Rubrica
Tendenze della competizione globale

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Miriam Fernandez Baquero
Articoli pubblicati
per Proteo (1)

Prof.ssa Universidad de La Habana (Cuba), Centro de Investigaciones de Economia Internacional.

Argomenti correlati

America Latina

Argentina

Debito

Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale

Nella stessa rubrica

La resistenza nel Terzo mondo e la solidarietà degli intellettuali occidentali
James Petras

L’evoluzione del debito e la rinegoziazione, nel contesto della situazione economica attuale e futura
Miriam Fernandez Baquero

 

Tutti gli articoli della rubrica "Tendenze della competizione globale"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

L’evoluzione del debito e la rinegoziazione, nel contesto della situazione economica attuale e futura

Miriam Fernandez Baquero

Formato per la stampa
Stampa

1. Introduzione

Alla fine del 2001, nel bel mezzo della più grave crisi della sua storia, l’Argentina decretò la cessazione dei pagamenti in quello che è stato considerato il maggior default finanziario degli ultimi anni. Nel paese crollava l’attività economica, il prodotto per abitante scendeva a livelli inferiori a quelli di un decennio prima e la moneta perdeva un terzo del suo valore. Si presentavano, in tutta la loro gravità, i ritardi sociali acuiti dalla crescita degli anni novanta: la povertà, la disoccupazione e la tendenza al ribasso dei costi lavorativi. Aumentava, di conseguenza, la conflittualità sociale e politica, fino ai gravi scontri sociali nel dicembre del 2001, che hanno provocato la caduta del governo di Fernando de la Rùa.

A seguito delle politiche neoliberiste applicate nel paese, l’indebitamento estero continua ad aumentare. Inoltre, nel caso argentino, vale la pena ricordare la tesi dell’informazione asimmetrica: quella ricevuta dai titolari del debito e dai risparmiatori del paese sull’evoluzione dell’economia. In realtà sono stati diretti fondi verso titoli con alti rendimenti, titoli di un paese la cui capacità di pagamento era in continuo deterioramento. Per questo, una parte di responsabilità ricade sulle banche e sulle strutture finanziarie che non sono riuscite a prevedere quelle conseguenze che alcuni definiscono come sorprendenti ma che, in realtà, erano prevedibili.

L’attuale Presidente, Nestor Kirchner, ha sottolineato recentemente, in un discorso alle Nazioni Unite: “Ci facciamo carico, come paese, di avere adottato politiche sbagliate che hanno portato a questo punto il nostro indebitamento. Però reclamiamo che quegli organismi internazionali che - con l’imporre queste politiche - hanno contribuito, incoraggiato e favorito la crescita di questo debito, assumano la loro parte di responsabilità. Risulta quasi un’ovvietà segnalare che quando un debito acquisisce tale grandezza, la responsabilità non è solo del debitore, ma anche del creditore”.

Oggi si vede un certo recupero. L’Argentina, ricca di risorse naturali e umane, con eccedenze per quanto riguarda gli alimenti e l’energia e con una riconosciuta capacità materiale e umana, basa la “capacità di reagire” sull’utilizzo delle sue risorse e il dinamismo esportatore, principalmente nel settore agricolo, oltre che su alcuni settori industriali che sostituiscono le importazioni, favorite dalla svalutazione. Allo stesso modo aumentano i consumi interni e gli investimenti nazionali, tenendo conto che il paese è messo al bando dal mercato dei crediti internazionali.

Sono significativi i termini proposti dall’Argentina nella negoziazione con i creditori privati, in particolar modo lo sconto del valore nominale del 75% (condono) e il non pagamento degli interessi accumulati a partire dal dicembre 2001. Il governo enfatizza lo “sforzo fiscale”, che significa destinare fondi del bilancio pubblico al pagamento del debito, stabilendo che i suoi impegni resteranno “entro i margini che le circostanze impongono, senza l’abbandono delle mete sociali”. All’esterno i termini proposti vengono qualificati come duri, all’interno prevale il “consenso” in quanto essi sono corrispondenti alle possibilità presenti, ma allo stesso tempo si dibatte sul futuro dell’economia e sulla necessità di disegnare azioni a più lungo termine per avanzare verso una crescita equa.

 

2. Evoluzione del debito estero fino alla crisi attuale

Il debito dell’Argentina è passato in 25 anni da 7.000 a 180.000 milioni di dollari. Si distinguono comunque diverse tappe, come faceva notare la stampa nazionale.

“Il debito estero è stata la causa per cui, negli ultimi tre decenni, l’Argentina non ha smesso di cadere. Isabel Peron è stata rovesciata quando il debito estero era di 7.800 milioni di dollari, che equivalevano a 320 per abitante. José Alfredo Martinez de Hoz cominciò un processo di depredazione produttiva in cui l’indebitamento superava la creazione di ricchezza. Aumentò le obbligazioni del 364% lasciando un’ipoteca di 45.100 milioni di dollari. Ora - 20 anni dopo Raul Alfonsin - ogni abitante deve quasi 5.000 dollari all’estero. Il debito è salito del 44% con Alfonsin, di un altro 123 % con Carlos Menem, del 9%, in appena due anni, con Fernando de la Rua, e dopo la svalutazione è cresciuto del 22%” [1].

Questa crescita, secondo l’economista emergente Aldo Ferrer, riflette “una situazione cronica instaurata da quando, con il colpo di stato del 1976, si è attuata una politica di indebitamento e subordinazione alla speculazione finanziaria” [2].

Nel cosiddetto “decennio perso” degli anni ottanta, il debito è passato da 27 milioni di dollari nel 1980 a più di 57.000 milioni nel 1989. In quegli anni si sperimentava una crisi iperinflazionistica che ha deteriorato la competitività e l’attività economica, mentre imperava nel paese la non conformità (inconfermidad) con la politica economica. Con l’ascesa di Carlo Menem, si stabilì il Programma di Convertibilità, che aveva come priorità il contenimento dell’inflazione e la ristrutturazione dell’economia e dell’apparato statale.

Nel 1991, la Legge di Convertibilità ha stabilito un cambio fisso con il dollaro nordamericano, conosciuto come cassa di conversione, che diminuiva le facoltà di emissione, per eliminare il finanziamento monetario del deficit. Allo stesso modo si stabilì la deregolamentazione dell’economia, l’apertura commerciale e finanziaria e la privatizzazione delle proprietà pubbliche (activos publicos) acquistati con titoli di debito estero. Nei primi anni si riuscì a frenare l’aumento dei prezzi e a incentivare la domanda, gli investimenti e i crediti, poi cominciarono ad avvertirsi gli alti costi economici e sociali che ne derivavano.

In quello stesso periodo, si fece chiara la vulnerabilità del paese di fronte ai fattori esterni, soprattutto le congiunture dei prezzi esteri e le crisi finanziarie di altri paesi. Il primo episodio è legato alla crisi finanziaria messicana del 1994, seguita da quella del Brasile, suo vicino e principale socio; poi le crisi del sudest asiatico nel 1997-1998 e della Russia nel 1998. Tutte queste crisi hanno influito sulla riduzione dei flussi di capitale e sull’aumento di rischio dei titoli.

Negli anni novanta, nell’ambito del Piano Brady, l’Argentina ha rinegoziato il debito estero - a medio e lungo termine. Con questo accordo si è ridotto sia il totale del debito che gli interessi e una buona parte degli arretrati sono stati finanziati con le emissioni di buoni. Durante gran parte degli anni novanta, il paese veniva considerato come un modello di riforme, con una crescita annuale media del 6% tra il 1991 e il 1998, raggiungendo gli 8.500 dollari pro capite (il ciclo si interruppe brevemente nel 1994-1995).

Senza dubbio, già prima della grande crisi, che si manifestò a partire dal 1998, si discuteva dei punti vulnerabili del modello, cosa che pare avere influito sulla enorme disponibilità finanziaria e immobiliare che gli argentini andavano accumulando all’estero per proteggersi, una somma che va dai 140.000 ai 170.000 milioni di dollari. Soltanto nel 2001 sono usciti dal paese 13.000 milioni.

 

L’indebitamento in un ciclo di forte crescita e indebitamento estero 1990-1998

Si parlava di “fondamenti macroeconomici solidi” in Argentina e molti studiosi avvertivano l’aumento degli squilibri strutturali: uno dei più trattati era quello fiscale, erosione delle entrate tributarie e aumento delle spese pubbliche oltre ai pagamenti del debito pubblico, che cresceva di anno in anno. Il debito - nazionale, provinciale e municipale - veniva coperto con le agevolazioni di crediti (facilidades de créditos) e la collocazione di titoli pubblici.

Allo stesso modo veniva sottolineato lo squilibrio commerciale, i livelli di crescita e l’aumento della capacità produttiva incrementavano le importazioni, senza che ci fosse una corrispondente crescita e diversificazione delle esportazione (Tavola 1).

Lo squilibrio commerciale è stato spiegato con la sopravvalutazione della moneta in un contesto di apertura unilaterale del commercio. Nella misura in cui il dollaro nordamericano diventava più forte si sopravvalutava la moneta, il che avveniva sia nelle produzioni agricole e zootecniche che in quelle industriali. Nel caso delle vendite di materie prime e di manufatti di origine agricola e zootecnica, si aggiungevano le difficoltà nelle coltivazioni e le epidemie - come la febbre AFTOSA - e la tendenza sfavorevole delle commodities internazionali. Nel settore industriale, le produzioni di beni intermedi e di capitale, che si erano sviluppate con il processo di sostituzione delle importazioni, si sono trovate di fronte ad una forte competizione dei beni importati.

Allo stesso modo ha inciso il tipo di investimenti instaurati durante la privatizzazione, che tendevano soprattutto al mercato interno invece di promuovere le esportazioni, il che ha reso praticamente invariata la struttura delle vendite estere, sia dei prodotti agricoli e zootecnici che di combustibile, mentre le manifatture, tanto quelle tessili quanto i prodotti dell’industria metalmeccanica, diminuivano la loro incidenza. Come eccezione, si mantennero le vendite dell’industria manifatturiera al mercato latinoamericano e al MERCOSUR.

Inoltre, come abbiamo detto, aumentava la propensione a importare, un effetto delle privatizzazioni, favorito dall’apertura commerciale e dalla riduzione del cambio. Di conseguenza, l’incidenza delle importazioni sul consumo apparente si quadruplicò passando dal 4,5% nel 1990 al 18,6% nel 1996. In queste circostanze, l’Argentina passò da un surplus commerciale del 6% del PIL, nel 1990 a un deficit del 7,7% nel 1996, compensato con entrate di capitali, in forma di crediti, introiti derivanti da privatizzazioni e collocazione del debito pubblico.

Vale la pena segnalare l’influenza del sistema bancario e finanziario nel passaggio da deficit a indebitamento. Influì l’alto grado di dollarizzazione dell’economia e la possibilità di accedere ai crediti e avere depositi in dollari; alla fine degli anni novanta, circa il 70% dei depositi e l’80% dei crediti erano in dollari. In periodi di crisi aumentavano solo i depositi in dollari [3]. Inoltre, le banche operavano in condizioni di facile accesso a linee di credito estero e con abbondanti depositi, il che si rifletteva sul finanziamento bancario. Nonostante la domanda fosse molto forte, i tassi di interesse e gli spreads bancari si mantenevano alti.

Nel 1994, come conseguenza dell’ “effetto tequila”, il sistema di convertibilità subì un duro colpo seguito dalla contrazione dei capitali e dal ritiro dei depositi. Da quel momento, fu chiaro che il Regime di Convertibilità, limitando l’espansione della base monetaria alla contropartita di disponibilità finanziaria (activos) estera, riduceva i compiti della Banca Centrale nella politica monetaria e le sue funzioni di prestito. In quel momento il paese riuscì ad uscire dalla crisi, grazie all’appoggio del FMI e delle banche straniere e grazie al fatto che i soggetti indebitati non liquidarono in maniera massiccia le loro posizioni (posiciones). Allo stesso tempo il governo modificava alcuni dei principi della cassa di conversione.

Senza dubbio, la crisi influì sulla riduzione del numero delle banche e degli enti non bancari, sulla concentrazione del sistema finanziario e sull’incremento nella partecipazione delle banche straniere. Questa situazione, in ultima istanza, facilitò tanto le entrate quanto le uscite di capitali dal paese. In realtà, le banche straniere risposero attivamente all’apertura e i risparmiatori locali accolsero con favore le loro garanzie, ma, all’arrivo della crisi, le banche straniere limitarono la propria esposizione nel paese.

 

L’aggravarsi della situazione a partire dal 1998-1999

Nella seconda metà del 1998 gli squilibri divennero più evidenti e nel 1999 li resero espliciti tutti gli indicatori (Tavole 3 e 4). È da notare che le entrate di capitali, in quell’anno, riflettono la vendita di quasi tutto il pacchetto azionario dell’impresa pubblica YPF alla spagnola Repsol, circa 15.000 milioni di dollari, una delle maggiori privatizzazioni del governo di Menem. Il processo di privatizzazione si era esaurito, erano state privatizzate l’elettricità, l’acqua, il gas, i telefoni, le compagnie aeree e le aree petrolifere (vedi Appendice) mentre, nel frattempo, cresceva la resistenza alle privatizzazioni.

L’indebitamento stava diventando insostenibile: il debito estero nel 1999 aveva raggiunto la cifra di 144.000 milioni di dollari, che rappresentava più della metà del PIL e gli interessi sul debito erano arrivati a 11.000 milioni di dollari. Nel 2000, il debito aveva superato i 200.000 milioni di dollari, di cui il 60% corrispondeva al settore pubblico non finanziario e alla Banca Centrale.

L’allora Ministro dell’Economia, José Luis Machinea - nominato recentemente Segretario della CEPAL - tentò di affrontare la situazione aumentando le imposte sui guadagni - per affrontare il deficit fiscale - e con una operazione di megascambio (megacanje) di titoli, denominata “blindaggio finanziario”, attraverso la quale il paese doveva ricevere fondi straordinari, circa 140,300 milioni, dal FMI, dalla Banca Mondiale, dal BID e da altre istituzioni ufficiali, pagando tassi d’interesse molto alti, circa il 16%. Con il “blindaggio” il debito estero aumentava, passando da creditori privati a creditori pubblici. Machinea rinunciò all’incarico tre mesi dopo, rimpiazzato per breve tempo da Ricardo Lopez Murphy, finché al ministero dell’Economia tornò nuovamente Domingo Cavallo.

In piena crisi, senza modificare lo schema di convertibilità, Cavallo cercò la soluzione affrontando il deficit fiscale con la promulgazione della Legge del Deficit Zero che aggravò ulteriormente le condizioni sociali a causa del congelamento o della diminuzione dei salari pubblici e delle pensioni. Per posporre il default negoziò con il FMI un prestito stand-by per 8.000 milioni di dollari e organizzò un’operazione chiamata Megacanje (megascambio), che prorogava i debiti del 2002 al 2005, in cambio di “prestiti garantiti” che ne aumentavano il valore nominale e il rendimento. Il debito continuava a crescere e le banche che parteciparono a questa operazione imposero commissioni scandalose.

Secondo molti studiosi, queste operazioni fornirono il tempo necessario per l’uscita dal paese di grandi capitali. Il Fondo concesse un prestito di emergenza, 21.000 milioni di dollari, che poi non concretizzò, facendo così precipitare la crisi. In quel momento, il grado di esposizione del sistema bancario nei confronti del settore pubblico era molto alto e il debito che si collocava nel mercato interno continuava a crescere, fino a che il settore finanziario interno decise volontariamente di sospendere il prestito allo Stato. In quel periodo, Cavallo diede il via un’altra operazione, di cosiddetto rifinanziamento forzato, con la quale offriva alle banche e ai fondi pensione (AFJP) titoli di Stato nuovi e garantiti dalle entrate fiscali.

La contrazione del finanziamento coincideva con l’aumento del “rischio paese”, fino a livelli tali che indicavano il timore di una cessazione dei pagamenti; esso coincideva inoltre con l’aumento della pressione sul mercato dei cambi, il che portò, a giugno di quell’anno, alla modifica del regime di cambio e il peso argentino passò dalla parità fissa con il dollaro a una parità fissa con un paniere di monete, ottenuta con una media ponderata tra dollaro ed euro, chiaramente per beneficiare della debole quotazione dell’euro; questa operazione fece svalutare la moneta dell’8%. Né questa svalutazione, né le intenzioni di aggiustamento fiscale riuscirono a frenare la fuga di capitali e alla fine del 2001 si erano “drenate” la metà delle riserve del paese. Si motivò l’applicazione di controlli di cambio e di restrizioni al ritiro di fondi dal sistema bancario, con il cosiddetto “corralito” (box).


[1] «Citado Diario», p. 12, 13 settembre 2003.

[2] Aldo Ferrer a proposito dell’Accordo dell’Argentina con il FMI del gennaio 2003.

[3] Fanelli J.M. Il sistema finanziario argentino: le crisi e le sfide. Pubblicato in Perché è successo? Le cause economiche della recente crisi argentina. Secolo XXI Argentina. Cenit. 2003