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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva

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1. Lo scontro economico USA-UE e i processi di internazionalizzazione

Avevamo chiuso la precedente Seconda Parte di questa nostra analisi-inchiesta ponendo l’attenzione sui processi di internazionalizzazione attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri (IDE). E’ dall’analisi di tali processi che vogliamo ripartire nel nostro "viaggio" di inchiesta politico-economica, evidenziando il peso che va assumendo lo scontro interimperialistico USA-UE per il dominio economico mondiale ed il controllo sui processi complessivi di globalizzazione.

 

1.1. Alcuni parametri macroeconomici internazionali, in particolare sul fattore capitale

Per inquadrare l’attuale situazione economica internazionale si può, tra gli altri, guardare al contenuto della “Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea generale ordinaria dei partecipanti del 31 maggio 1999”, riferita ai dati del 1998, dalla quale si possono evidenziare alcuni parametri e alcune dinamiche che hanno caratterizzato l’economia internazionale nel 1998.

Si nota immediatamente che la crisi finanziaria che nel 1997 aveva interessato solo i paesi dell’Asia Orientale si è allargata all Russia e ad alcuni paesi dell’America Latina, determinando crisi valutarie e del debito ed instabilità economica di molte aree, anche a causa del crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime e alla moderata dinamica dei costi unitari del lavoro, con forti ripercussioni moltiplicative che hanno causato anche fenomeni di recessione internazionale. Per quanto riguarda l’andamento del PIL degli ultimi anni si veda le Tab.1 e Tab.2.

E’ interessante notare il differenziale di crescita tra i vari paesi e le diverse aree a disuguale livello di sviluppo. Si noti che nel 1998 il PIL mondiale è aumentato complessivamente del 2,5% mentre nel 1997 l’incremento era stato del 4,2%; si consideri che, escludendo la Cina e l’India che continuano ad avere ritmi di crescita molto sostenuti, i paesi in via di sviluppo asiatici hanno segnalato un decremento del PIL del 5% mentre nel 1997 si era avuto un aumento del 4%; la Russia proprio a causa della crisi finanziaria evidenzia una riduzione del prodotto del 5%; l’America Latina, anche a causa del crollo di prezzi delle materie prime, passa da un incremento del 5,2% del PIL del 1997 ad un aumento del 2,3%.

La crisi internazionale ha fatto sì che i paesi a capitalismo avanzato imponessero una accelerazione ai processi di riforma dei mercati monetari e finanziari internazionali intervenendo anche sulle politiche monetarie e abbassando a più riprese i tassi di interesse, agendo fortemente in chiave di assoluto dominio e di controllo economico e politico sui paesi in via di sviluppo.

Siamo tutti coscienti che i paesi sottosviluppati "poveri" e soprattutto quelli a medio-basso sviluppo (come ad esempio quelli dell’area balcanica, dell’est europeo, per non parlare dell’asse russo-cinese-indiano) in molti casi hanno delle grandi potenzialità economiche nel loro territorio, sia in termini di risorse materiali sia di capitale umano, nonostante ci siano delle grandi disuguaglianze economiche e sociali tra paese e paese. I paesi del Terzo Mondo, per poter sopravvivere sono indebitati in una maniera incredibile con i paesi sviluppati, i quali così facendo sfruttano le risorse di queste terre tenendole sotto il loro controllo ed evitando così che diventino un domani concorrenti pericolosi; ad esempio quello che gli Stati Uniti hanno fatto al Messico con il NAFTA, oggi viene fatto con la Russia, con i paesi dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista. Le guerre economiche sui mercati del cambio, gli attacchi speculativi sui mercati finanziari, l’uso delle crisi geopolitiche di area, e quelle nei Balcani sono sistematiche e sintomatiche, rappresentano momenti di guerra economica e politica di una violenta competizione fra poli imperialisti, in particolare fra USA e UE.

Un vero e proprio conflitto economico internazionale di dominio, che vede tutto muoversi intorno ai parametri della competitività. Ad esempio, come si può leggere dalle Tab. 3 e Tab.4, mentre l’area statunitense anglosassone vede in genere peggiorare gli indicatori di competitività, questi mostrano, invece, buone performance per il Giappone e per alcuni paesi dell’UE.

I paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa e dell’Asia centrale ricca di risorse petrolifere e di gas devono affrontare questi problemi di dominio, legati ai fattori di competitività dei paesi a capitalismo avanzato, sotto il ricatto di una guerra economica, e non solo fra USA e UE, o alcuni paesi interni alle suddette aree. Si tratta di veri conflitti economico-commerciali scatenati per imporre gravi costrizioni dovute al peso schiacciante del debito contratto con i paesi ricchi, ai quali si devono pagare in interessi più di quello che si è ricevuto in prestiti, donazioni, investimenti; e il pagamento di un debito così cospicuo costringe i paesi del Terzo Mondo a saccheggiare le foreste, svendere le materie prime, sfruttare senza controlli le risorse naturali, destinare enormi fette del proprio territorio all’allevamento degli animali, sottostare ad accordi noeliberalisti e a privatizzazioni e a standard ambientali minimi tali da attirare gli investitori stranieri.

In mancanza di una rottura radicale con la struttura della dipendenza i paesi a medio sviluppo (e in Europa quelli dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista nel sono un esempio eclatante) e del Terzo Mondo si vedono condizionati a sviluppare la loro industria e la loro produzione agricola in modo tale che i paesi portatori dei diversi progetti imperialisti ne beneficino. Hong Kong, Singapore, Taiwan e altri paesi asiatici hanno convertito i processi di trasformazione; il loro sviluppo è ormai direttamente sottomesso dalle esigenze del mercato europeo e statunitense. E’ la domanda esterna dei due grandi poli imperialisti che modella l’ampiezza e l’orientamento del processo di accumulazione del capitale asiatico funzionale al paradigma dell’accumulazione flessibile occidentale. L’America Centrale e Meridionale, l’Africa Sub-Sahariana, il Sud Asia e l’Indocina hanno debole apparato statale e produttivo, non essendo ancora capaci di dare l’impulso ad un processo di industrializzazione autonomo e quindi funzionale a veri a propri processi di colonizzazione da parte dei due poli imperialisti USA e UE. Vi sono in queste aree anche dei paesi che dagli anni ’70 hanno sperimentato una crescita economica nell’industria sotto l’azione combinata del capitale straniero e di quello controllato dalla borghesia interna, dove ha un ruolo dominante il capitale imperialista che ha cercato di modificare i termini di dipendenza e dare un nuovo impulso all’industrializzazione per la costruzione di processi di dominio dipendenti anche dalle importazioni, mantenendo una struttura di distribuzione dei salari che non deve consentire una crescita verso la sussistenza. Infine nei paesi esportatori di petrolio con importanti risorse finanziarie (Arabia Saudita, Venezuela, ecc.) o nei paesi con grande abbondanza di risorse naturali e con congiunture economiche molto favorite dall’occidente, il mercato interno si espande in modo significativo, dando un impulso ad una industria del tutto dipendente dal capitale imperialista (ad es. Colombia, Cile, Nigeria, Indonesia, ecc.).

La crescita economica di alcuni di questi paesi è dovuta al processo di accumulazione e di trasformazione tecnologica che ha creato un nuovo e solido modello di dipendenza finanziaria e tecnologica dai due grandi poli imperialisti. La riproduzione su vasta scala del moderno apparato industriale, agroindustriale e agricolo è basato sull’importazione di macchinari, attrezzature e fabbricazioni. L’alto livello di importazioni inerente a questo modello di crescita e la mancanza di dinamismo del settore delle esportazioni, la relazione di scambio diseguale, gli utili rimessi alle imprese straniere sono alcuni degli elementi che originano nei vari decenni uno squilibrio macroeconomico e una tendenza continua al deficit della bilancia commerciale, colmato con sempre più frequenti ricorsi ad un indebitamento con l’estero e ad uno stimolo dell’impiego di capitali stranieri quale via per ottenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. La politica economica determina sempre più scelte monetariste e neoliberiste, lasciando intatte le cause profonde che originano gli squilibri della struttura produttiva approfondendo il deficit commerciale. Seguendo le indicazioni della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, numerosi governi continuano ad applicare politiche di “congiuntura strutturale” e di apertura commerciale accelerata, con privatizzazione delle imprese statali e la deregulation economica, immettendo politiche antiflazionistiche che hanno come prime ripercussioni l’abbassamento dei salari reali, l’aumento della disoccupazione, la deindustrializzazione senza investimenti reali e produttivi finanziati da capitale interno e quindi l’ampliamento della dipendenza dall’imperialismo. Con l’aumento del debito estero e dell’impiego di capitale straniero, cresce la profittabilità di questo e la distribuzione all’estero degli utili, rafforzando il disequilibrio nel settore delle esportazioni. Il rifinanziamento del debito accumulato provoca l’aumento di capitale straniero per nuovi acquisti di capitale che aiutino ad arrestare la decapitalizzazione e che permettano di continuare a finanziare uno sviluppo comunque dipendente, anche se apparentemente incrementa il settore delle esportazioni, avendo l’illusione di ottenere un utile duraturo. Ma per mantenere i livelli di profittabilità si incentiva l’impiego di capitale straniero e la dipendenza delle attrezzature e strutture, si sfruttano i lavoratori, si riducono gli investimenti pubblici e si applicano politiche restrittive; cadendo così in un circolo vizioso di dipendenza finanziaria e tecnologica che aumenta il debito con l’estero.

Anche per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono certo definirsi buone per i paesi a basso e medio livello di sviluppo, anche perchè i vari organismi internazionali stimano un rallentamento del PIL mondiale che dovrebbe segnalare complessivamente una crescita non superiore al 2%, con un risultato inferiore al 2% nell’area dell’Euro (area nella quale la Germania e l’Italia potrebbero segnare uno sviluppo ancora più incerto) ed un ulteriore ristagno dell’economia giapponese insieme ad una situazione fortemente critica per l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda mondiale dovrebbe essere sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che si ipotizza raggiungeranno un incremento del PIL superiore al 3%, ma con le stesse logiche di dominio colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica economica, la quale anche per il 1998 ha evidenziato in tal modo una fase espansiva, che dura ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del prodotto del 3,9% dovuto ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare in attrezzature informatiche e in quel macrosettore che può individuarsi come area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a continui aumenti della produttività.

Per avere un quadro di confronto fra USA e gli altri dei più importanti indicatori macroeconomici si vedano le Tabb. 5 e 6, in cui si possono leggere i diversi ritmi di crescita complessivi dell’economia, ed in particolare di alcuni elementi del fattore capitale (CLUP, investimenti, ecc.).

E’ proprio ad esempio dall’andamento degli investimenti che si notano le difficoltà nello sviluppo, come si può vedere nei Graff.1, 2, 3, 4, 5.