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Stato sociale e transizione difficile

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Michele Loporcaro
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Professore all’Università di Zurigo (Svizzera)

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Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?
Michele Loporcaro

 

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Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?

Michele Loporcaro

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Parlare di scuola, e di istruzione a tutti i livelli, non è mai fare un discorso accademico. È un discorso politico. Per questo è importante chiarire bene quali siano le implicazioni politiche oggettive di questa o quella posizione, rispetto a temi come: si deve studiare la storia, a scuola; e le lingue classiche; e la propria lingua madre, si deve (si può) studiarla di per sé, o bisogna invece subordinare questo studio a fini di utilità pratica diretta?

Bisogna chiedersi, anzitutto, a chi giova, in Italia, tagliare i ponti con la nostra tradizione culturale, eliminare dai programmi scolastici di ogni ordine e grado lo studio delle lingue classiche, ma anche lo studio dell’italiano in sé considerato (suo iure si sarebbe detto una volta, in certi circoli), eliminare lo studio della storia e di tutte le materie di taglio storico. La risposta è evidente. Perseguire questa linea è, oggettivamente, collaborare all’istaurazione di una società in cui sempre meno spazio ha non solo la cultura ma, con essa, la capacità di riflessione autonoma e il senso critico; che sono poi le condizioni necessarie per un libero dibattito democratico in una società civile. Nel mondo moderno, dibattito democratico pubblico e quel che oggi continuiamo a chiamare, forse solo per abitudine, società civile non sono un dato naturale ma un prodotto storico: sono nati con l’Illuminismo, con la messa in questione del principio d’autorità assoluta, del potere per grazia divina, e con l’affrancamento del valore dell’intelligenza dalla dipendenza politica ed economica. Qui sta l’origine della sfera pubblica borghese (Habermas) e, con essa, delle moderne democrazie. [1]

Per chi persegue un programma politico anti-progressista - diciamo, semplificando, reazionario-totalitario - l’affrancamento del valore dell’intelligenza e della riflessione dai rapporti di potere è disfunzionale. Al contrario, per il progressista è questo l’obiettivo più alto. Portare cerchie sempre più ampie della popolazione a partecipare di queste capacità di riflessione e di discussione, dunque ad entrare a pieno titolo nel dibattito della sfera pubblica: è questo l’obiettivo strategico primario di ogni politica di segno progressista. Dovrà tradursi in pratica attraverso il miglioramento dell’istruzione scolastica. In parole povere: una politica reazionario-totalitaria deprimerà la scuola, una politica progressista l’esalterà. Lo si è visto bene in alcune fasi storiche. Fra Sette e Ottocento, la democrazia americana, fondata da intellettuali illuministi, ha rappresentato l’esempio più chiaro di un tentativo in questa direzione: larghissima diffusione della stampa, alta scolarizzazione e i tassi di alfabetizzazione più alti nel mondo occidentale dell’epoca. Dell’America di allora si diceva che anche il contadino, arando, leggesse Omero. Nell’America di allora i dibattiti politici pubblici, popolarissimi, duravano sette ore: intorno un’atmosfera festosa (banchi da fiera, spaccio di alcolici e dolci), in platea un religioso silenzio. Prosegue Neil Postman, dopo aver descritto questo quadro: «l’America fu fondata da intellettuali [...] per liberarsene le ci son voluti due secoli e una rivoluzione nei mezzi di comunicazione». [2]

La società statunitense, così come la nostra società italiana, all’inizio del Duemila sono ben diverse da quella progettata dai costituenti americani, in cui il contadino leggeva (se non proprio Omero, leggeva il giornale) e ferveva il dibattito pubblico. Per molti aspetti tecnologici la società è progredita, e c’è chi ha visto in questo stesso progresso tecnologico la chiave delle trasformazioni socio-politiche che si sono prodotte. La riflessione della scuola di Francoforte o di altri pensatori europei (Guy Debord), così come la sociologia americana (Marshall McLuhan, in parte, e soprattutto Neil Postman) hanno messo in guardia, in particolare, dall’influsso dei mezzi di comunicazione audiovisivi sulla sostanza del discorso pubblico. Nell’Italia del Duemila dobbiamo constatare che avevano ragione. La sostituzione del video al libro sta cambiando il nostro vivere associato, poiché l’uomo è animale politico e vive la sua dimensione associativa entro un «ambiente simbolico» che ne forma il carattere e la cultura. E avere intorno, sin dalla scuola, dei libri non è lo stesso che avere intorno, sin dalla culla e poi anche a scuola, dei video. [3]

Il progresso tecnologico non si può arrestare. Si può però gestire. Vale per la natura: serve oggi una riflessione sullo sviluppo sostenibile, mentre l’effetto serra mostra come sia irrazionale un’acritica lode dello sviluppo in quanto tale. E vale per la cultura: il progresso tecnologico va gestito con una politica culturale. Qui entra in gioco la scuola. O meglio, deve entrare in gioco, per un programma politico di segno progressista. La scuola deve sottoporre il progresso tecnologico a vaglio critico. Deve dare ai cittadini gli strumenti per analizzare la realtà sociale nei suoi diversi aspetti: la politica come la tecnologia. Questi strumenti sono la capacità di riflessione autonoma e il senso critico, che non possono venire da un’educazione schiacciata sul presente. Serve la storia, come ammaestramento per relativizzare e poter analizzare e, se del caso, criticare il presente. Per un programma politico di segno totalitario-reazionario, invece, è funzionale una scuola che si allinei pedissequamente ai cantori acritici del progresso tecnologico.

Solitamente, il motto «non si può arrestare il progresso tecnologico», quando utilizzato in politica, serve a evitare la discussione razionale di merito - se per razionalità s’intende il bene comune - e a coprire invece interessi di parte. Un esempio recente. Il Capo dello Stato rinvia alle camere senza firmarla (il 15 dicembre 2003) la nuova legge di sistema sull’informazione e l’editoria (legge Gasparri), e motiva il rifiuto razionalmente, adducendo pericoli per il pluralismo dell’informazione in un sistema di quasi-monopolio e il mancato rispetto delle sentenze al riguardo della Corte Costituzionale, che il monopolista privato ha eluso per un trentennio: da quella del 28 luglio 1976, sino a quelle sulle precedenti leggi di sistema, la sentenza del 7 dicembre 1994 (sulla legge Mammì) e quella del 20 novembre 2002 (sulla legge Maccanico). Il 21 dicembre 2003, in una diretta televisiva su Rai 1 di 125 minuti (contro i 90 previsti in palinsesto), già di per sé dimostrazione allarmante della mancanza di pluralismo di una tv ferreamente controllata dal potere politico, il primo ministro conferma di fronte a milioni di telespettatori quanto più volte dichiarato nei giorni precedenti: accanto ad accuse infamanti (il Capo dello Stato sarebbe ostaggio di pressioni della «lobby dell’editoria»), l’argomento principe a favore della legge è che «non si può arrestare il progresso tecnologico».

Verso dove stiano andando, sulle ali di questo progresso tecnologico, le nostre società «democratiche» è evidente: gli esperti di comunicazioni di massa - quelli, s’intende, indipendenti, non a libro paga dei network televisivi - discutono solo su quale delle due grandi utopie negative del XX secolo, se quella di Orwell o quella di Huxley, descriva in maniera più calzante il punto d’approdo verso cui ci dirigiamo a vele spiegate. Rispetto a questa deriva, le posizioni politiche sono oggettivamente nette: un programma reazionario-totalitario la favorirà con ogni energia, un programma progressista s’impegnerà con tutte le forze per scongiurarla e cercare di invertire la tendenza. Se ne deduce che se un governo di destra con tendenze autoritarie propone un modello di scuola imperniato sulle «tre i», internet, inglese, impresa, agisce lucidamente, in modo ponderato e funzionale al proprio progetto politico. Una scuola così concepita, avvicinando ai media visuali, allontanerà dal libro e deprimerà in tal modo la sensibilità culturale, la coscienza della storia e delle specificità culturali; nel nostro caso, la coscienza della specificità della storia e della cultura italiana. Una scuola così prepara un mondo in cui si parla una lingua sola, radicalmente semplificata, e prepara non cittadini responsabili, parte di un’articolata società civile, ma futuri dipendenti di un’impresa, semplici sudditi di un potere economico i cui interessi si fondono con quelli dello Stato. In questa fusione, lo sappiamo, l’Italia contemporanea (anzi, l’«azienda Italia») conduce oggi un esperimento d’avanguardia, ai massimi livelli. Un esperimento a cui, in Europa, guardano con preoccupazione non solo tutti i progressisti ma anche i moderati liberali (la destra non totalitaria): basta leggere quel che ne scrivono quotidianamente giornali conservatori come la Frankfurter Allgemeine Zeitung o la Neue Zürcher Zeitung, che solo davanti a un popolo di teledipendenti mal scolarizzati possono esser fatti passare, grazie al megafono di una tv sottratta al controllo democratico, per fogli sovversivi comunisti.  [4]

Abbiamo detto di qual segno dev’essere, nel campo dell’istruzione, una politica progressista. Fissate queste elementari coordinate politiche, possiamo ora chiederci se nella seconda metà del Novecento, periodo storico in cui si sono svolti i mutamenti sociali - in particolare, nel nostro «ambiente simbolico» - di cui ora apprezziamo i frutti politici, se nel secondo Novecento in Italia, dicevo, lo schieramento politico che si definisce progressista abbia attuato una politica di questo segno. Se l’abbia attuata là dove ne aveva la possibilità concreta, assumendo dirette responsabilità di governo (solo di recente) o, ben prima che ciò avvenisse, attraverso la potente azione di indirizzo culturale che ha esercitato nei decenni passati nei confronti dell’istruzione scolastica e universitaria.

C’è in questo campo un orientamento diffuso e influente nella sinistra italiana, che negli ultimi decenni ha contribuito non poco a modificare le istituzioni scolastiche e universitarie, nella forma e nella sostanza. Di questo orientamento si è fatto portavoce quell’intellettuale italiano che, approdato alla carica di Ministro della Pubblica Istruzione, dichiarava qualche anno fa che non ha senso insegnare la storia alle scuole elementari - e dunque, s’intende, bisogna sostituirla con qualche materia più utile - perché non meglio identificati «studi americani» (di pedagogisti e/o psicologi) avrebbero dimostrato che prima dei dodici anni i bambini non sono in grado, fisiologicamente, di interessarsi alla storia. Di fronte a una simile affermazione (almeno, così come riportata dai mass-media), chiunque abbia un figlio e gli abbia raccontato, ancor prima che andasse a scuola, dei faraoni o di Ulisse (e dunque dei Greci), o del perché le nostre città abbiano ancora tante torri (e dunque del Medioevo), di Napoleone o di Garibaldi, ricevendone in cambio mille domande, rimane perplesso. E rimasero perplessi, a suo tempo, moltissimi universitari italiani, di varia appartenenza politica, che protestarono con vigore contro la progettata eliminazione dello studio della storia alle elementari. Bisogna però capire che questo non è stato un incidente di percorso, ma un episodio di una vicenda ideologico-politica coerente, di una lunga marcia in direzione di obiettivi perseguiti con determinazione, alla luce di un chiaro principio guida. Qual sia questo principio, lo diremo dopo aver brevemente ricostruito le tappe della lunga marcia.

Siamo negli anni a cavallo del Sessantotto. La società italiana non era il migliore dei mondi possibili, e la scuola la rifletteva. Era odiosamente classista, escludeva i più svantaggiati, andava democratizzata. Sacrosanto. La ricetta per questa democratizzazione si può riassumere in uno slogan: sostituire un’educazione scolastica democratica alla pedagogia repressiva tradizionale. Il fronte dell’educazione linguistica apparve, ed era, strategico. E dunque, Che cosa fare dei temi d’italiano? si chiedevano molti intellettuali di sinistra negli anni Settanta. [5] La diagnosi era: addestrano all’enfasi e all’amplificazione retorica, sono una pratica diseducativa. Perciò vanno aboliti e sostituiti con qualcosa di più utile. Non si ripeterà mai abbastanza che la diagnosi aveva una parte di verità. Bisognava lottare contro discriminazioni sociali:

«nell’atto di mandare in una classe differenziale o fuori della scuola il bambino che ha difficoltà a dire “benché piova, esco”, il glottodidascalo ritiene di stare, magari, servendo la scienza e qualche altra virtú, e non si rende conto di stare invece eseguendo il mandato di un gruppo dominante cui, per estrazione avvocatizia della maggior parte dei suoi componenti, è assai familiare lo stile ipotattico, talché ai membri del gruppo “benché piova, esco” suona meglio di “piove, e io esco lo stesso”» [corsivi aggiunti]. [i]

È vero. La valutazione scolastica rischiava ad ogni passo di farsi veicolo del pregiudizio di classe. E, in concreto, la pratica di correzione linguistica (correzione dei temi) da parte del ceto insegnante era spesso risibile, pura omologazione a modelli non buoni:

«Quel che la scuola ha insegnato è, di preferenza, l’italiano di stampo burocratico, aulico. Non si dice faccia, ma viso, non ci si arrabbia, ma ci si indigna o adira [...] In questo italiano irreale [...] non si va ma ci si reca, le cose non ci sono, ma hanno luogo o si verificano [...] In questi testi demotivati e prolissi vivono i pericolosi germi che hanno trasformato i semplici e chiari se e perché nei via via più ampi e complessi nella misura in cui e a causa del fatto che». [i]

Questi modelli non buoni, si argomentava, erano il frutto di una situazione secolarmente «bloccata», che ha lasciato il segno sulla lingua degli italiani, nella letteratura prima e nella scuola poi:

«Abbondanza di sinonimi, periodo complesso sono caratteristiche strutturali che qualificano e individuano l’italiano rispetto alle altre lingue europee e che derivano dal fatto che l’italiano è stato per secoli soprattutto una lingua scritta da pochi e per pochi». [i]

Ma la causa di questa pratica scolastica insoddisfacente non era nell’essenza del sistema: era nell’insufficiente preparazione degli insegnanti. Il problema della scuola italiana non era che insegnasse «troppa complessità». La scuola tradizionale, al contrario, non insegnava a sufficienza a gestire la complessità linguistica. Non riusciva a insegnare a tutti ad usare bene, e quindi anche a decodificare, periodo complesso (ipotassi, ossia subordinazione: il benché), complessità lessicale (sinonimia) ecc. Una complessità che, per inciso, l’intellettuale maneggia benissimo. Nelle pagine che abbiamo ora citato, che sono di grande efficacia retorica come tutti gli scritti di Tullio De Mauro, fioriscono non solo i benché ma anche i talché, e vi si incontra un lessico sceltissimo. Addirittura vi si trova, e usato perfettamente a proposito, l’aborrito nella misura in cui (e dunque allignano anche qui i «pericolosi germi» della complessità):

«in rapporto all’uso del dialetto, la televisione ha avuto l’effetto di farlo regredire: proprio e solo nella misura in cui di tanto in tanto il dialetto ha fatto la sua apparizione sugli schermi, esso si è palesato a milioni di italiani come un idioma legato a personaggi avviliti nella miseria» ecc. [corsivo aggiunto]. [i]


[1] Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied, Hermann Luchterhand 1962, trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1971.

[2] Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, New York, Viking Press 1985, trad. it. Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Venezia, Marsilio 2002, p. 59.

[3] Lo spiega molto bene Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma-Bari, Laterza 1997.

[4] V. ad esempio quanto scrive su ciò Umberto Eco, Provocare per vincere, «MicroMega» 4/2003, 57-66, a p. 59: «le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà ed amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all’Europa intera».

[5] Tullio De Mauro, Che cosa fare dei temi d’italiano?, in AA.VV., Questioni di didattica, Roma, Editori Riuniti 1975 [poi in Lorenzo Renzi e Michele A. Cortelazzo, La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale, Bologna, Il Mulino 1977, pp. 295-301].

[i] Id., Il plurilinguismo nella società e nella scuola italiana, in AA.VV., La radio nella scuola oggi, Torino, ERI 1975 [poi in Renzi e Cortelazzo, cit., pp. 113-127, a p. 117].

[i] Id., Indagine sull’italiano dei non lettori: proposte per una maggiore leggibilità dei giornali, in Walter Tobagi e Carlo Remeny, Il giornale e il non lettore. Atti del convegno del 17-19 giugno 1979, Firenze, Sansoni 1981, pp. 7-19, a p. 14.

[i] Ibidem, p. 15.

[i] Id., Il linguaggio televisivo, in Gian Luigi Beccaria, I linguaggi settoriali in Italia, Milano, Bompiani 1973, pp. 107-117, a p. 113.