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Trasformazioni sociali e sindacato

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Sabino Venezia
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Dalla tutela dei diritti degli operatori sanitari alla tutela del diritto dei cittadini alla salute

Sabino Venezia

Elementi di riflessioni sul percorso (dalla resistenza all’alternativa) di trasformazione delle politiche sanitarie nell’attuale processo neoliberista

Alcune parti del seguente articolo sono tratte dal documento presentato dalla RbB Pubblico Impiego, settore Sanità, al Forum Europeo sulla Salute tenutosi lo scorso Dicembre a Parigi

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1. Come distruggere lo Stato sociale

I processi di radicamento delle politiche neoliberiste degli ultimi anni in Italia ed in Europa, hanno determinato un profondo indebolimento del ruolo dello Stato nelle dinamiche sociali. Se indubbio appare, da svariati sondaggi, il deleterio riassetto del mondo del “sapere e del conoscere”, dal riordino dei cicli scolastici al finanziamento pubblico delle scuole private, non altrettanto palesemente catastrofico viene percepito il cambiamento del servizio sanitario nazionale pubblico; a tale proposito appare emblematica la politica dei “buoni sanitari” che, al pari dei “buoni pasto” costringe i più ad un rapporto tipicamente merceologico con la salute, cancellando definitivamente il concetto di prevenzione e innescando un meccanismo di “democrazia virtuale” che individuerebbe nel cittadino l’unico artefice della scelta di curarsi presso una struttura pubblica o privata; pari merito va anche dato alle politiche di delegittimazione del sistema pubblico nel suo complesso, che nel nostro campo si concretizza nel ricorso affannoso all’individuazione degli eventi di malasanità, senza mai ricercare le cause nelle condizioni di vita e di lavoro degli operatori e senza mai uno studio del rischio, della “mal pratica”, che è fondamento di crescita professionale, in altri paesi, per molti operatori.

Le politiche di contenimento della spesa, diretta conseguenza non di una attenta valutazione degli sprechi né tanto meno dei fenomeni “tangentari” che continuano a vedere indagati molti amministratori pubblici, ma indispensabile viatico alle politiche europee (meglio ancora alla creazione di una “forte” politica economica del vecchio continente), individuano una strategia di ridimensionamento (economico) del ruolo dello Stato nella spesa sociale che trova nella sanità un idoneo terreno di sperimentazione.

Si è passati così dalle politiche di partecipazione del cittadino alla spesa sanitaria (è il ticket il primo strumento di mercificazione della salute, più spesso della malattia) al “libero mercato della salute”, dove pubblico e privato sono apparentemente competitivi.

Si ridimensiona, dicevamo, il ruolo del capitale di Stato nel sistema sanitario ma non il ruolo dello Stato come espressione politica di potere; restano ben salde le pratiche di individuazione politica dei manager al pari di quelle dei responsabili delle massime articolazioni gestionali dei sistemi aziendali e si sviluppa un assistenzialismo economico di Stato nei confronti di quel privato consolidato (il centinaio di milioni di euro all’Ospedale Banbino Gesù di Roma) che può non tener conto delle politiche di mercato, della competitività, dei vincoli di spesa e delle procedure.

Lo Stato sociale, oggi, non è più compatibile con i parametri di sviluppo neoliberista.

Lo scopo di massimizzare il profitto, tipico del rapporto capitalistico, trova fertile terreno sempre: nell’economia postfordista e nel periodo precedente con una economia tipicamente fordista; in questo ultimo la massimizzazione del profitto era assicurata da una crescita dello Stato Sociale che consentisse anche alle classi meno abbienti di consumare e comprare, il salario assumeva così valore di costo ma anche di reddito e ciò ha significato godere di molti servizi sociali (come scuola e sanità). (Sulla presunta gratuità del servizi ci sarebbe comunque da ridire: si è fruito di diritti solo in termine di riappropriazione del salario indiretto, quindi del plusvalore estorto).

Nella fase attuale, complici anche le politiche di concertazione, il salario diventa solo un costo da ridurre, il più possibile.

Lo Stato sociale (redistributore di reddito e/o creatore di reddito) diventa causa del costo eccessivo del lavoro e, al tempo stesso, del denaro.

L’obiettivo di destrutturate lo Stato sociale si concretizza nella trasformazione di quest’ultimo in Stato di Profitto, Profit State.

Lo Stato si trasforma in Impresa e anche i diritti vanno ricondotti in un margine di compatibilità economica.

Questo sistema si caratterizza con l’aumento (funzionale) della disoccupazione (non si capirebbe altrimenti la grande presenza di infermieri in cerca di occupazione in un quadro di carenza generalizzata di tali professionisti, la c.d. emergenza infermieristica), con la precarizzazione del rapporto di lavoro, la negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro, l’attacco al salario: tutte forme di ricatto e pressione che dequalificano gli operatori dell’assistenza sanitaria e li riconducono ad un ruolo marginale che ormai in molti racchiudono nel termine di “paramedico”(e che volge verso quel modello clerico assistenziale in cui la funzione principale era rappresentata dalla dedizione ad assistere un bisognoso, lontana e solo marginalmente di ausilio a quel complesso di professionalità che fanno oggi di molti operatori professionisti insostituibili).

In questo complesso di ristrutturazione capitalistica tipica del passaggio dalla fase fordista a quella postfordista, anche lo Stato sociale si trasforma, come dicevamo, in Impresa (Profit State) assumendo come fondamento la logica del mercato, a garanzia del profitto, trasformando i diritti sociali in elargizioni (BONUS) e attivando una serie di strumenti quali:

• la precarizzazione dei rapporti di lavoro,

• la negazione delle garanzie (già diritti),

• la flessibilità del lavoro,

• la riduzione dei salari (a nulla valgono gli incentivi, gli straordinari, i premi di produzione, servono solo a nascondere le contraddizioni dell’attuale modello di produzione capitalistico).

 

2. Lo schiaffo del sindacalismo confederale ai lavoratori

Mentre la CGIL si “maschera” da strumento politico-sindacale di opposizione agli interessi governativi (non certo a quelli del capitale), la CISL e la UIL si propongono in chiave di mediazione, quasi a mitigare i risvolti indispensabili del nuovo sistema capitalistico, in questo “balletto delle parti” non si modifica lo strumento concertativo né le altre specificità di fondo che continuano ad accomunare “i tre”; se la mancata (e criminalizzata) sottoscrizione del Patto per L’Italia da parte della CGIL ha fatto sperare i più ad una forma embrionale di rinascita del sindacato di classe, l’ostracismo al referendum sull’ampliamento dell’art.18 a tutte/i, la sottoscrizione dell’accordo del 4 Febbraio 2002 (con tanto di previsione di licenziamento dei dipendenti della P.A.), quello sul lavoro interinale (questi ultimi due ad opera della sinistra CGIL) e la recente gestione della vertenza degli autoferrotranviari per il rinnovo del contratto (tenuto al ribasso dai confederali ormai ignari delle necessità dei lavoratori) ci fanno realmente comprendere che il ruolo antagonista non interessa questa organizzazione.

Diventa quindi chiara la “sussidiarietà” del sindacalismo confederale ai Governi, anche nella fase attuale; un ruolo di blando contenimento delle politiche neoliberiste, strapagato con la gestione dei fondi pensione, del collocamento e della formazione continua.

 

3. Il Sistema Sanitario Pubblico in Italia

In Italia, senza dubbio una delle più importanti conquiste delle lotte di massa degli anni 60-70 è la conquista del Servizio Sanitario Nazionale, che cancella lo status precedente della sanità in questo paese fatto di mutue e di feudi ecclesiastici e non, concretizzatosi con la legge 833 del 1978, i cui principi cardine sono la garanzia per tutti i cittadini di avere diritto, in tema di salute, alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione.

Una legge quindi che parte dai bisogni della popolazione, rispetto ai quali lo Stato si fa garante del suo soddisfacimento, senza delegare nulla a soggetti terzi.

La vera rivoluzione in qualche modo sta nell’aver messo in relazione tutti gli aspetti che riguardano la sfera della salute, aver determinato che la cura non è slegata dalla prevenzione ma anzi tra le due fasi esiste una forte correlazione; così come il trattamento di un paziente in fase acuta non si limita alla soluzione di questa fase ma prevede che sia lo stesso SSN ad assicurare la fase della riabilitazione.

Il primo sconvolgimento alla riforma sanitaria viene attuato attraverso la legge delega 421 del 1992, concretizzatasi nel D. Lgs. 502 del 1992, in attuazione del trattato di Maastricht per il quale è indispensabile ridurre il debito pubblico per partecipare all’unione economico-monetaria europea. Il capitale si riconferma quindi come il primo elemento unificante delle politiche della nuova Europa Comune, non le libertà o i diritti negati, sono a dividere il campo tra chi può e chi non può far parte della nuova super
 potenza, bensì il fattore economico.

Il principio su cui si riforma (se preferite si distrugge) il precedente assetto del SSN è che il bisogno di salute del Paese viene subordinato a criteri economicistici che si concretizzano nell’individuazione di quote capitarie di finanziamento; queste, individuate dalla legge finanziaria, determinano il tetto economico entro il quale vanno garantiti i diritti sanitari.

Il “bisogno” viene subordinato alla compatibilità economica e il Servizio Sanitario Nazionale, istituito con la Legge 833 del 1978 comincia ad essere messo in discussione.

Proprio come oggi è la compatibilità economica del cittadino ad optare per una lista di attesa di 6 mesi o per un trattamento in intramoenia nello stesso servizio pubblico ma a pagamento in forma “privata”.

La strategia di trasformazione fa perno su 3 elementi strutturali:

• la regionalizzazione della sanità (che va di concerto con la politica del federalismo)

• l’aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (modello di gestione pseudo-socetario che favorisce i processi di privatizzazione)

• il finanziamento pubblico alle strutture private ed alle assicurazioni.

1)REGIONALIZZAZIONE DELLA SANITà

Il primo elemento teso a smantellare il SSN fa perno sulle politiche federaliste.

Le politiche fiscali e quelle sanitarie vengono allontanate dal governo e circoscritte in un ambito locale, quello regionale, con l’obiettivo di creare 21 Servizi Sanitari Regionali, diversi non per le diverse necessità di bisogno, bensì per diverse possibilità di bilancio.

Il nuovo assetto regionale si delinea da subito con una propria autonomia, anche fiscale, un esempio della portata dell’operazione è sicuramente rappresentato dal “titolo” che viene attribuito ai nuovi Presidenti delle Regioni:Governatori, che nel nostro Paese ricorda ruoli istituzionali tipici del ventennio.

Lo Stato perde quindi la possibilità ed il diritto di programmare e verificare il riequilibrio territoriale delle condizioni sanitarie della popolazione nonché di verificare livelli uniformi di assistenza su tutto il territorio nazionale, anche se sostanzialmente ancora viene esercitata questa funzione con il Piano Sanitario Nazionale e con il Fondo Sanitario Nazionale.

L’obiettivo principale, la riduzione della spesa sanitaria, si attua:

• con la notevole riduzione del fondo sanitario nazionale che il Governo destinava quota parte alle regioni,

• con il federalismo fiscale che pone le Regioni nella condizione di imporre tasse e devolverle per i bisogni di salute.

Il primo esperimento di autonomia regionale in tema sanitario lo conduce la Lombardia, il Governatore, con uno specifico indirizzo a sostegno della sanità privata e degli ospedali accreditati, determina, nel quinquennio ’95-’99, un incremento del 3,6% di ricoveri nelle strutture pubbliche e del 58% in quelle private il tutto conseguenza di una politica di finanziamenti pubblici (a proposito del fatto che lo Stato non deve più essere assistenzialista) pari al 12.7% per il servizio pubblico e al 45.6% per quello privato.

La Lombardia ha naturalmente sforato il tetto di spesa previsto.

Il percorso federalista si accelera con l’attuale Esecutivo che mette mano definitivamente alla riforma del titolo V° della Costituzione lasciando allo Stato il ruolo esclusivo di normare i livelli essenziali in termini di diritti civili e sociali (art.117 lettera m) e affidando alle Regioni la potestà legislativa in termini di “tutela della salute”. La scelta della politica “pattizia” produrrà innumerevoli accordi in sede di conferenza Stato-Regioni ma non eviterà “episodi di mancato rispetto da parte del Governo dell’intesa e da parte del Parlamento di violazioni del dettato costituzionale”, come rivelerà un dossier della segreteria della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, il problema di fondo è di 12 miliardi di fondi “appesi a un filo” e 1,7 miliardi di interessi passivi pagati dalle Regioni per colpa dei ritardi nelle assegnazioni dei fondi già concordati con il Governo centrale.

Se il timore, nell’ottica lesiva dell’universalismo del sistema, poteva essere rappresentato solo dall’ipotesi di 21 sistemi sanitari diversi e concorrenti (alla faccia dell’universalità) ben altre sono le sciagure attese, l’azione normativa-economica del Governo non si divide in due, a favore delle Regioni, ma si raddoppia: Governo e Regioni hanno potere Legislativo (che innescherà innumerevoli problemi di compatibilità e costituzionalità, solo negli ultimi mesi i contenziosi presso la Corte costituzionale sono cresciuti del 500%) e al tempo stesso economico: lo Stato con le inevitabili manovre di “riparto” (in particolar modo verso le Regioni più povere) e le Regioni con il federalismo fiscale.

2) L’AZIENDALIZZAZIONE DELLE USL

Nell’ottica dello smantellamento del SSN un ulteriore attacco, dal basso, viene sferrato nei confronti delle strutture sanitarie di base, le Unità Sanitarie Locali; queste, pur conservando lo status di “personalità giuridica pubblica”, acquisiscono autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.

Al vertice di queste nuove aziende “simil privato”, viene posto un Direttore Generale con esperienza manageriale maturata in aziende e/o imprese, anche private, non necessariamente in campo sanitario, con ampi poteri e responsabile dell’andamento economico della nuova “impresa”.

Il manager è assunto dalla Regione (organismo politico) con contratto di natura privata e sceglie tra i propri collaboratori (con eguale contratto) un Direttore Sanitario ed un Direttore Amministrativo. Nella concezione aziendale il manager è rappresentato dall’imprenditore, un imprenditore per conto dello Stato che determina “profitto”: proprio (con stipendi adeguatissimi) e per il Profit State.

L’imprenditore è una istituzione economica capitalistica e ha una funzione di classe che esiste indifferentemente dalla struttura di impresa intesa in senso classico o meno. È quindi utilizzabile anche nel sistema Profit State (e quindi in Sanità) perché compatibile con le istituzioni economico - sociali, nelle quali opera, attraverso processi decisori, per realizzare obiettivi prefissati (dal quadro politico).

Il processo di aziendalizzazione ci orienterebbe quindi verso un nuovo strumento gestionale, in effetti nasconde tante sostanziali aperture al modello liberista (come la possibilità da parte delle USL di accesso a finanziamenti da privati).

Aziendalizzazione e privatizzazione per cancellare la dignità

La concezione “aziendalistica” del fare sanità nel paese viene assunta a strumento di controllo della gestione; non uno studio epidemiologico, non una indagine conoscitiva sembra supportare l’applicazione, spesso eterogenea, di modelli manageriali che, al pari di una “fabbrica di bulloni”, possa ricostruire un equo rapporto costi / benefici.

Obiettivo finale, mitigato in itinere dai governi di centro sinistra e accelerato recentemente dall’attuale esecutivo, è, e resta, l’entrata del capitale (altro) privato nel sistema PUBBLICO, operazione che non può avvenire se non preceduta da un radicale ridimensionamento dei diritti dei lavoratori e dei cittadini e senza un altrettanto pesante intervento di contenimento delle politiche salariali, con grave responsabilità del sindacato confederale che ha pesantemente contribuito alla cancellazione dei diritti nella logica dell’adeguamento alle politiche europee (basta ricordare il contro senso della battaglia di Cofferati sull’articolo 18 e la sottoscrizione CGIL dell’accordo del 4 Febbraio).

Il modello aziendaliforme ha sostanzialmente fallito i sui obiettivi principali specialmente se comparato ad un fenomeno di indebitamento delle finanze che non ha paragoni. Anche il sistema “Lombardo” concepito contemporaneamente ma in alternativa all’ ultima riforma sanitaria (Bindi III) non ha prodotto un risparmio di gestione, ma è ugualmente riuscito a disgregare il principio universalistico di sanità pubblica.

Attualmente ci si orienta verso una esperienza imprenditoriale che chiuda definitivamente i rapporti con un timido approccio al sistema “privatistico” e ne ridisegni complessivamente i presupposti sul reale modello liberista (mercato/profitto).

Anche se diamo per scontato il reale pericolo che tale strisciante modello rappresenta, appare tuttavia indispensabile soffermarci brevemente sul concetto di “sistema privatistico; l’aspetto che più ci ha sorpreso durante i lavori della sezione specifica del recente Forum Sociale Europeo di Firenze dello scorso Novembre, lo hanno rappresentato i compagni Francesi nel difendere, devo dire con sufficienti argomentazioni, il modello privato - convenzionato d’oltralpe; diciamo subito che un modello simile non appare praticabile in un sistema comune Europeo, tuttavia le contraddizioni in tema di ipotesi e di applicabilità ci hanno indotto a formulare alcune domande:

Cosa intendiamo per privatizzazione della sanità?

È possibile tracciare con certezza un momento di inizio di tale processo in Italia?

Sicuramente le ipotesi di gestione totale e diretta del complesso sistema assistenziale e terapeutico in mano ai privati, non è funzionale alle necessità del capitale; immagino i “margini di guadagno” di una cardiochirurgia privata, di una terapia intensiva di neurochirurgia oncologica o di un centro trapianti di organo e reputo poco probabile l’ipotesi di un percorso totale di privatizzazione (anche se non lo escludo se inserito in sistemi modulati di ricerca e sperimentazione);

Tuttavia il termine “privato” ci incute terrore, nel privato il profitto giustifica tutto, ma lo stesso modello lo persegue il Profit State; nel privato il padrone può permettersi di licenziarmi quando vuole, ma anche nel pubblico è previsto in forma più mitigata (o giustificata); nel privato si ricovera prevalentemente quello che produce più profitto, ma anche nel pubblico i parti cesarei sono arrivati a livelli del 40% perché più remunerativi in termini di DRG dei parti spontanei; nel privato si assumono i Co. Co. Co., gli interinali, le ditte in sub-appalto, società create ad arte come scatole cinesi per evadere, eludere, ma anche nel pubblico; in molti dicono: “si certo ma l’ospedale è pubblico” ed è arrivata la cartolarizzazione; sei curato da un servizio pubblico, che si regge anche su investimenti delle case farmaceutiche interessate a sperimentare, curare, brevettare e vendere quello che dicono loro. Cosa devono fare per farci capire che il sistema è ormai privato?! Farci pagare il ticket sulle prestazioni, che è una forma per arrotondare gli interessi del capitale, al quale probabilmente non servono quei soldi ma serve l’effetto mediatico che rappresentano in funzione di modifica delle aspettative e di perdita della dignità dei cittadini. Perché si perde la dignità di esseri umani a trascorrere 4, 5, 6 ore in un pronto soccorso per un malore e ancora di più a pagare il ticket perché non sei così grave da meritarti il ricovero.

Non ci interessa rivendicare un servizio pubblico, perché è un obiettivo e sarà nelle cose, noi rivendichiamo il percorso: un servizio di DIGNITA’, essere trattati, operatori e cittadini, con DIGNITA’, la nostra lotta è contro la negazione della dignità e se i cattivi, i potenti, i padroni, si identificano con il capitale, noi ci identifichiamo con la dignità, noi siamo la dignità che lotta per la dignità e contro il capitale. “ La lotta per la dignità è la lotta per creare una società fondata sulla dignità, in luogo di quella fondata sulla sua negazione”.

3) DAL SERVIZIO PUBBLICO AL FINANZIAMENTO PUBBLICO DEL SISTEMA DELLE ASSICURAZIONI E DELLE STRUTTURE PRIVATE

Nella Legge di riforma si introduce il concetto di “forme differenziate di assistenza” riabilitando le mutue e le assicurazioni private.

Il riferimento è al sistema inglese dove nel privato, grazie alle assicurazioni, si verificano questi percorsi: i ricchi vengono curati fino all’eccesso, dentro le cliniche private ovviamente (da loro si ottengono grandi margini di profitto per le assicurazioni) e generalmente su patologie di minore importanza e gravità, quindi con assenza di mortalità, per quanti non possono permettersi tale opzione, è garantita l’emergenza del trattamento, eludendo la possibilità reale di fare prevenzione.

Le mutue e le assicurazioni intervengono, in questa fase, con due obiettivi:

• nel concorso della spesa delle prestazioni a pagamento

• nella facoltà di negoziare, con gli erogatori delle prestazioni del SSN, modalità e condizioni di tali prestazioni per garantire “qualità e costi ottimali”, con questo scopo, le Regioni possono dare vita “ a società miste con capitale pubblico e privato”.

Un analogo sistema, da molti definito una evoluzione del modello “assicurativo”, si affaccia sullo scenario della sperimentazione dei modelli economici di gestione della sanità (e della ricerca scientifica) ed è rappresentato dalle FONDAZIONI.

Il primo approccio è riservato agli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) che non entrano nel modello ASL /AO ma nella gestione di un Consiglio di Amministrazione composto da nomine pubbliche (ministero, regioni, comuni) ma anche da “privati mecenati”; avranno la possibilità di appaltare i servizi assistenziali ai privati che dovranno però impegnarsi (i privati) a non “selezionare pazienti e prestazioni in base a criteri di remuneratività” (un po’ quello che succede negli ospedali da quando sono stati inseriti i DRG, molti dipartimenti dichiarano complicanze di patologie, ad esempio, per percepire una aliquota economica maggiore); potranno infine dedicarsi ad “attività strumentali diverse” finalizzate a conseguire utili da reinvestire nei propri servizi (se non bastassero ad esempio gli utili della ricerca-sperimentazione farmaceutica).

Un ennesimo modello di “utilità pubblica di capitale privato”(?!) ma dove in effetti la ricerca e la sperimentazione (che in sanità si fanno su esseri umani) sono funzionali al profitto e dalle logiche di profitto sono indirizzate, sviluppate e decise.

Di notevole importanza, in questa fase del processo di privatizzazione, è l’inserimento della possibilità per il singolo medico, ma a breve anche per gli altri professionisti della sanità (infermieri, ostetriche, ecc.) di effettuare prestazioni in intramoenia (a pagamento diretto, con una quota riservata all’azienda pubblica); quella che viene definita una strategia operativa per la risoluzione dell’annoso problema delle insostenibili liste di attesa per ricoveri e prestazioni (per il 62,8% degli intervistati dal CENSIS il problema più grave della sanità pubblica) è in realtà uno strumento che permetterà a mutue e assicurazioni private, convenzioni dirette con i “prestatori d’opera”.

La risultante sarà l’aver ridisegnato un sistema sanitario differenziato solo dalla capacità economica del soggetto che necessità della prestazione; più reddito corrisponderà a migliore prestazione.

Nel corso degli anni assistiamo ad un tendenziale rallentamento dei processi di modifica anche a giustificazione della necessità che il devastante processo venga “assorbito” come elemento culturale.

Il periodo è caratterizzato da una fase di sperimentazione dei modelli attuativi, anche diversificati a seconda delle Regioni e quindi delle capacità economiche; particolare importanza assumono la già citata Legge 31 della Lombardia (governata dal centro-destra) e la legge 35 dell’Emilia Romagna (governata dal centro-sinistra) che se pur seguendo strade diverse faranno da apripista alle politiche liberiste e federaliste più avanzate.

Questa logica è più evidente in Lombardia dove le scelte sono fatte di “tanto” privato (debitamente finanziato dalpubblico), di “titoli per l’acquisto di servizi” (assegni di cura e buoni-servizio) e di gratuite condanne del sistema pubblico, sempre più depotenziato e reso al limite della fruibilità.

Riteniamo però che la strada seguita dall’Emilia sia la più pericolosa perché è quella che tenta di mistificare il processo come se lo stesso fosse un fatto ineludibile per mantenere in vita il servizio pubblico (e la recente operazione toscana delle società della salute non è da meno).

La pesante realtà è sotto gli occhi di tutti e l’allora Governo di centro-sinistra, ormai allo sbando, gioca la carta della riforma (in sanità come nella scuola) tentando di fornire adeguate (e credibili) risposte al paese, evitando di fare troppo i conti (almeno nella sanità) con le politiche neo-liberiste che a livello europeo caratterizzano le compagini di centro-sinistra rischiando (anche se debolmente) di fare veramente gli interessi dei meno facoltosi.

LA RIFORMA TER

In un quadro di liberismo così sfrenato giunge quasi inattesa la riforma ter, il decreto legislativo 229 del 1999, il quale, pur tra mille contraddizioni, rappresenta un momento di ripensamento rispetto alle politiche precedenti che trasformavano sempre più la salute in una merce e le politiche sanitarie in uno strumento finanziario per il risanamento del debito pubblico del paese, attraverso le politiche di apertura alla sussidiarietà e dei tagli (tagli di spesa e imposizione dei ticket).

In particolare possiamo individuare in due punti la svolta che rompe con le logiche precedenti e che caratterizza in modo positivo questa riforma:

Il recupero dei presupposti fondamentali della prima riforma sanitaria, la 833/78, attraverso la riaffermazione dei primi due articoli della riforma stessa; recuperando quindi essenzialmente il principio di universalismo del diritto alla salute.

Nello specifico ciò si concretizza ridando spazio nella fase decisionale agli ambiti territoriali più vicini alle popolazioni, i comuni e riposizionando in modo corretto i distretti territoriali come servizi essenziali e strumenti principali dell’attività sanitaria, riducendo di numero le Aziende Ospedaliere e riportando queste strutture alla gestione delle Aziende Sanitarie Locali.

Nel contempo introduce per la prima volta in Italia il concetto di rapporto esclusivo di lavoro per i medici, anche se prevede per gli stessi l’utilizzo delle strutture pubbliche per la cosiddetta libera professione intramuraria (mitigata questa decisione da una regolamentazione che dovrebbe comunque garantire lo sviluppo in primis della struttura pubblica).

Secondo punto strategico è il varo in contemporanea, con la riforma-ter, del Piano Sanitario Nazionale che riafferma il ruolo del SSN come strumento per soddisfare il bisogno di salute dei cittadini.

Purtroppo contestualmente viene anche approvata dal parlamento la riforma fiscale in senso federalista, la quale prevede, nell’arco di pochi anni, il superamento del Fondo Sanitario Nazionale che di fatto produrrà un finanziamento differenziato su base regionale della spesa sanitaria.

Questa nuova impostazione, pur se limitata e non del tutto dirimente rispetto al modello di sanità che si vuol perseguire, determina il quasi immediato isolamento del ministro Rosy Bindi nel governo di centrosinistra e poco dopo la sua sostituzione con il Prof. Umberto Veronesi che viene presentato come la panacea di tutti i mali della sanità in quanto più che uomo politico è presentato come un super-tecnico.

In realtà come vedremo sin dai suoi primi atti Veronesi tutto è meno che un tecnico super-partes, infatti egli è portatore di una cultura ben definita tipica in qualche modo del suo status, essendo dirigente di primo piano del Istituto Oncologico Europeo di Milano struttura privata finanziata a vario titolo con soldi pubblici.

Da qui riparte un nuovo attacco all’unicità del SSN che si impernia sul principio della sussidiarietà, il privato fornirà i servizi che riterrà più remunerativi lasciando al pubblico tutto ciò che a lui non conviene affrontare in termini economici.

IL PRODOTTO DELLE TRASFORMAZIONI

Sommariamente si possono così riassumere le dinamiche intervenute negli ultimi anni in sanità:

depotenziare il servizio sanitario pubblico attraverso processi di esternalizzazione di una serie cospicua di servizi; è evidente l’aumento del numero e del valore degli appalti ed i conseguenti fenomeni di tangenti che continuano a verificarsi;

dequalificare il lavoro del personale di assistenza, bloccando le assunzioni e costringendo gli operatori a carichi di lavoro estenuanti,con stipendi da fame;

precarizzare il rapporto di lavoro di migliaia di operatori, costretti al lavoro interinale, al part-time, all’assunzione tramite cooperative private, al rapporto di Collaborazione Coordinata e Continuata o al Lavoro Socialmente Utile (con la cancellazione automatica dei Diritti sindacali e di ogni forma di tutela);

spingere il sistema pubblico verso la competitività con il sistema privato, a parità di finanziamenti ma con il pubblico garante di sempre più costosi servizi di emergenza e di alta specializzazione;

ridurre i posti letto, già dimezzati nell’ultimo decennio con le altrettanto scellerate politiche di centro-sinistra che hanno determinato la chiusura di molti ospedali.

Se l’analisi fin qui esposta (monca di aspetti anche sostanziali che per brevità si eludono) è corretta, non sembra più indispensabile, per il processo neoliberista in corso, il ricorso alla privatizzazione della sanità, basta poter disporre di una adeguata quantità di capitale (questo si privato), di una minima forza lavoro (con pochi diritti e salari da fame), di un sistema di gestione che garantisca la finalità pubblica del sistema (fondazioni, mutue, ecc.).

Questi, in breve, i tre elementi indispensabili a garantire le politiche di mercato, con un occhio attento alle necessità delle classi totalmente indigenti; se infatti andiamo ad analizzare i risvolti pratici di questo tipo di “riforma”, ci accorgiamo che, al pari della stragrande maggioranza dei processi di trasformazione in era di globalizzazione, sono considerabili totalmente garantite le classi ricche (con capitali propri) e, quasi adeguatamente garantite, solo le classi sotto la soglia di povertà, con una variabile: difficilmente si modificano le soglie “superiori”, mentre facilmente si riducono quelle inferiori.

4. CONCLUSIONI

Sul “che fare” crediamo indispensabile subito eludere le aspettative di quanti ritengono praticabile la strada degli aggiustamenti;

non crediamo per nulla vincente la teoria, da molti auspicata, di ridisegnare aliquote o percentuali più favorevoli al fine di determinare una congiuntura di interventi mirati che aumentino le capacità di capitale investibile, non appartiene alla nostra cultura.

Affrontare il problema della salute, oggi, non può e non deve ridursi ad un innalzamento del rapporto spesa/PIL, né tanto meno nel prevedere la garanzia del riparto delle risorse sulla base della quota capitaria ponderata.

Occorre ridisegnare uno, cento, mille percorsi per rimettere l’essere umano al centro del sistema, non solo sanitario, trasformando in realtà l’obiettivo che chi comanda lo faccia obbedendo.

Si tratta di attivare un processo rivoluzionario per distruggere “i germi di passività sempre presenti nella società” e lo si attua attraverso lo strumento della micro conflittualità diffusa e costante;

l’obiettivo non è un modello, è un percorso, che trova e sfrutta le mediazioni politiche e sociali per passare da un momento di resistenza ad uno di alternativa, e nel nostro Paese gli aspetti salienti di un momento di resistenza non sono sempre percettibili ma esistono: le battaglie dei precari verso un modello di lavoro garantito in termini di diritti, la battaglia, degli LSU in via di stabilizzazione, la imminente rivalsa dei co.co.co. verso un sistema retributivo-contributivo adeguato alle aspettative di un lavoratore comune, la battaglia dei cittadini di quel quartiere per non far chiudere il poliambulatorio della ASL, o il Posto di Primo Intervento, al fianco degli operatori e in conflitto con le forze politiche (di professionisti) espressione della democrazia rappresentativa, la vertenza degli autoferrotranviari e la lotta per la dignità, i diritti, il salario dopo anni di frammentazione, di negazione del diritto di sciopero, di gabbie salariali e poi la pace, e i suoi milioni di testimonianze contagiose. Tutti questi sono percorsi, momenti di singola ribellione, non Rivoluzioni dall’alto ma ribellione, la lotta che continuerà ad esistere fintanto che la dignità sarà negata.

Tutto questo e molto altro a dimostrazione che nel rapporto comandare / obbedire, non vanno necessariamente sostituiti i soggetti, non è indispensabile che comandi chi ha obbedito, è indispensabile che chi comanda lo faccia obbedendo, è “il (vero) potere di quelli che non hanno (e non avranno mai) potere”.

Costruire una alternativa implica quindi sviluppare e abbandonare successivamente un livello di resistenza radicato in tutte le espressioni di sofferenza del capitale.

Se la sofferenza del capitale è il naturale processo di involuzione che lo spinge a nuove forme di radicamento, la resistenza implica una azione costante e metodica nella società civile, che diventa percorso alternativo anche per chi comanda.

Questo è il messaggio di speranza che ci sentiamo in dovere di portare in discussione, non un modello alternativo, non l’imbroglio delle formule economiche del capitale, non un sistema di variabili complesse.

Quattro elementi devono caratterizzare il nostro agire (e non solo in Europa):

la pace: indispensabile presupposto al diritto degli uomini e delle donne di esistere, pace contro tutte le guerre dei potenti tra potenti, dei mercati e delle economie;

l’autodeterminazione: “tu sei quello che sei e nient’altro”, (un negro, una donna, un precario, un disoccupato, un malato); no, io sono questo e molto di più, non sono un’etichetta del capitale, sono la regola del tuo comando, sono quello che decide se e come assisterai il mio corpo e se sarò cavia non sarò il profitto della tua ricerca o la tangente della tua sperimentazione, sarò cavia per una società fondata sul mutuo riconoscimento della dignità;

il comandare obbedendo: come forma indispensabile di gestione partecipata del pubblico; l’attuale rapporto comando/obbedienza regola lo Stato e le relazioni sociali: maestro/alunno, giudice/detenuto, uomo/donna, ma soprattutto malato/essere umano, politico di professione/essere umano, proprietario dei brevetti sui microrganismi/essere umano, attraverso questa forma di potere sei escluso dalla possibilità di decisione, inibito alla partecipazione e incitato all’immobilismo. Il problema fondamentale non è chi governa, “sono invece gli strumenti sociali che possono permettere ai cittadini di esercitare un controllo... su chi li governa”, ma anche su chi li giudica, su chi li cura;

le brecce: mille risposte alla domanda della rivoluzione”, brecce ovunque, lotte per riappropriarsi della dignità, per emancipare il fare dall’essere, che aprono piccoli varchi nel muro della dominazione capitalistica; brecce di resistenza al licenziamento, al lavoro nero legalizzato, al precariato come forma di sudditanza sociale, brecce contro il plus-valore estorto, contro i diritti usurpati, brecce contro le privatizzazioni delle menti, del suolo, dell’acqua e dei celi.

Percorsi e non obiettivi per un altro mondo possibile.