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Trasformazioni sociali e sindacato

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Filippo Viola
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Professore di Sociologia, Fac. di Sociologia, Univ. “La Sapienza”

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FIAT di Melfi: una lotta dura che fa scuola

Filippo Viola

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La lotta dura alla Fiat di Melfi fa testo. Un compagno, incrociandomi alla manifestazione del 4 maggio a Roma, mi ha detto: «Sei qui, a scuola?». Ottima idea. Ed eccomi qui, seduto su un banco, a cercare di apprendere gli insegnamenti di lotta dura della “Scuola” di Melfi. Eccomi qui, a trarre indicazioni che ci aiutino a decifrare le dinamiche di un impatto di classe così netto fra i bisogni operai e la struttura di comando padronale. Netto al punto di provocare il blocco della produzione nello stabilimento «Sata». E ciò, si badi, in un contesto generale, sociale e politico, di segno opposto.

Non viviamo in anni “caldi”, come sappiamo. Tutt’altro. La soggettività operaia è come ingabbiata in una fitta rete di mediazioni politiche, sindacali e sociali, che ne sviliscono le potenzialità antagonistiche. Non è il caso qui di addentrarsi nei sofisticati orpelli ideologici che vengono attivati per schiacciare la condizione operaia sulle compatibilità imposte dal capitale. Ci ho provato in altri interventi su «Proteo». Ciò che interessa in questa sede è cercare, in prima istanza, di interpretare, sul piano teorico, i processi materiali e immateriali che si sono messi in atto nel corso dello scontro.

1. La rottura esistenziale

Partiamo da un dato incontrovertibile. A Melfi, attraverso processi che dobbiamo tentare di ripercorrere, la base operaia ha acquistato una compattezza ed una forza tali da essere in grado di attaccare ed intaccare il comando padronale. Beninteso, si tratta di una piccola maglia incrinata. Dopo anni di entusiasmi caduti nella polvere, bisogna resistere alle facili illusioni. Si impone il pessimismo della ragione. E tuttavia occorre registrare il segnale che Melfi ci manda. Si tratta di attrezzarsi a dovere per cercare di metterlo a frutto. Per rendere la situazione con una immagine, è come se in una strada deserta, pavimentata in cemento, improvvisamente venga fuori uno zampillo. È segno che sotto c’è una vena d’acqua. Chi ha sete di lotta non deve limitarsi a bagnarsi lì per lì le labbra. Deve scavare in profondità e mettere in opera una conduttura politica che porti in superficie l’acqua a gettito continuo.

Per mettere a frutto gli insegnamenti di Melfi bisogna partire da una domanda: come è potuto accadere che un filo d’acqua abbia perforato la lastra di cemento? Fuori metafora, come è stato possibile che, in un contesto di dominio padronale a trecentosessanta gradi, una base operaia, schiacciata sui ritmi della produzione, metta fuori, di punto in bianco, una soggettività collettiva capace di tenere testa al colosso per antonomasia dell’industria italiana? Sembra quasi di rivivere la leggenda di Davide e Golia.

Per tentare di dare risposta a una tale domanda, procediamo per gradi. Intanto, è da escludere un primo elemento di spiegazione, a cui facilmente si fa ricorso. In un quadro di generale stagnazione dell’antagonismo di classe, la rottura anche di una piccola maglia della rete di dominio del capitale sulla società non può determinarsi sul piano ideologico. E non è solo una questione di dimensione del caso Melfi. Manca la forza di una identità di classe che metta in campo un soggetto politico in grado di opporre ai piani del capitale la presenza, sulla scena sociale, delle forze di lavoro. Dal caso Melfi al caso Italia non c’è dunque soltanto un passaggio di dimensione. Si tratta di un vero e proprio salto di qualità. Per ragionare a contrario, immaginiamo quali risorse politiche verrebbero chiamate in causa se la lotta esplosa in situazioni particolari e circoscritte si riproducesse a catena, sino a tradursi di fatto in scontro diretto fra la classe operaia e la classe padronale nazionale.

Restiamo dunque con i piedi per terra e atteniamoci al caso che stiamo cercando di analizzare e interpretare, non a fini di conoscenza accademica, ma per evitare di operare alla cieca in sede di intervento politico e sociale. Il dato di partenza che ha prodotto l’esplosione di Melfi non attiene alla sfera della coscienza politica. Nel corso della manifestazione di Roma mi sono affiancato via via a diversi operai, che spontaneamente si sono messi a parlare della loro situazione. Ebbene, a dare ragione della durezza della loro lotta non facevano mai ricorso a motivazioni politiche e tanto meno ideologiche. Dicevano semplicemente: «Non ce la facciamo ad arrivare alla fine del mese». E qualcuno aggiungeva: «Chi ci fa la predica sulla situazione economica provi lui a campare con il nostro salario». È una annotazione significativa. All’astrazione economica gli operai oppongono la concretezza esistenziale. Questa contrapposizione fra astrazione e concretezza è di antica data. Risuona persino in una vecchia canzone di protesta: «Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar».

Quando il discorso degli operai tocca la questione dei turni di lavoro, vengono fuori storie allucinanti. E non si tratta soltanto dell’intollerabile sovraccarico di lavoro notturno (la cosiddetta “doppia battuta”), che è una delle ragioni della protesta. La Fiat di Melfi raccoglie mano d’opera in un ampio bacino, che tocca per esempio Caserta e Benevento. E poiché gli operai di fuori, con i loro salari di fame, non possono permettersi il lusso di mettere su casa a Melfi, sono costretti a fare i pendolari. Così, con gli orari dei turni che si ritrovano, passano spesso parte della notte su un pullman. Un panino e via, ad affrontare i ritmi massacranti della fabbrica, dove la produzione viene spinta al limite delle umane possibilità.

La miccia che ha appiccato il fuoco è dunque strettamente esistenziale. E la piattaforma della vertenza non viene elaborata a tavolino, nell’astrazione di una strategia sindacale, ma è già impressa, a caratteri di fuoco, nella vita quotidiana dei lavoratori e delle lavoratrici, uomini e donne in carne e ossa.

C’è in questo passaggio una prima indicazione di carattere teorico. Perché si inneschi un processo di rottura radicale, bisogna che la condizione esistenziale, progressivamente sempre più degradata, superi la soglia della “sopportabilità”. Bisogna che in quella condizione sia diventato impossibile continuare a vivere. La base materiale è necessaria, ma non sufficiente. Perché il dato materiale non è in natura. È un dato sociale, che passa attraverso la percezione personale e collettiva, sulla quale opera l’apparato ideologico della classe dominante. Se a Melfi la condizione materiale è diventata esplosiva, è perché la sua “insopportabilità” ha perforato la percezione ideologica interiorizzata nella coscienza, per esprimersi nei termini esistenziali del vissuto quotidiano degli operai. Per questa via, la lotta si è tradotta in rottura esistenziale. Ed è in questo suo connotato la radice della sua irriducibilità.

2. Giustizia sociale e dignità personale

Una volta attivato da una urgenza materiale della vita quotidiana, il processo va avanti e investe le sfere immateriali, determinando quell’intreccio fra materialità e immaterialità che ho più volte segnalato in altre sedi. Nei ragionamenti degli operai di Melfi la sequenza è chiara: «Perché dobbiamo avere meno salario degli altri operai della Fiat? Non vogliamo essere trattati come operai di serie B». L’equiparazione del salario come richiesta di giustizia sociale, in una piattaforma che ha al centro gli operai come persone, con il loro carico di urgenze materiali, ma anche con i loro scatti di orgoglio e di dignità.

La dignità personale è un motivo ricorrente nei discorsi appassionati di queste esemplari figure del sud. Un motivo che investe un’altra ragione della lotta: i provvedimenti disciplinari. Alla Fiat di Melfi vige una versione terroristica del comando padronale. Un comando che ha prodotto negli anni una pioggia di provvedimenti disciplinari. Veri e propri avvertimenti agli operai: se osate alzare la testa, verrete schiacciati. In un tale clima, la ribellione operaia è una forte dimostrazione di coraggio, che non arretra nemmeno di fronte alle manganellate repressive della polizia, perché attinge la sua forza nella dignità operaia ferita. Una tale impennata affonda le sue radici nella tradizione della soggettività operaia. Una soggettività che può attraversare fasi di appannamento, ma si riscatta quando la misura del comando padronale oltrepassa il segno dell’arroganza. A quel punto, la protesta di Melfi non mira soltanto al ritiro dei provvedimenti. Va ben oltre. Vuole reintegrare la dignità della figura operaia, che il padrone ha inteso per anni sbeffeggiare e umiliare. Vuole reintegrare la persona nella figura operaia.

3. Comunità operaia e autonomia

Una lotta così dura, nella quale gli operai investono la loro esistenza e quella delle loro famiglie, incide fortemente sullo stato della soggettività operaia. Attraverso un processo di condivisione degli obiettivi e dei relativi rischi, la base operaia, frammentata nel rapporto individuale con la direzione dell’azienda, si trasforma in comunità, in soggetto collettivo. A questo punto, la comunità operaia si scrolla di dosso tutte le impalcature delle mediazioni e mette direttamente in campo le proprie richieste, rivendicando di fatto una gestione autonoma della lotta. Non si tratta, in origine, di una rivendicazione “politica”. Si tratta semplicemente di una misura che tende a fare la guardia sull’andamento della vertenza. Ma il progressivo innalzarsi del livello dello scontro e la parallela compattazione della base trasformano la precauzione in affermazione del soggetto collettivo come espressione dell’autonomia operaia.

Tutte queste trasformazioni riportano il processo alla sua origine, in un movimento circolare fra versante materiale e versante immateriale della lotta. Quando è in gioco non questo o quel punto, anche importante, di una piattaforma sindacale, ma direttamente l’esistenza delle persone, chi può decidere della propria vita se non le stesse persone? Quando, come alla Fiat di Melfi, alla base della lotta ci sono condizioni materiali con valenza esistenziale, quando sono in gioco l’integrità e la dignità di uomini e donne in comunità, le esperienze di autonomia operaia non possono essere facilmente azzerate. E ciò a prescindere dall’andamento e dalla conclusione della vertenza sindacale. La vertenza passa. La soggettività operaia prodotta dalla lotta resta.