistema bipolare ad un imperialismo basato su blocchi sia presenti che emergenti ed in cui gli USA hanno un predominio mondiale, anche se tale predominio è ancora pressoché assoluto solo nella sfera militare. Il che spiega il ricorso alla guerra da parte degli USA come metodo anticiclico.

Ma la distruzione di valore contenuto in beni per uso civile (infrastrutture, ecc.) e la loro susseguente ricostruzione, e quindi la produzione e realizzazione di valore, devono avvenire su una scala gigantesca, se devono sollevare un’economia delle dimensioni dei quella statunitense dal pantano economico. Per di più, anche la distruzione di valore implicita nella produzione di armi deve essere di grande scala.

Queste condizioni non sono attualmente presenti.

La ricostruzione dell’ Iraq, tanto per fare un esempio, è come la puntura di un moscerino sul corpo elefantesco dell’economia USA e la produzione di armi negli USA (che ne producono di più di tutti gli altri paesi messi assieme) è del 5% del loro PIL, ben inferiore al 13% degli anni 1950. Di qui l’enorme pericolo reale di una grande esplosione su scala mondiale di cui la guerra permanente, o infinita, di Bush è solo una pallida ante-prima.

Bibliografia

Carchedi, G. (1977), On The Economic Identification Of Social Classes, Routledge and Kegan Paul, London

Carchedi, G. (1983), Problems In Class Analysis. Production, Knowledge And The Function Of Capital, Routledge and Kegan Paul, London

Carchedi, G. (1987), Class Analysis And Social Research, Basil Blackwell, Oxford

Carchedi, G. (1991), Frontiers of Political Economy, Verso, London, 1991

Teeple, G. (1995), Globalization and the Decline of Social Reform, Humanity Press, New Jersey.


[1] In Svezia, per esempio, dal 1965 al 1975 metà delle case furono ricostruite. Ma i fondi vennero dai fondi pensione dei lavoratori, piuttosto che da quelli dei capitalisti. Oppure, l’alta tassazione necessaria per finanziare lo Stato del benessere si applicava in effetti solo alla classe lavoratrice, mentre le tasse sui profitti aziendali erano tra le più basse del mondo.