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Dal movimento operaio al movimento sociale

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«Movimento sociale»: il termine ha la forza dell’evidenza, ma finisce per designare un campo di battaglia, indissolubilmente semantico e politico, dove si confrontano interpretazioni multiple e posizioni contraddittorie. A volte invocata per mostrare le «falle» della politica convenzionale, nelle quali si infila l’azione collettiva, altre volte impiegata, secondo un’accezione più perniciosa, per ratificare l’arretramento storico del movimento operaio, l’espressione si rivela aporetica più che affermativa. Cosa c’è dietro questa parola? Non si saprebbe dirlo con esattezza, né tacerlo con finta ingenuità.

Tanto più che il suo utilizzo non è solamente indice delle relazioni conflittuali che ci si sforza di comprendere, ma rappresenta anche una modalità d’intervento dei diversi attori nello spazio pubblico di cui è possibile identificare l’impatto.

Se ci si dovesse intendere provvisoriamente sul senso di «movimento sociale», si potrebbe ammettere che il termine rimanda ad un insieme disparato di pratiche che contestano i processi attuali di modernizzazione dei rapporti sociali. Questa modernizzazione non è semplicemente «economica», ma comporta degli aspetti sociali e societari legati alla crescita di un capitalismo mondiale finanziarizzato dalle pulsioni più che mai entropiche che spingono il mondo sociale verso un’esistenza mutilata ed una individuazione post-moderna.

Per collocare storicamente il «movimento sociale» e comprendere il significato politico delle nuove forme di mobilitazione collettiva, bisogna partire dalla trasformazione fondamentale del capitalismo, passato dal «fordismo storico», (i «gloriosi Trenta») all’era dell’ «accumulazione flessibile» (a partire dalla metà degli anni settanta).

Questa collocazione temporale comporta inevitabilmente un punto di vista riduttivo. Ma ha il vantaggio di mettere in evidenza l’orientamento comune inerente a un insieme di cambiamenti sociali che solitamente vengono affrontati da un punto di vista specifico [1]. Si tratta di accreditare l’idea che sebbene tali cambiamenti avvengano in ordine sparso, si realizzano in uno spirito sistemico. Il concetto-orizzonte di capitalismo post-moderno mira a designare provvisoriamente questa «svolta», insistendo tuttavia sul radicamento dei processi di cambiamento nella logica sistemica del capitalismo. Inoltre attira l’attenzione sul fatto che le tematiche critiche del «nuovo capitalismo» (questa entità non identificata!) sono insufficienti e lacunose e pertanto richiedono un reale lavoro collettivo di ridefinizione e di sviluppo concettuale.

Precisiamo l’argomentazione. Il «fordismo» si fondava sull’esistenza di una classe operaia relativamente «omogenea» (anche se non è mai stata un blocco monolitico), strutturata tramite un forte movimento operaio e di formazioni partitiche che ne erano i referenti in campo politico. Tutto era articolato: progetto storico di emancipazione sociale, progetto sindacale, progetto politico. Il terzo termine in qualche modo sovradeterminava i primi due. L’insieme funzionava grazie all’esistenza e alla crescita di uno «Stato sociale» solido, le cui politiche di ridistribuzione generavano il «ciclo virtuoso» dell’economia. Si credeva allora ad un cambiamento globale del mondo e di essere in grado di mettere in discussione il carattere capitalistico dell’accumulazione, o perlomeno di migliorare sensibilmente la condizione delle masse lavoratrici. L’immaginario del progresso includeva inevitabilmente una dimensione economica (miglioramento del tenore di vita degli strati popolari) e una dimensione socio-politica (allargamento dei diritti sociali e socializzazione di certi aspetti fondamentali della riproduzione della forza lavoro).

A partire dalla metà degli anni settanta, si assiste a dei rivolgimenti strutturali a cascata: diminuzione del proletariato industriale e aumento del lavoro terziario, de-collettivizzazione delle popolazioni operaie, esplosione e destabilizzazione sociologica dei salariati, compreso l’inquadramento, perdita di referenti di classe di cui l’indebolimento dei sindacati è la manifestazione più evidente. La conflittualità in fabbrica si smussa e cessa di funzionare come il motore o l’epicentro del conflitto sociale. Peggio ancora, essa si sposta in parte verso delle «lotte per una migliore collocazione» all’interno delle classi subalterne di cui i processi di etnicizzazione delle gerarchie e delle disuguaglianze all’interno della classe operaia sono le espressioni più nefaste. La rappresentazione degli interessi organizzati delle classi subalterne da parte della sinistra, e soprattutto dei sindacati, si destruttura, mentre il potere strutturale del capitale si rinforza all’interno della società. In pratica la «centralità operaia» è scomparsa e, con essa, la forma ideologica generale della lotta di classe del capitalismo fordista. Si può oramai celebrare il mercato-provvidenza, l’individualismo concorrenziale e la visione utilitarista del mondo, come fanno gli alfieri del liberismo. Oppure postulare il «declino del movimento operaio» e l’emergere di nuove figure di contestazione storica che hanno attinto dagli orientamenti culturali della società, come fa con ostinazione (ma anche con una fastidiosa tendenza a scartare o squalificare gli elementi oggettivi che si oppongono al suo schema interpretativo prestabilito) una certa sociologia tourainiana [2].

Bisognerebbe includere in questa configurazione una serie di parametri supplementari: l’influenza di individualismo di crisi caratterizzato dal ripiegamento sulla sfera privata, sui valori dell’«intimità», dei gruppi affini o comunitari; la «spettacolarizzazione» del mondo con l’influenza post-modernista che spinge al parossismo la commercializzazione della cultura valorizzando l’idea che anything goes; lo sdoppiamento mediatico del reale che si costruisce giocando in modo sottile sulla paura e l’evasione, la minaccia e la spensieratezza, il cinismo e il divertimento. La rappresentazione dominante di questo periodo è una strana sensazione di finitudine: «fine» delle ideologie, degli antagonismi di classe, del comunismo, della rivoluzione, fine della storia. Periodo quantomai sbalorditivo dove la celebrazione post-moderna della «fine» sancisce il trionfo di un eterno presente sprovvisto di orizzonte ma anche di radici storiche.

Malgrado ciò, questa fine-dissoluzione non conduce all’immobilismo ma all’accelerazione del cambiamento. Lo spirito di innovazione e la differenziazione culturale non sono in recessione ma surriscaldati. La commercializzazione del mondo si accresce: ricicla allegramente il passato (le «tradizioni» resuscitate in una fantomatica seconda vita), ridisegna i contorni del presente, reintegra le visioni del futuro nell’eclettismo radicale dell’«età caleidoscopica». L’insieme delle forme di esistenza degli esseri viventi fa decisamente il suo ingresso nella base sociale dell’accumulazione su scala mondiale. Le enclavi precapitalistiche o semi-capitalistiche, fin qui tollerate o sfruttate in modo tributario, divengono dei nuovi terreni operativi per lo spiegamento di strategie di «modernizzazione». Ma l’estensione limitata dei territori da sottomettere obbliga le forze capitalistiche ad approfondire ed intensificare lo sfruttamento sui territori già «conquistati». I rapporti politici, le passioni umane, la vita privata, il commercio delle idee, finiscono nel settore del calcolo economico. Le attività che fino ad ora sfuggivano, interamente o parzialmente, al divenire prodotti del mondo soccombono al fascino della valorizzazione. Da questo punto di vista, gli attacchi liberali contro i servizi pubblici e le protezioni sociali non sono una semplice opzione politica ma una manifestazione delle tendenze strutturali del capitalismo post-moderno.

La produzione culturale stessa si riduce sempre di più ad una attività economica ordinaria che offre all’accumulazione del capitale degli orizzonti di attualizzazione aperti ed estremamente redditizi. L’industria del divertimento ne è una rappresentazione perfetta. Il movimento inverso dell’economia verso la cultura non è meno significativo: la commercializzazione è anche una estetizzazione del mondo. Secondo Fredric Jameson, la produzione di merci costituisce un fenomeno culturale nel senso che la merce è «esteticamente» consumata. I prodotti sono oramai acquistati dal pubblico sia per il loro valore di uso immediato che per la loro immagine. «Una intera industria a parte è nata per concepire l’immagine dei marchi e orchestrare la loro promozione commerciale: la pubblicità è diventata una mediazione fondamentale fra la cultura e l’economia. Certamente essa è soltanto una delle innumerevoli forme della produzione estetica. [...] L’erotizzazione è una parte significativa di questo processo: gli strateghi della pubblicità sono dei veri e propri freudo-marxisti che hanno compreso la necessità dell’investimento libidico per valorizzare i loro prodotti [wares]» (Fredric Jameson [2000], p. 52).

Questa constatazione implica importanti conseguenze politiche per la concettualizzazione dei movimenti di contestazione che si appellano alla soggettività degli individui e si oppongono agli orientamenti culturali del capitalismo. Questi movimenti sono intrinsecamente legati alla nuova configurazione antagonistica del rapporto sociale perché avvengono nel momento in cui la messa in moto del capitale rimodella profondamente le identità, gli affetti e gli stili di vita nel quadro dell’economia-mondo. Invece di opporli ai conflitti «tradizionali» del lavoro - e di considerare questi ultimi come realtà in declino, cioè appartenenti alla defunta «società industriale» - bisogna considerarli come forme di estensione della conflittualità. Nel suo decentramento attuale, quest’ultima è oggi meno coesiva e comprensiva che in passato. Al contrario, i movimenti sociali rischiano di restare enigmatici se si respinge il fatto che le società «post-industriali» non sono «meno capitalistiche» del fordismo storico, ma rappresentano la forma più pura (e per questo la più intensiva) dell’espansione storico-geografica del capitale.

Il nuovo regime di poteri che si instaura nello spazio post-moderno comporta degli aspetti propriamente sconcertanti. Si basa particolarmente sulla sua temporalità piatta e fuggente, indicizzata sul carattere effimero degli avvenimenti, delle immagini e delle superfici. Il tempo flessibile è il tempo di una realtà certo immediatamente afferrabile nelle sue dimensioni sequenziali, ma fondamentalmente instabile e non totalizzabile come racconto biografico cumulativo che dà un senso alla vita degli individui. Lo sguardo ordinario sul mondo si rivela incoerente e frammentario. Quest’ultimo appare sempre di più aleatorio e superficiale. L’accumulazione flessibile del capitale, la dominazione irresistibile della finanza deregolamentata, la reinvenzione senza interruzioni delle istituzioni e degli scambi sociali accreditano l’idea di un mondo costitutivamente indeterminato.

Ma non è altro che un’apparenza sbagliata. Il «pluralismo disordinato» del mondo post-moderno è fondato sulla «perseveranza in essere» del capitale, sul consolidamento del suo potere a scala globale. Non è la diluizione della potenza capitalistica che genera il «disordine» sistemico ma piuttosto il suo rafforzamento (la sua «concentrazione», anche attraverso delle forme morbide e decentralizzate) che fa sprofondare il mondo in una crisi sempre più profonda. Il processo di appropriazione del mondo da parte del capitale è un processo di espropriazione della maggioranza dell’umanità (Jean-Marie Vincent [2002]). Questo si verifica sia in termini storico-geografici (guerre, miseria, distruzione dell’ambiente, epidemie, ecc...) sia in termini di assoggettamento della socialità e dell’affettività umane ai movimenti di valorizzazione.

Il rapporto sociale di lavoro è sottoposto al primato della flessibilità. Come nell’analisi di Richard Sennett [2000], il nuovo regime capitalistico assomiglia a un «tornello»: tutto diventa fluido e imprevedibile. I collettivi tradizionali di lavoro vengono rimpiazzati da delle «équipes autonome» che tendono a internalizzare i nuovi vincoli del mercato (just in time, controllo di qualità, ecc...). La gestione economica delle imprese si allinea sul breve termine, relegando i salariati nella biochimica dell’angoscia quotidiana. L’economia flessibile, «nuova» o «vecchia», generalizza la «cultura del rischio», fino al punto di farne una preoccupazione quotidiana per i più. L’insicurezza alloggia ormai al centro delle relazioni professionali.

Il produttore post-moderno è condannato al cambiamento perpetuo del quale non controlla né il senso né il fine. La stabilità passa per un atteggiamento di debolezza, o meglio, per un segnale di inadeguatezza che conduce al fallimento. L’importante è dimostrare che si è capaci di seguire il ritmo del cambiamento. Di restare «in corsa» preoccupati solamente del proprio «benessere» personale. Di «confermare» senza sosta la propria «buona fede» verso l’impresa sperando così di ridurre le incertezze dei propri «privilegi» (salvaguardare il proprio impiego e salire nella gerarchia).

In questo universo mentale, la violenza simbolica conforta e deforma i rapporti di produzione e di cooperazione. La sfiducia guadagna terreno fra gli attori della vita economica, la solidarietà indietreggia. I «compagni intimi» di ieri diventano dei concorrenti diretti. Oscillano permanentemente fra l’attivismo e la passività, l’ebbrezza dell’investimento nel lavoro e la sottomissione rassegnata ai nuovi metodi manageriali. Vivono con apprensione la perdita di riferimenti solidi sia nell’impresa che nella società. «Il cursore è troppo puntato sulla destrutturazione», dicono in sostanza.

Quali sono allora le resistenze contro questo ordine sociale? In un mondo strutturalmente instabile e turbato, l’espressione del malcontento incontra seri ostacoli. La posizione protestataria si trova di fatto disprezzata se non considerata superata: viene liquidata come dovuta a «problemi di comunicazione» o all’azione di alcuni «cattivi soggetti» refrattari alle esigenze della modernizzazione (corporativismo, conservatorismo sindacale, ecc...). Le «competenze morbide» della comunicazione e l’ammorbidimento delle linee gerarchiche permettono alle direzioni d’impresa di esercitare il potere senza assumerlo direttamente, e soprattutto, senza assumersi le conseguenze umane delle politiche di flessibilità. I valori «camaleontici» dell’economia flessibile regnano in modo insidioso, senza indossare la corona. Essi tendono a sospendere la percezione totalizzante del cambiamento trasformando il tempo narrativo degli individui in semplici cronache di avvenimenti dissociati. Inoltre scoraggiano l’espressione della contestazione e disinnescano in anticipo le velleità rivendicative dei salariati.

In totale, la «post-modernità» allarga il campo dei rapporti di dominazione e acuisce le contraddizioni sistemiche. Allo stesso tempo, si traduce in uno scivolamento ideologico verso una sorta di man’s langue dove si esclude scrupolosamente tutto quello che potrebbe accreditare l’idea che l’ordine capitalistico possa essere «superato». Il rapporto sociale di produzione diviene per altro innominabile: si parla di «post-fordismo» o di «neo-liberismo», ma si smette di pensare il capitalismo. Al limite, lo si chiama «nuovo», attardandosi piuttosto sui suoi effetti distruttivi che non alle determinazioni strutturali.

Torniamo, dopo questa lunga perifrasi, agli ultimi episodi di azione collettiva in Francia. All’inizio degli anni novanta, un vero e proprio sentimento di insicurezza sociale, raddoppiato da dubbi profondi sul futuro, si impadronisce di diverse categorie di popolazione. Le lotte operaie diminuiscono in frequenza e intensità, la conflittualità è al suo punto più basso. Poco importa a dire il vero: il clima sociale è lungi dall’essere euforico. Nuovi fenomeni dicotomici fioriscono nell’opinione pubblica, suscettibili di assorbire e riflettere delle connotazioni e opposizione di classe. La paura della disaffiliazione, per esempio, anche se scompiglia i referenti binari (sfruttati contro padroni), tende a riorganizzare sotto questa forma altre relazioni e interazioni simboliche collettive: il rapporto con il lavoro, con la politica, con il controllo del destino sociale.

Inoltre bisogna notare che il movimento operaio francese non subisce durante questo periodo una sconfitta frontale, comparabile al fallimento del terribile e logorante sciopero dei minatori (marzo 1984 - marzo 1985) nell’ Inghilterra thatcheriana dove il governo liberale, intransigente, appoggiandosi ad una lunga preparazione tecnica, e soprattutto «mentale», e agendo in profondità sul piano dei simboli, attacca e riesce a spezzare la «memoria vivente» del movimento operaio. (Noëlle Burgi [1994]). Si trova piuttosto confrontato con una congiunzione di evoluzioni regressive, a volte a piccoli passi, a volte a grandi falcate, che rafforzano la convinzione generale che la «classe politica» - allora si diceva così - non è in grado di risolvere i problemi importanti della società francese, in primo luogo la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. L’arretramento (relativo) della «classe mobilitata» pone gli sfruttati in posizione difensiva, ed estremamente fragile, nei confronti della politica liberale. Ma non per questo la loro adesione alla «modernizzazione» si rafforza. Al contrario, l’immaginario antagonistico su cui si fonda il conflitto sociale resta pressoché intatto, e anzi tende a ricodificare o a caricare simbolicamente l’insieme delle mobilitazioni e delle manifestazioni collettive di quel periodo. Un effetto quantomai sorprendente, che le letture indaffarate a farla finita con il «movimento operaio» tendono a sottostimare.

È in quel momento, verso il 1993-94, che sopraggiungono nuove lotte, che raccolgono il testimone dei coordinamenti che hanno segnato la seconda metà degli anni ottanta: movimenti all’Air France, mobilitazioni contro il CIP, conflitti industriali a Aluminium Dunkerque e a EGT-Alsthom dove l’opinione pubblica scopre gli «apaches», giovani operai all’origine dello sciopero chiamati così dai giornalisti, per la fronte bardata con autoadesivi che ricordavano le pitture di guerra. L’impatto di questi ultimi conflitti ha un alto valore simbolico perché emergono in zone di attività economica ritenuti clean, classificate come appartenenti alla logica «post-fordista». Le contraddizioni del nuovo ordine produttivo escono allo scoperto.

Il movimento scioperante che manifesta nell’autunno 1995 costituisce la più importante mobilitazione popolare dopo il maggio 1968 (Claude Leneveu, Michel Vakaloulis [1998]). La sua dimensione «anti-liberale» non è solamente evenemenziale (sconcertare la vita politica e mettere in crisi il governo di Alain Juppé), ma anche progettuale (rompere con il fatalismo di una riforma «irriformabile» delle pensioni e spostare, almeno simbolicamente, le linee di demarcazione fra il possibile e l’auspicabile). Altri focolai di contestazione danno a vedere che la conflittualità nell’era del capitalismo flessibile non è affatto confinata ai (soli) luoghi di lavoro in senso stretto, ma si sposta e si sviluppa aldilà delle mura dell’impresa: mobilitazioni di «paese» a favore del lavoro, rivolta dei disoccupati, movimenti dei «senza», lotte contro il razzismo e il Fronte Nazionale (che costruisce la sua proposta politica xenofoba sullo sfondo della crisi sociale), mobilitazioni delle donne per l’uguaglianza e la dignità, manifestazioni per la difesa delle libertà individuali e collettive, e infine l’esplosione spettacolare dell’ «area» anti-globalizzazione, anche se l’essenziale resta da costruire.

Sicuramente tutti questi movimenti non sono «anticapitalisti» nel senso in cui poteva esserlo il movimento operaio, nei suoi momenti «eroici», nelle sue forme rivoluzionarie o riformiste. Non connotano, a fortiori, l’emergere di un «nuovo movimento operaio» (antisistemico) che cerchi la sua strada a tastoni. Pretendere il contrario non è solamente un abuso linguistico, ma soprattutto un disprezzo empirico della loro profonda eterogeneità politica e sociologica. Tuttavia, non rappresentano nemmeno il «dopo movimento operaio» (cultural-identitario) che si situerebbe al di fuori del rapporto capitale/lavoro. Se li si situa, per decisione di metodo, in uno stato indefinito di assenza di peso sociale il loro sviluppo diviene incomprensibile. La loro dinamica contestataria, il loro immaginario politico binario (possidenti/diseredati, aventi diritto/«senza», liberali/antiliberali, ecc...), le loro azioni fondate sulla partecipazione deliberativa e la democrazia diretta attestano, al contrario, che questi movimenti convergono nella lotta contro la ricostruzione post-moderna dei rapporti sociali e il governo liberale del mondo. La circolarità degli impegni e la molteplicità di posizioni fra i militanti che si osservano in seno al «movimento sociale» sono un indicatore di questa tendenza.

Riassumendo. Esisteva in passato un movimento operaio con le sue organizzazioni di massa, le sue battaglie emblematiche, i suoi miti di mobilitazione. Era costituito attorno al proletariato industriale e tendeva a ricoprire integralmente lo spazio della protesta. Per schematizzare, si può dire che non era semplicemente il modello del movimento sociale ma l’unico movimento sociale. Nell’era del capitalismo post-moderno, il conflitto sociale si presenta in forme diversificate, decentrate, frammentate. A prima vista, si nota l’assenza di un nucleo centrale e inamovibile. Ogni conflitto conserva la sua «dignità» evenemenziale, la sua singolarità irriducibile di «grande causa», ma anche la sua maniera specifica di riannodare i contenuti centrali della «questione sociale». La lotta contro la sottomissione del lavoro al capitale «eccede» lo spazio del movimento operaio nel senso tradizionale del termine. Da questo punto di vista, il «fondamentalismo di classe» delle tappe precedenti è sopravvissuto. Per meglio delineare il contenuto di questo mutamento, proponiamo di distinguere analiticamente due «poli» del movimento sociale. Non si tratta di componenti morfologiche, come le definisce Gérard Mauger nel presente volume (componenti sindacale, associativa, intellettuale, politica), ma dei «sotto-campi di forza» che dispongono di «terreni» (e di risorse) di mobilitazione eterogenea e inducono delle dinamiche di contestazione distinte. Il «polo del lavoro» si inserisce nel solco delle lotte operaie: i conflitti del lavoro sono sempre di attualità e la capacità di resistenza del movimento sindacale rimane importante sia a livello nazionale sia su scala mondiale. Ma tenendo conto della ricomposizione sociologica dei lavoratori, non ha la stessa estensione della stretta conflittualità di fabbrica. Al suo fianco si sta costruendo, con molte contraddizioni, suddivisioni, insufficienze e anche inesperienza, un secondo polo del movimento sociale, che si può definire «dei fenomeni sociali»: lotte per l’allargamento dei diritti sociali e delle libertà individuali e collettive, mobilitazioni dei «senza», lotte civiche contro il razzismo e il Fronte Nazionale, movimenti no-global, manifestazioni contro la guerra in Iraq, ecc... Questi due poli sono costitutivamente interdipendenti dato che affondano le loro radici nelle stesse cause strutturali e le loro pratiche si oppongono agli effetti combinati prodotti dal sistema (Sophie Béroud, René Mouriaux, Michel Vakaloulis [1998]). La loro costante interazione è fonte di dinamismo per il movimento sociale nel suo insieme. A questo proposito, l’impatto degli scioperi di novembre-dicembre 1995 sul movimento dei disoccupati [3] oppure l’impegno dei militanti sindacali nel movimento anti-globalizzazione, comprese le manifestazioni di Seattle e Washington [4], sono dei casi emblematici ma non unici. Talvolta, le nuove forme di contestazione non sono necessariamente capitalizzabili in senso politico e strategico: non esiste alcun processo di espansione lineare ma dei movimenti discontinui e «tournants», per riprendere l’espressione di Pierre Bourdieu.

In totale, siamo di fronte a dei movimenti radicali, polimorfici e «multifronte», attraversati spesso da «pulsioni anticapitaliste», ma allo stesso tempo, sprovvisti di una riflessione elaborata per proiettarsi aldilà dei limiti del sistema. Ciò non significa che la dinamica dei movimenti sociali si riduca a una posizione di rifiuto. Questo, d’altra parte, comporta una dimensione propriamente affermativa. Per stabilire il rifiuto su una base solida, bisogna proiettarsi verso un «altrove» auspicabile che ci si sforza di ricondurre all’ordine del giorno. Per opporsi con efficacia alle strategie liberali, bisogna produrre dei nuovi rapporti con la realtà, tenendo conto delle condizioni di vita e delle aspirazioni dei più, e specialmente dei gruppi sociali più fragili. Detto altrimenti proteste sociali, elementi di anti-capitalismo e premesse di una politica dell’emancipazione coesistono, ma senza coordinamento, in seno alle mobilitazioni collettive che abbiamo convenuto di chiamare «movimento sociale».

Tale è «l’evidenza» che giustificherebbe l’impiego di questo termine. Le aporie e gli usi abusivi del termine rivelano la grande difficoltà di teorizzare l’oggetto reale. Si potrebbe persino dire che siamo di fronte a un concetto per difetto. Allora è meglio definire male che lasciare nell’ombra, senza nome, se non innominabile, passando a fianco di una realtà largamente sconosciuta, disprezzata, le cui voci sono coperte dagli inni di gloria di una modernizzazione priva di qualunque sostanza progressista.


[1] Si possono invocare l’«era dell’informazione», la «società della comunicazione», la «democrazia d’opinione», la «disgregazione delle visioni totalizzanti del mondo», la «fluidità delle identità», il «decentramento dei soggetti», la lista rischia di essere lunga.

[2] Per una discussione critica di questi aspetti della sociologia di Alain Touraine, si vedano le analisi proposte nel presente volume da Pierre Cours-Salies

[3] Come sottolinea uno dei fondatori del sindacato SUD-PTT: «[...] Uno dei punti positivi [del movimento dell’autunno 1995] è il legame - non del tutto nuovo d’altra parte, tenendo conto della creazione di Agire insieme contro la disoccupazione (AC!) - con le organizzazioni dei disoccupati. Il tentativo del potere di opporre i disoccupati e i salariati ha fatto il suo tempo. Queste organizzazioni erano presenti nel movimento, a tutte le manifestazioni, senza dimenticare l’Appello dei «senza» a Beaubourg. Una presenza notevole. Non era del tutto evidente che le associazioni dei disoccupati, considerato oltretutto il negativo confronto con le organizzazioni sindacali, soprattutto le organizzazioni tradizionali che le prendono sottogamba, siano presi in considerazione da questo movimento. Senza sottostimare le enormi difficoltà di organizzare i disoccupati tenendo conto delle loro situazioni sociali oggettive, questa unità è molto positiva per l’avvenire.» (Pierre Khalfa, «Novembre-décembre 1995 et ses prolongements», incontro tenutosi il 2 settembre 1997, in Michel Vakaloulis, Entretiens avec des dirigeants syndicaux sur le mouvement social, CEVIPOF/FNSP, document de travail n° 94, 1998, p. 30)

[4] « Nelle prime file della manifestazione ufficiale del 16 aprile [2000 a Washington contro la “riunione di primavera” del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale], dove si contano più di ventimila manifestanti, si trovano gli steelworkers - i siderurgici - già molto numerosi a Seattle e il CWA, il potente sindacato della comunicazione che sfila con la dirigenza del AFL-CIO di Porto Rico, quegli stessi che hanno organizzato, sull’isola, uno sciopero generale contro la privatizzazione delle telecomunicazioni. Dappertutto si nota la presenza dei militanti di Jobs with Justice, un’organizzazione militante di base creata da militanti sindacali per far da tramite coi movimenti studenteschi e con quelli dei disoccupati e dei salariati precari. [...] I manifestanti di Washington avevano le stesse motivazioni e assomigliavano molto a quelli che, quattro mesi prima, avevano manifestato a Seattle e bloccato l’entrata del centro di conferenze dove si teneva l’assemblea generale del WTO. In entrambi i casi, la sorpresa era il numero di giovani, che non si era più visto negli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, e il coinvolgimento del sindacalismo, una svolta ancora più sorprendente ricordando che nel 1968 all’epoca delle proteste contro la guerra che avevano mobilitato la gioventù americana, i sindacati erano rimasti costantemente fedeli al potere. » (Christophe Aguiton [2001], pp. 10-11)