Rubrica
Analisi-inchiesta: il movimento dei lavoratori:tra cambiamento e indipendenza

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Luciano Vasapollo
Articoli pubblicati
per Proteo (48)

Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
Articoli pubblicati
per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

Sabino Venezia
Articoli pubblicati
per Proteo (7)

Coordinamento Nazionale RdB Pubblico Impiego

Argomenti correlati

Capitalismo italiano

Sindacato

Nella stessa rubrica

Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)
Rita Martufi, Luciano Vasapollo, Sabino Venezia

 

Tutti gli articoli della rubrica: analisi-inchiesta(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Formato per la stampa
Stampa

3. La ricostruzione economica e politica

Gli anni che seguono la fine del secondo conflitto mondiale vengono, usualmente, ricordati come il periodo della ricostruzione e del miracolo economico, che vanno dal 1945 al 1963. Il quadro politico, economico e sociale che si prospetta delinea molteplici realtà.

L’Italia esce dal secondo conflitto mondiale con due ordini di problemi: immediati e di fondo. Le tematiche immediate che la classe politica - allora nascente - si trova ad affrontare sono legate ai danni provocati dagli effetti della guerra e dal ventennio fascista. I problemi di fondo, invece, sono da attribuirsi alla disoccupazione strutturale italiana e al profondo divario produttivo presente tra il Nord e il Mezzogiorno italiano.

A seguito del secondo conflitto mondiale, i danni diretti apportati dalla guerra sono evidenti; non tanto dal punto di vista produttivo [1], quanto per i danneggiamenti che i bombardamenti hanno provocato alle infrastrutture, alle vie di comunicazione, terrestri e marittime [2], e al patrimonio abitativo italiano.

Ai danni fisici si aggiunge l’esplosione dell’inflazione nell’Italia liberata, fenomeno che nasce al Sud, principalmente per le spese delle truppe di occupazione, e che in seguito interessa e coinvolge tutto il paese.

Affiancati ai problemi direttamente collegati alla guerra, la classe dirigente italiana si trova a dover gestire molteplici altri disagi:

• Un’estesa disoccupazione strutturale [3], che contenuta durante la prima guerra mondiale, con flussi migratori verso l’estero, esplode nel ventennio fascista, dando vita a una devastante pressione demografica nelle campagne.

• A causa della politica fascista, avversa alle importazioni, l’attività agricola presenta, specialmente nel mezzogiorno, gravi disagi strutturali, dovuti principalmente alla sovrapproduzione cerealicola e alla limitazione degli allevamenti zootecnici.

• Per quanto riguarda l’industria, anche se vi sono stati sviluppi nella produzione degli autoveicoli e dei prodotti petroliferi, questi hanno uno scarso impatto sull’ economia del paese; infatti, il settore alimentare, tessile e delle costruzioni risulta ancora tecnologicamente arretrato. A questo va aggiunto che la grande industria è concentrata in pochi gruppi-famiglie finanziari [4].

La ricostruzione economica e politica nell’Italia del dopoguerra può essere suddivisa in tre principali fasi:

• ’44-maggio ’46, stabilità dei prezzi e stagnazione produttiva;

• giugno ’46-ottobre ’47, acuto periodo di inflazione e ripresa produttiva;

• novembre ’47-agosto ’48: drastica deflazione e aperta recessione.

Il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace in effetti determinò: inflazione, disoccupazione, scarso sfruttamento degli impianti, diminuzione degli investimenti (né in macchinari né per la razionalizzazione del ciclo produttivo), il mercato nero.

La situazione si ’normalizzò’ solo quando fattori strutturali prevalsero su quelli congiunturali: ad es. l’inflazione dei primi mesi del ’47 non derivò solo dallo squilibrio tra domanda e offerta di beni, ma fu una manovra per attirare ingenti risorse finanziarie ed economiche per rilanciare la produzione italiana. Il blocco dei salari contribuì a rafforzare i principali gruppi industriali, in particolare quelli monopolistici, gettando così in crisi le piccole medie imprese.

La disoccupazione della fine del ’46 (circa 2 milioni di disoccupati) fu il risultato, oltre che della forza lavoro non più utilizzata in campo militare, anche dei licenziamenti dalle aziende in seguito allo sblocco dei licenziamenti concordato tra CGIL e Confindustria.

Va inoltre ricordato che lo Stato decise di non intervenire più in caso di squilibri del sistema economico produttivo e ciò, unito alla crisi inflattiva del ’47 e alla scelta di una strategia politica liberista, produsse una grave crisi del mercato del lavoro.

La liberalizzazione del mercato dei capitali e delle merci, attuata tramite la rinuncia alla disciplina dei cambi, la concessione di favori agli esportatori per le valute e l’abbattimento dei controlli sulle importazioni di merci, provocò la grave crisi speculativa ed inflattiva dell’inizio del ’47. Fu così che fu avviata la manovra deflattiva di Einaudi (Ministro del Tesoro Democristiano).

La linea politica che prevale, al fine di risolvere i molteplici problemi italiani, è quella di abbandonare la chiusura degli scambi con l’estero e la politica di protezionismo che aveva caratterizzato il fascismo, per avviare una progressiva liberalizzazione del mercato, volta a rafforzare gli scambi esteri. Nel dibattito politico questa sembra l’unica strada percorribile, sia perché l’Italia è carente di materie prime, ma anche perché l’esportazione di prodotti finiti all’estero permettono di ridimensionare il galoppante fenomeno inflazionistico.

Tutto questo si esplicita negli anni con molteplici accordi, sia di carattere nazionale che internazionale. Si ricordano tra gli altri gli interventi della Banca d’Italia a sostegno dell’economia nazionale, la politica della Confindustria volta a dare all’imprenditoria italiana nuove credenziali, l’adesione dell’Italia al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e alla CECA (Comunità Europea del Carbone e Acciaio). Questo processo di integrazione alla comunità internazionale da origine nel 1957, con la stipula del trattato di Roma, al Mercato Comune Europeo.

La creazione di detti accordi, affiancati al piano Marshall [5], volto ad accelerare la ricostruzione in Europa, hanno come obiettivo quello di sventare una eventuale crisi depressiva economica conseguente alla fine delle spese belliche, privilegiando la creazione di un mercato di interscambio internazionale.

Gli aiuti e la scelta di una politica di libero mercato, si manifestano in Italia con forti cambiamenti sia nel tessuto sociale che nella struttura lavorativa.

Alle concessioni fatte dalla CGIL al Governo circa la tregua salariale e lo sblocco dei licenziamenti, non seguirono quelle condizioni che essa aveva chiesto come contropartita (blocco prezzi, contingentamento importazioni, riforma fiscale). Così, da una parte il blocco dei salari e dall’altra i licenziamenti (che divennero massicci tra il novembre ’47 e l’agosto ’48), non rappresentarono il volano per la ripresa della produzione e degli investimenti ma furono utilizzate dalla borghesia produttiva per colpire l’intero assetto dei rapporti con la classe operaia e con il sindacato.

Tra febbraio ed aprile 1947 si avviò poi a conclusione il Governo tripartito di alleanza nazionale con forti ripercussioni tra la maggioranza e le minoranze della CGIL, la situazione non fu certo aiutata dal congresso di giugno a Firenze che ratificò il passaggio dalla gestione paritetica a quella proporzionale al peso delle correnti ma si spaccò sulla questione dello sciopero politico [6]; si accentuarono così i dissapori tra comunisti e socialisti da una parte e socialdemocratici, repubblicani e cattolici dall’altra, fino alla rottura dell’unità sindacale ed alla non attuazione delle rappresentanze unitarie previste dall’art. 39. L CGIL unitaria era caratterizzata dalle due principali componenti politiche presenti nel paese: i comunisti ed i cattolici; nei primi era pressoché assente un percorso di esperienza di gestione di un sindacato confederale, ma erano forti i concetti di sindacato di massa di Di Vittorio e chiare le prospettive di sviluppo della via italiana al socialismo di Togliatti; nei secondi era forte la necessità di strutturare un sindacato come espressione della società civile, ma il peso del partito e del Vaticano finirono per legittimare la funzione di collegamento tra i lavoratori e le nuove strutture dello Stato.

Il ruolo della CGIL unitaria, indispensabile nella prima fase, si protrarrà però ben oltre il necessario, rischiando di rappresentare un modello inadeguato al cambiamento di fase.

Di fatto il “compromesso costituzionale che si era realizzato in sede di Assemblea Costituente...” e “ l’accettazione del regime di protezione americana nell’ambito degli aiuti del piano Marshall”, [7] spinsero diversi soggetti politici e istituzionali, dallo Stato alle organizzazioni padronali ed imprenditoriali, ad esprimere i propri interessi ed a sperimentare i nuovi meccanismi di democrazia, legittimando quindi le proprie identità.

A questo va anche aggiunto il mancato rispetto di Governo e borghesia imprenditoriale a garantire il blocco dei prezzi, il contingentamento delle importazioni e la riforma fiscale come contropartita allo sblocco dei licenziamenti che comunque la CGIL garantì e che si applicò con forza; l’insieme di questi fattori, agevolarono (quando addirittura non determinarono compiutamente) i dissapori interni al sindacato, decretandone definitivamente la scissione e la ricomposizione in strutture sindacali “cinghia di trasmissione” dei partiti politici di riferimento.

Sarà questa la fase dell’egemonia, fase in cui il rapporto di massa dei partiti si sviluppa grazie al ruolo dei sindacati da essi diretti (spesso non formalmente schierati politicamente) anche solo ideologicamente, ma sarà anche la fase dell’avanzata e delle grandi conquiste del movimento sindacale di classe che durerà fino agli anni ’70 e che segnerà un ragguardevole arretramento del capitalismo, successivo ad una crisi che per la prima volta assumerà un carattere in apparenza irreversibile.


[1] A eccezione del settore siderurgico italiano che aveva perduto un quarto degli impianti di produzione; a esempio lo stabilimento di Cornigliano (Lo sviluppo dell’economia italiana di A. Graziani, 1998, Bollati Boringhieri).

[2] Si ricorda che oltre la metà delle locomotive e delle vetture furono distrutte e che la marina mercantile si trovò a perdere il 90% del naviglio (A. Graziani, ... op. cit.).

[3] “...le stime ufficiali ponevano il numero dei disoccupati intorno ai due milioni, ma con ogni probabilità peccavano per difetto, in quanto trascuravano i sottooccupati...”; A. Graziani, . op. cit., pag.22.

[4] F. Barca, (a cura di) Storia del Capitalismo italiano, Progetti Donzelli, pag. 117 ss.

[5] European Recovery Program, meglio conosciuto come piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano George Marshall. “...può così realizzarsi, come nel resto d’Europa, l’effetto più rilevante del piano Marshall: la creazione di condizioni che consentano l’avvio della liberalizzazione commerciale e riducano le tensioni sociali della ricostruzione...” F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, 1997, Progetti Donzelli, pag. 31.

[6] L.Lama, Cari compagni, a cura di P.Cascella, EDIESSE, srl, febbraio 1986, Roma, pag. 22.

[7] A. Pepe, P.Iuso, S. Misiani, La CGIL e la costruzione della democrazia Ediesse, Roma, ’01 pag. 51 e seg.