Rubrica
Teoria e storia del movimento operaio

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Alessandro Mazzone
Articoli pubblicati
per Proteo (8)

Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

Argomenti correlati

Capitalismo

Classe operaia

Nella stessa rubrica

Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”
Alessandro Mazzone

Economia, sensi e movimento operaio
Andrea Micocci

 

Tutti gli articoli della rubrica "Teoria e storia del movimento operaio"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”

Alessandro Mazzone

Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe

Formato per la stampa
Stampa

Noi sappiamo che l’imperialismo ha contrattacato e vinto in gran parte. Nelle metropoli (riduzione delle garanzie sociali, smantellamento del c.d. “Stato del benessere”, svuotamento delle istituzioni politiche democratiche, mutamento della funzione dello Stato [1]) e nelle periferie assoggettate o ricolonizzate in forme nuove. Vuol dire questo che si è perduta una battaglia nella lotta egemoniale per lo sviluppo democratico complessivo, (per la democrazia-che-sbocca-nel-socialismo, in termini un po’ obsoleti)? O che si è entrati in una fase storica completamente, qualitativamente nuova? E come lavorare per la ricostituzione di un soggetto democratico, progressivo, o forse rivoluzionario, nel tempo nostro?

Queste, come tutti sappiamo, sono questioni pratiche, brucianti, presenti. Formularle in modo adeguato, però, significa né più né meno che orientarsi nel mondo di oggi. Si sosterrà qui che si tratta di questioni di egemonia, e di lotta tra egemonie, cominciata con la fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, e che dura tuttora, anche se, ovviamente, in condizioni mutate. Cominciamo col ricapitolare la nozione teorica di “egemonia” (riprendendo il filo dal massimo teorico dell’egemonia come rapporto di classe, Antonio Gramsci).

II. La nozione di “egemonia” riguarda il processo della vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè tutta la riproduzione sociale complessiva. La produzione e riproduzione degli uomini associati è bensì determinata dal rapporto di produzione fondamentale (nel Modo di produzione capitalistico, quello di sfruttamento, cioè del rapporto Capitale/Lavoro), ma è attuata attraverso tutte le attività vitali degli uomini associati - attività lavorative non solo, ma anche di educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente (igiene, sanità, sport, riposo), di produzione culturale, scientifica, artistica ecc. (E, naturalmente, la attività biotica, compresa la riproduzione sessuata, che è sempre storicamente determinata.)

In una società di classe, questo complesso di attività può tendere a riprodurre, e dunque a perpetuare, il rapporto fondamentale di classe
 nel mondo moderno, capitalistico, il rapporto Capitale/Lavoro - oppure, al contrario, a metterlo in crisi, a superarlo, quando la Riproduzione sociale complessiva e il suo fondamento, la riproduzione materiale del corpo sociale mediante il lavoro, entra in conflitto con il rapporto di produzione fondamentale, e quindi con la configurazione di classe della società in questione.

Ma va tenuto presente che si tratta di processi storici: in altre parole, che stiamo parlando di forme di vita e di autoattuazione, o si può dire, di manifestazioni “umane”, complessivamente considerate, e via via divenute possibili. Operai, capitalisti, ma anche ingegneri e Istituti politecnici per produrli, scienziati specialisti, tecnici specializzati e Istituti tecnici o apprendistato per produrli, medicina sperimentale, ecc. ecc. non sono pensabili al di fuori o “prima” della produzione capitalistica. E così non lo sarebbe la scuola di base obbligatoria e universale, che diventa indispensabile quando la popolazione lavoratrice deve almeno saper leggere, scrivere e far di conto. Neppure avrebbe senso immaginare una società feudale, o schiavistica, con diritti civili (libertà di movimento, di contratto, di compravendita) per tutti, o addirittura diritti politici, “volontà popolare”, suffragio universale e via dicendo. Tutto questo divenne pensabile, e poi possibile, in società plasmate dal Modo di produzione capitalistico e dal suo sviluppo - nel mondo moderno, appunto.

In secondo luogo, va tenuto presente che egemonia è un processo, anzi una figura determinata del processo sociale complessivo: non uno stato immobile, e neppure un equilibrio stabile. Perciò essa importa sempre una tensione, una tendenza, e un contrasto. Il contrasto può essere con resistenze alla penetrazione del rapporto di produzione dominante, e quindi dei modi di vita che esso viene plasmando - come nel caso delle masse contadine nell’Europa dell’800 e di parte del ’900, che non si oppongono attivamente al capitalismo, ma tendono a conservare forme economiche, e forme di lavoro e di vita, ai margini del mercato [2]. Oppure può trattarsi di contrasto attivo, di lotta tra classi dominanti, o di lotta per affermare la loro egemonia su quelle subalterne. O, ancora, di lotta “dal basso”, che ha la prospettiva di nuovi rapporti di produzione e riproduzione complessiva, e quindi di una nuova egemonia. Una egemonia (anche plurisecolare, come quella della borghesia inglese o francese) non è mai immobile.

Fatte queste osservazioni, possiamo fissare preliminarmente una nozione astratta di “egemonia”. Egemonia è un rapporto di classe. In quanto in tutti i rapporti sociali (ossia nella produzione e riproduzione di concreti esseri umani, dunque anche nelle istituzioni in cui questi operano ed esistono) prevale l’instaurazione, il perfezionamento, la riproduzione, la perpetuazione del rapporto di classe fondamentale (Capitale/Lavoro nel nostro caso), la classe egemone vede attuate e conservate le condizioni della sua esistenza come classe, del suo sviluppo, e, se vi è rapporto di sfruttamento, dello sfruttamento del lavoro delle classi subalterne. Nel quadro di questo sviluppo, si attuano, conservano e modificano anche le condizioni dell’esercizio del potere politico, culturale, ideale della classe egemone, esercitato in tutto il corpo sociale.

Questa nozione di “egemonia” è astratta, come si è detto (e data qui preliminarmente, appunto per fissare le idee da sviluppare di seguito, e i termini indispensabili [3]). Lo è, perché necessariamente tralascia i processi storici concreti, in cui una egemonia di classe si realizza, in rapporto e scontro con altre classi, e ogni volta in contesti economici, politici, culturali, istituzionali ben determinati (p. es., nella Rivoluzione francese, nel Risorgimento italiano; nello sviluppo prima commerciale, poi industriale, poi imperiale dell’Inghilterra tra ’600 e primo ’900; ecc.). In quanto nozione del rapporto e processo di classi, “egemonia” è prima di tutto una nozione storica, non immediatamente politica.

Da questo discendono alcune conseguenze.

1. “Egemonia” non si riduce a “potere”, anche se implica potere, anzi molte forme di potere: quello che si esercita come costrizione, con la violenza pubblica [4], quello che è “costrizione silenziosa” (economica); quello che è influenzare, sì, ma nel senso più lato e inevitabile (poiché ogni educazione, ogni creazione e offerta di orizzonti di esperienza e di pensiero, influenza gli allevati, educati, promossi, aiutati, nel bene e nel male); e che è diverso dal potere che opera come propaganda, e oggi, manipolazione e anticultura sistematica; ecc.

Ora: arrivare a detenere il potere (politico, di Stato) è un risultato di lotte (di classe, cioè egemoniali); detenerlo ed esercitarlo, è normalmente una parte dell’attuazione o dell’esercizio dell’egemonia.

Tuttavia: non si dirà che una classe è “egemone” perché “ha il potere”! [5] Questa espressione è priva di senso. Prima di tutto, il potere, politico o di Stato p. es., non è esercitato da una classe, ma attraverso istituzioni, gestite da individui in carne ed ossa. Questi operano, coscientemente o no, per conto, e talvolta anche in nome, di una classe. La classe come tale non è affatto una somma di individui, ma una totalità di rapporti, un “insieme di rapporti sociali” [6].

Tra questi rapporti ve ne è uno fondamentale, il rapporto di produzione. Si sa bene che, nel mondo moderno, questo è il rapporto di Capitale/Lavoro. Ma molte discussioni astruse sarebbero evitate, e si avrebbero più chiare le idee, ricordando che quel rapporto è fondamentale semplicemente perché esso concerne il fondamento - la produzione di “beni” (in forma di merci cariche di plusvalore, e in cui il capitale si realizza, certo): e che senza questi “beni” non ci sarebbe società né vita di uomini.  [7] Ricordato questo, allora,

2. la corretta comprensione di “egemonia” permette di evitare l’ economicismo.

Tutta l’annosa discussione sulla misura o il modo in cui la base” determina la “sovrastruttura” è viziata fin dall’inizio da un fraintendimento della teoria marxiana. Se dico che “base” è “forze produttive + rapporti di produzione” - e infatti le forze produttive, “umane” e “naturali”, ma mediate dal lavoro umano, non esisterebbero al di fuori dei rapporti di produzione entro cui operano e si trasformano - ho già detto che il rapporto di produzione fondamentale può venire sorretto, garantito, bloccato, modificato da quelle “altre” attività umane, in cui si realizza la Riproduzione sociale complessiva, e che costituirebbero la “sovrastruttura”. La quale non può prodursi né esistere e operare se non c’è... quel fondamento, che se proprio vi piace, potete anche chiamare “base”, purché la metafora edilizia (o geologica) non vi induca a immaginare che la “base” e la “sovrastruttura”, nei suoi vari “strati” o “piani”, sian cose ferme, ognuna per sé, o agenti separatamente l’una sull’altra, a “strati”. Questo è proprio impossibile. [8]

3. Si dice spesso che un partito, o talvolta un gruppo, o anche un’ideologia o un modo di vita, è “egemone” in una condizione o in una determinata società [9]: si vuol dire che quel partito, o gruppo, o modo di pensare ecc., è prevalente, ed esercita un potere, o anche una funzione di guida, su altri gruppi, partiti, modi di vita ecc. - È compresa in questo l’idea di un contrasto, di una competizione, e del prevalere di una parte su altre. Fin qui, bene - ma soltanto fin qui. La nozione di modo di produzione, e quindi quella di classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici, culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e attuano (o mettono in forse) l’egemonia. Questa si realizza storicamente, configurando in un processo lungo, per lo più secolare, tutta la vita associata, e dunque creando un tipo di società. [10] - In quanto rapporto e processo di classe, la nozione di egemonia è assai più vasta della sfera politica, culturale ecc.. Essa riguarda il complesso delle attività attraverso cui gli uomini di una determinata società producono e riproducono la loro vita nell’ambiente non-umano, ovvero “natura”, e quindi fondamentalmente, ma non esclusivamente, mediante il lavoro produttivo in senso stretto. Con tutte queste attività gli uomini associati producono e riproducono, in definitiva, sé stessi. Perciò “egemonia” è categoria storica. Essa riguarda la Riproduzione sociale complessiva, e in essa si esercita. Si attua dunque in una Formazione economico-sociale (nella terminologia che risale a Marx), o in un segmento di essa - come le singole nazioni o Stati sono oggi, nel mondo capitalistico, segmenti, diversamente sviluppati e interconnessi, dell’unica Formazione economico-sociale borghese, capitalistica.

4. Ma l’egemonia di una classe sfruttatrice non significa oppressione della maggioranza sfruttata? Questo è un punto da trattare con attenzione. Si sa che il sentimento dell’oppressione subita, se resta solo sentimento, dà luogo a impulsi di ribellione e tendenze anarcoidi [11]. Ma di fatto, l’oppressione è percepita; e, quel che più conta, esiste realmente. E allora?


[1] V. M. CASADIO, J. PETRAS, L. VASAPOLLO, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book 2004, in particolare la Parte I, Centralità dello Stato imperiale nella competizione globale.

[2] E quindi ai margini della cultura delle città. Si tratta talora di processi plurisecolari. “Cittadinesco” significa civile, raffinato, non rozzo nell’italiano del ’300; ruvidi nei modi e nel parlare, plebei sono gli uomini e le donne della campagna - per es. nel Decamerone. Ce ne sono ancora tracce, dopo più di sei secoli...

[3] Scrivo sforzandomi di citare il meno possibile. Alcuni richiami di luoghi “classici” di Marx, Lenin, Gramsci sono accennati tra parentesi, altri si intendono, altri sono soltanto impliciti. Chi scrive dichiara qui di sapere bene, arrivato a 70 anni, di avere certamente dei “padri” - i filosofi, con cui ha scelto di percorrere il cammino della vita, e poi i maestri, i compagni con cui ha vissuto e vive, e ha imparato vivendo con loro. E gli sembra anche che per chiunque sia così (anche se a molti è data soltanto una scelta obbligata, o tra padri di scarto, mediatici o stolidificanti). E che non possa essere diversamente, a guardar bene. Per cui l’affermazione recente di un noto politico, sul “non aver padri”, appare davvero singolare, anche a tener conto delle esigenze a breve scadenza, elettorali o altre...

[4] Viene qui a proposito la nozione di “monopolio della violenza”, che secondo M. Weber definirebbe il potere di Stato. Ma sono le classi che, nel realizzare la loro egemonia, si danno partiti, organizzazioni, istituzioni e anche Stati.

[5] Lo si sente dire. Ma chi parla così non intende la nozione di “classe” (che non significa, e non ha mai significato un “insieme di individui” - né in Marx né nei suoi antecedenti e fonti, Ferguson, A. Smith e la “storia filosofica” del tardo illuminismo inglese e francese; poi l’economia politica classica, e naturalmente Hegel). E inoltre, chi parla così è spesso affetto da quel miope politicismo, che vede gli eventi politici giorno per giorno, e si immagina che la storia sia una serie di “giorni”, come quelli che entrano nel suo orizzonte, e che lui percepisce. Oggi, poi, sono legate a quella miopia politicistica, e alle sue delusioni, molte favole reazionarie, a cominciare dalle chiacchiere filosofeggianti sulla “fine” - della storia, del lavoro, dello Stato, delle classi, e chi più ne ha più ne metta.

[6] Come Marx dice dell’ “uomo” in generale, che non è un’essenza astratta insidente in tutti gli elementi dell’insieme “uomini”, ma sempre, in concreto, una totalità di rapporti sociali.

[7] “Nessuna società potrebbe vivere, se il lavoro cessasse” - scrive Marx introducendo il concetto di “riproduzione” in Capitale I, sez. VII, proprio all’inizio. Al livello di astrazione di Capitale I, “lavoro” è “lavoro produttivo” in genere, purché valorizzante il capitale che lo impiega. Ma è interessante che Marx, contro il suo solito, faccia qui un’affermazione così generale. Essa riguarda infatti quel fondamento elementare, che è implicito in ogni ragionamento sulle società umane. Anzi: quando dici “società”, hai già detto produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro - e resta da vedere in quali, ben determinati rapporti degli uomini tra loro, e con la natura ambiente.

[8] Per una diversa impostazione, si può vedere il contributo di Hans Heinz HOLZ, presentato al convegno napoletano del novembre 2003 sui problemi della Transizione, e pubblicato in anteprima in “Aginform”, n° 38, gennaio 2004, col titolo Il testamento filosofico e politico di Stalin.

[9] Cfr. anche GRAMSCI, Quaderni del carcere, ed. critica (Torino 1975), in particolare nel Quaderno 19, sul Risorgimento italiano, per la egemonia esercitata dai moderati sui democratici nel periodo decisivo, tra il 1848 e la fondazione dello Stato unitario.

[10] Le nazioni europee moderne ne sono un buon esempio. Esse sono “nazioni borghesi”, nel senso che l’insorgere e poi lo sviluppo della borghesia (in Italia: dai Comuni medievali in poi, con la “pausa” regressiva della “crisi italiana” dal ’500 al ’700, e poi col Risorgimento), con i nuovi rapporti di produzione, le nuove figure sociali possibili, la nuova cultura corrispondente, vengono a costituire grado a grado, e attraverso una lunga serie di figure e scontri politici, un corpo, che si chiama “Nazione” (e ha comune una lingua? Ma quanti Italiani parlavano la lingua italiana nel 1861?)

[11] D’altra parte, l’oppressione realissima oggi, quando un pugno di superricchi su scala mondiale tiene in mano le sorti dei popoli, riposa anche sull’ottundimento del sentimento dell’oppressione (che si manifesta in rassegnazione, disinteresse, rinuncia all’impegno vestita da “disgusto per la politica” ecc.). Su questo bisognerà tornare nell’analisi, ancora in buona parte da fare, della concreta egemonia esercitata oggi, nella fase presente, e nuova, dell’imperialismo. Nei lunghi secoli dell’oppressione “tradizionale”, schiavista e feudale, le rivolte non furono la normalità. Normalità fu l’acconciarsi allo stato di cose esistente, la rassegnazione, l’ammirazione per i semidei ricchi e potenti, per i segni e i simboli del loro potere. Solo la classe operaia moderna ha potuto dire “Non siam più, laggiù nell’ officina / sulla terra, nei campi, al mar / la plebe sempre all’opra china / senza ideale in cui sperar”. Il ritorno a quella “normalità”, mutatis mutandis, è oggi l’obiettivo di un’azione sistematica tendente a trasformare le masse lavoratrici, cioè l’immensa maggioranza, in una neoplebe incapace di rappresentarsi il contesto delle sue condizioni, di ricavarne conseguenze razionali, o anche solo di immaginare quell’ “altro mondo possibile”, e necessario, che, se non vagheggiato, ma voluto con chiarezza di intelletto e spirito di sacrificio, sarebbe veramente possibile. - Ma di questo non possiamo occuparci qui. Il tema è vasto, e merita trattazione a parte.