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Teoria e storia del movimento operaio

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”

Alessandro Mazzone

Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe

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I. La nozione di “egemonia” entra nella discussione del Movimento operaio all’inizio del secolo XX. Essa è legata strettamente alla trasformazione imperialistica della borghesia, al fatto dell’imperialismo moderno e al problema che esso poneva alla classe operaia, ai partiti socialisti, ai sindacati, ma anche a tutti i democratici, sia nelle metropoli imperiali che nei territori e Paesi dipendenti. Questo problema si può riassumere in breve. Nella fase imperialistica le borghesie “centrali”, metropolitane, tendono a diventare oligarchie che detengono il potere economico, finanziario, politico-militare sul “loro” popolo e su quelli dipendenti. Non ci si può aspettare che esse portino avanti (se non costrette) trasformazioni democratiche, che oltretutto andrebbero a vantaggio della classe operaia organizzata. Le borghesie “periferiche” sono in genere troppo deboli per perseguire quelle trasformazioni, per attuare la “rivoluzione democratico-borghese” nei loro Paesi. Così, l’epoca delle rivoluzioni democratico-borghesi appare conclusa. Ma l’avanzamento democratico, multiforme e vario che possa essere nel globo che l’imperialismo sta unificando, è ben altro che formula politico-istituzionale! Senza la “democratizzazione delle masse” (A. Labriola, 1895), senza le “condizioni fondamentali di civiltà” (Lenin, 1921 e fino alla fine) non si può pensare a una prospettiva socialista, o anche a un’alternativa all’oppressione e alla guerra che si sta preparando. Alla base del problema della strategia, su cui si scontrano e si dividono i socialisti europei all’inizio del secolo XX (“programma massimo” o “programma minimo”, rivoluzionari e riformisti, ecc.), si manifesta una questione più profonda, di orientamento nel mondo di oppressione, militarismo, guerre che lo sviluppo imperialistico del capitale ha creato.

È un problema di continuità obiettiva delle trasformazioni democratiche. Non si tratta solo dei “diritti”, ma soprattutto della capacità di esercitarli, di farne vita effettiva di grandi masse, dalla libertà di movimento ai diritti politici, dall’istruzione alla previdenza sociale, alla sicurezza di vita per tutti i lavoratori. Solo con l’esercizio, la pratica quotidiana e diffusa dei diritti in tutte le sfere di vita, e con l’acquisto della cultura e della scienza e tecnica moderne, le plebi incolte e superstiziose possono emanciparsi. Il 1914 mostra, anche e proprio nella “civilissima” Europa: chi non è emancipato (e cosciente e organizzato abbastanza) diventa carne da cannone, massacrerà i suoi fratelli di classe, e sarà massacrato.

Ma la questione è più generale e più profonda ancora. Lo sviluppo complessivo della società pone le basi materiali della alta produttività del lavoro (“fordismo”), dell’integrazione della scienza nelle forze produttive, della cultura non più riservata a pochi. Nello stesso tempo, si realizza quel “mercato mondiale”, forma capitalistica dell’unificazione del genere umano immanente, secondo Marx, alla dinamica interna del Modo di produzione capitalistico. Ma si realizza nella figura della spartizione del globo in sfere d’influenza rivali, e di dominio violento e spietato sui popoli “arretrati”, con forme varie di lavoro coatto, peonato, e massacri sistematici, fino al genocidio (il Congo paga la “civiltà” portata dall’Europa con la scomparsa di circa 3/4 dei suoi abitanti).

Ma chi potrà portare le conquiste della produzione di ricchezza, della scienza, della cultura, alla loro destinazione divenuta materialmente possibile, quella di essere fondamenti e strumenti dello sviluppo democratico nel suo senso vero e pieno di sviluppo di capacità, di potenzialità umane, per le masse lavoratrici, e in prospettiva, per tutti? Chi, quale classe? Non certo più la borghesia, imperialista e oligarchica, o debole e dipendente. Non la maggioranza contadina della popolazione, nelle “periferie”, ma anche in alcuni Stati del “centro”, come la Russia e l’Italia, dispersa nelle campagne e per lo più analfabeta, immobile nella ripetizione di modi di vita secolari, o destinata presto o tardi all’espulsione dalla terra con lo sviluppo dell’agricoltura capitalistica. Per la classe operaia, invece, la continuità dello sviluppo democratico è non solo difesa, sindacale e anche politica, delle sue condizioni di lavoro e di vita nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico (prima, durante e dopo il “fordismo”, NB!) - ma anche tendenza alla realizzazione in lei stessa delle conquiste produttive, culturali, scientifiche, in una parola, dell’elemento positivo della civiltà moderna. La continuità dello sviluppo democratico non è qualcosa di formale, non è solo questione politica, non si riduce alle forme istituzionali, anche se le comprende. Essa è sviluppo di civiltà, e della sola forma di civiltà che il capitalismo, diventato sistema imperialistico, ha insieme reso possibile storicamente, e ora blocca. L’unità storica di democrazia e socialismo è - all’inizio del ’900 - percepita da filosofi e sociologi conservatori (da Pareto a Gentile, in Italia). Nietzsche aveva esteso la “rivolta delle masse”, destinate per natura a esser schiave, fino comprendervi il Cristianesimo. Fioriscono teorie dell’irrazionalismo e della violenza, il “progresso” diventa oggetto di dileggio. Ma è al livello sostanziale che la violenza e la negazione della democrazia, anche in Europa, vengono attuate su scala inaudita, con la guerra del 1914-18.

Si dimentica troppo spesso che in questo modo, all’inizio del secolo XX, erano poste del condizioni del dramma, che continua ancora ai giorni nostri con la minaccia all’ecosistema, lo sterminio per fame e malattia in un mondo di risorse abbondanti, la guerra come soluzione ricorrente, la segmentazione della classe operaia, crescente di numero ma disorganizzata, la trasformazione autoritaria delle forme politico-istituzionali, ecc. ecc. - Recuperare la continuità dello sviluppo democratico, ricostituire un soggetto che se ne faccia portatore, e che può solo essere un soggetto di classe - in queste formule non si riassume forse il nostro problema, all’inizio del secolo XXI? Ebbene, esso, considerato nel senso più ampio, è un problema di egemonia, come si vedrà.

All’inizio del ’900, la nozione di egemonia è legata alla presa di coscienza della trasformazione monopolistica del capitale, allora soprattutto nella forma di “cartelli” e trusts nell’industria di base. Questa nuova fase della produzione capitalistica portava con sé la prevalenza dell’esportazione di capitali in Paesi “nuovi” sulla esportazione di merci tipica della face precedente (l’Inghilterra “fabbrica del mondo”, nella prima metà dell’800), e la trasformazione dei grandi Stati-nazione in centri di dominio diretto e indiretto su tutto il resto del globo. In pochi decenni, l’Africa viene spartita in colonie inglesi, francesi, poi anche tedesche e belghe (il Congo), l’Asia sudorientale tra Francia, Gran Bretagna e Olanda (che “modernizza” il vecchio impero commerciale in Indonesia); si prepara lo smembramento e spartizione della Cina, gigantesco bacino di mano d’opera a buon mercato; la Russia zarista conquista l’Asia centrale, e si scontra (1905) con il nascente imperialismo nipponico. Meno visibile sulle carte geografiche, ma determinante, è il passaggio dal capitalismo di concorrenza ai grandi trusts industriali e bancari negli USA, che fu più rapido che in qualunque altra parte del mondo. Poco più di vent’anni dopo la guerra di secessione americana, e quando il sistema delle piantagioni coltivate da schiavi durava ancora in Brasile e a Cuba, l’America latina, tradizionale sfera d’influenza commerciale britannica, vide arrivare in forze il nuovo dominatore yankee, che mette le mani direttamente su Cuba, Portorico e le Filippine (guerra del 1898 contro la Spagna).

Tutto questo implicava anche una nuova figura dei rapporti di produzione capitalistici. Il rapporto di produzione fondamentale, quello dello sfruttamento del lavoro salariato, naturalmente rimaneva. Ma, in primo luogo, il tasso del profitto veniva sempre più a integrare i profitti abbondanti tratti dall’investimento estero, dal saccheggio delle colonie, dalle rendite finanziarie di prestiti privati e pubblici a Stati meno “moderni” (la Russia, p. es.). In secondo luogo, non era più necessario sfruttare all’osso (cioè mediante superlavoro, lavoro minorile senza limiti, e fino alla riduzione pericolosa dell’aspettativa di vita della massa della popolazione operaia, scesa al di sotto dei 30 anni in Inghilterra verso il 1820) la popolazione lavoratrice metropolitana, o almeno la sua parte più qualificata e “preziosa” per il funzionamento del sistema. In terzo luogo, si veniva costituendo (già allora) un gerarchia di Stati entro il sistema mondiale imperialistico. Si facevano via via più stretti i legami tra le metropoli e le “periferie” o “semiperiferie”, che allora erano colonie vere e proprie oppure territori a statualità indipendente (America latina, soprattutto), ma dipendenti economicamente dal capitale finanziario dominante l’intero sviluppo a partire dai centri imperiali.

Il problema dello sviluppo economico in genere, ma anche dello sviluppo politico, civile, e generalmente umano per l’immensa maggioranza della popolazione del globo, si poneva ormai nell’ambito complessivo del dominio universale dell’oligarchia capitalistico-finanziaria, attraversata dalle rivalità interimperialistiche, ma anche dal conflitto tra il dominio stesso e lo sviluppo della riproduzione sociale in forme moderne, capitalistiche, che veniva esportata, col capitale, nei Paesi dipendenti. Era il “risveglio” - attraverso la tragedia dello sfruttamento, dello sradicamento, dell’oppressione - della stragrande maggioranza dell’umanità, dall’India alla Cina al Messico all’Egitto ecc. - trascinata violentemente nel mondo moderno, costretta ad uscire dalle forme statiche di riproduzione sociale complessiva caratteristiche dei Modi di produzione precapitalistici.

Perché questo “risveglio” arrivasse a prender la forma di lotte anticoloniali vittoriose, sarebbe occorso ancora un cinquantennio di resistenza, rivolte, repressioni sanguinose e spesso ignorate, in tre continenti. La crisi del dominio imperialistico durante prima guerra mondiale, con la rivoluzione russa, la fondazione dell’Unione Sovietica, l’Internazionale comunista, poi l’indebolimento degli imperi europei nella seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo - furono gli antecedenti dell’indipendenza politica, conquistata o concessa nelle ex-colonie, e di un loro sviluppo economico e civile - possibile, certo non garantito o senza intoppi. [1]

Ma già nel 1921, con il proclama di Baku e la parola d’ordine dell’unità dei proletari di tutti i Paesi e dei popoli oppressi, la concezione strategica generale - e nuova - era quella dell’ egemonia di classe, su scala mondiale e Paese per Paese, nel quadro della teoria leniniana dell’imperialismo.

Una volta avvenuta la spartizione delle risorse, dei mercati, dei popoli del globo in sfere d’influenza del capitale finanziario e delle sue metropoli imperiali, e realizzata quindi una rete di dipendenze dirette e indirette delle borghesie locali dal mercato mondiale così configurato, non era più pensabile che le borghesie dei Paesi colonizzati, assoggettati o “periferici” potessero percorrere la via “classica” (olandese, inglese, francese) delle rivoluzioni borghesi: prima, instaurazione di rapporti di produzione capitalistici distruggendo quelli precedenti, e realizzando l’egemonia borghese nelle strutture economiche, giuridiche, scientifiche della società civile, poi, conquista del potere politico e costruzione di Stati moderni. Le borghesie “periferiche” erano in genere deboli o subalterne [2] economicamente, povere di tradizioni democratiche, povere anche di quadri intellettuali, professionali, scientifici. Culturalmente, scientificamente, e per la tecnica, non potevano che guardare al “centro”, alle metropoli imperiali.

All’inizio del XX secolo, la più numerosa di queste borghesie “non classiche”era quella russa.

In Russia, il capitalismo si sviluppava rapidamente, anche se forse l’80% della popolazione era ancora rurale. Ma nello stesso tempo, la finanze e la grande industria russa (isola non grande, ma moderna, nel mare contadino e artigiano) dipendevano da capitali stranieri (anche il bilancio dello Stato russo era legato ai prestiti di banche britanniche e francesi). La Russia degli zar era a sua volta un immenso impero, con più di 100 nazionalità non-russe dominate; ed era una autocrazia, senza diritti politici, né diritti civili, di fatto, per la stragrande maggioranza della popolazione. Da mezzo secolo, la grande letteratura russa era - con poche eccezioni - patriottica, cioè mirante a far riflettere i suoi lettori russi su se stessi e la loro condizione, e ad aprire così le vie per una trasformazione, che doveva essere emancipazione, e implicava l’abbattimento dell’ultimo e più dispotico ancien régime.

Ma con la rivoluzione del 1905, e dopo di essa, la borghesia russa aveva mostrato la sua incapacità di trasformazione rivoluzionaria. Il decrepito e barbarico regime autocratico restava - e i capitalisti russi se ne accomodavano tanto più facilmente, in quanto gli anni seguenti furono di espansione economica, e di repressione poliziesca del movimento operaio.

Da questo nodo di sviluppi contraddittori, in un Paese che era per metà “imperiale” e per metà “periferia”, epitome per un verso dell’unificazione capitalistica del genere umano come sviluppo ineguale, e unico per altro verso perché unico era l’insieme di contrasti, di grandezza e miseria, di umanità e di barbarie, di arcaismi di massa e di consapevolezza di minoranze illuminate che gli eran propri, nasce la problematica dell’egemonia negli scritti di Lenin dal Che fare? (1902), in poi.

Dapprima, riguardo alla Russia stessa. Solo il proletariato avrebbe potuto prender la testa della lotta per l’emancipazione - cioè per la democrazia, il suffragio universale, i diritti civili e politici, l’istruzione obbligatoria universale e gratuita, la trasformazione della cultura di massa in forme razionali e moderne, abbattendo le superstizioni diffuse, l’oscurantismo, l’inerzia. Ossia: solo il proletariato, non più la borghesia, può prendere la testa della rivoluzione democratico-borghese.

Questa è l’origine della teoria dell’egemonia. Essa si sviluppa poi in Russia (la NEP), ma soprattutto nella teoria e nella pratica della III Internazionale. In condizioni diversissime, dalla Cina al Messico al Brasile [3], ma poi anche in Europa con i fronti antifascisti (dal 1935), si pone il problema politico delle alleanze. Ma queste alleanze hanno portata strategica, non tattica soltanto, e sono alleanze di classe, con quelle frazioni della borghesia o della massa contadina che sono disponibili alla difesa antifascista, alle conquiste democratiche, allo sviluppo nazionale autonomo, e quindi, prima o poi, apertamente antiimperialista. Dopo lo scioglimento della III Internazionale (1943), e la vittoria sul fascismo, l’alleanza strategica con le “borghesie nazionali” diventa questione centrale del movimento di liberazione delle colonie ed ex-colonie, dall’Indonesia all’Iran, all’Egitto “nasseriano”, più tardi ancora all’Etiopia. - Qui non possiamo discutere i limiti (e gli errori) di queste politiche [4]. La concezione, e anche la percezione della realtà, dello sviluppo economico, civile, umano, che era a lor fondamento, rimase, almeno fin verso il 1970, quella della strategia di classe, della promozione dello sviluppo civilizzatorio che il capitalismo porta con sé, ma, dovunque possibile, con la classe operaia alla sua testa, e quindi come instaurazione, a lungo termine, di un confronto di egemonia con l’imperialismo.


[1] 1947 indipendenza dell’India; 1949 proclamazione della Repubblica Popolare Cinese; indipendenza dell’Indonesia, ma controffensiva coloniale britannica in Malacca, francese in Indocina. Primo Stato indipendente africano è il Ghana nel 1957, quasi tutti gli altri - salvo le colonie portoghesi - nel ’60; vittoria nella guerra di liberazione algerina: 1962.

[2] Non tutte erano borghesie compradoras, semplici appendici locali dei capitali d’oltremare: ma nessuna poteva aspirare alla piena sovranità economica del “suo” Paese. Del resto, val la pena di ricordare che già nell’’800, e in Europa, le rivoluzioni delle “nazioni ritardate” (Italia, Germania) erano state in parte preparate da una “rivoluzione passiva” (regime napoleonico, Prussia), e si conclusero con un “compromesso storico” con le vecchie classi dominanti.

[3] V. in “Proteo” 2-3/2003, p. 93 ss., il saggio di BRASILIA CARLOS FERREIRA, Le traiettorie del sindacalismo brasiliano.

[4] Una politica viene decisa, e la decisione avviene mediando le forze in gioco. Perciò può cambiar di segno e di natura secondo le forze, palesi e non, che la determinano. Così andrà ripresa la discussione sugli “aiuti” dei Paesi del blocco socialista alle rivoluzioni del “3° Mondo”, che furono anche di sostegno militare, e fino all’intervento sovietico in Afganistan nel 1979. Si trattava ancora di alleanza di classe?