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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva

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Va ricordato che la bilancia dei pagamenti nel 1997 ha registrato un saldo passivo di 11.142 miliardi, 7.480 miliardi in più rispetto all’anno precedente; inoltre la struttura produttiva è generalmente concentrata in pochi settori (macchinari agricoli e industriali, prodotti tessili e dell’abbigliamento, cuoio e calzature, mobili in legno), i quali pur essendo molto competitivi hanno contratto forti debiti nel settore dell’alta tecnologia, che risultano essere molto elevati nei confronti dei paesi esteri. Il nostro Paese si caratterizza, quindi, per un livello di produzione industriale non omogeneo; fenomeno che negli anni’70, veniva chiamato di industrializzazione a “macchia di leopardo”. Si registra, poi, un andamento crescente sia della produzione che della redditività, a significare che si sta espandendo la base produttiva, proprio in virtù dei processi di concentrazione e di delocalizzazione e decentramento produttivo, quindi internazionalizzazione di impresa, anche se motivati diversamente (vedi Tab.14).

Ad esempio, tra il 1988 e il 1995, la quota dei prodotti intermedi esportati in via temporanea e successivamente reimportati, dopo una lavorazione eseguita al di fuori del Mercato Unico, sulle importazioni complessive è salita dal 2.8% al 5.9% in Germania, dal 2 al 3.4% in Francia e dallo 0.8% al 3.5% in Italia. Il fenomeno ha interessato in modo più intenso i settori del tessile e abbigliamento, del cuoio, calzature e delle macchine e apparecchi elettrici; per l’Italia, la quota dei prodotti tessili e dell’abbigliamento è ulteriormente cresciuta nei primi 11 mesi del 1997 (dal 7.9% al 12.7%), mentre è rimasta stazionaria per gli altri paesi (21.4% e 8.5% rispettivamente per la Germania e la Francia). “Al contrario i settori metalmeccanici, della chimica e plastica e della lavorazione dei minerali, mostrano una quota elevata di addetti nell’UE e negli Usa, che indicherebbe un utilizzo prevalente della produzione per servire il mercato locale [1].

All’inizio degli anni’90, mentre le grandi industrie italiane attraversavano un periodo di crisi, emergevano, caratterizzando fortemente il nostro sistema economico e in genere quello europeo, le piccole e medie imprese [2] . Va ricordato, infatti, che il 99,8% delle imprese dei paesi dell’UE hanno meno di 250 dipendenti e il 91% meno di 20, esse rappresentano, quindi, il 66% dell’occupazione totale e il 65% del fatturato dell’UE. Il sistema economico del nostro Paese si basa principalmente sull’attività delle piccole e medie imprese del settore manifatturiero a bassa intensità di capitale. Infatti la propensione ad esportare in tutto il settore si è incrementata di sette punti dal 1991 al 1995, grazie al forte contributo di alcuni comparti in cui sono fortemente presenti le PMI (piccole e medie imprese) per lo spiccato orientamento, da parte dei produttori, all’esportazione nei mercati di tutto il mondo; ad esempio, le macchine per ufficio, quelle agricole, il cuoio e le calzature, hanno fatto registrare una propensione all’export superiore al 50%, con sempre, comunque, una forte e maggiore propensione ad esportare rispetto alla penetrazione delle importazioni in tutto il settore (cfr.Tabb.15,16).

In questi ultimi anni in Italia si è avuta una forte tendenza agli investimenti diretti esteri [3] , soprattutto a causa del peso crescente degli investimenti nei paesi dell’Est europeo.

Va rilevato che dai primi mesi del 1996, le nostre aziende hanno privilegiato l’Europa Occidentale (41% degli addetti in imprese partecipate), l’America Latina (17.1%), l’Europa Orientale (16.4%), il Nord America (8.2%) e l’Area del Pacifico (5%). Questi risultati sono in accordo con quelli registratisi a livello mondiale, i quali hanno evidenziato un’importante riduzione degli investimenti verso i paesi in via di sviluppo. Ma già dagli anni che vanno dal 1992 al 1995 si erano manifestati importanti mutamenti nella composizione geografica degli investimenti diretti esteri: l’America Latina è tornata a rivestire un ruolo importante ed è emerso un nuovo mercato verso cui espandersi rappresentato da tutta l’Area del Pacifico.

Dalla seconda metà degli anni’80 l’eccessivo protagonismo da parte dei gruppi industriali italiani più importanti ha generato una grossa accelerazione del processo di internazionalizzazione, infatti le imprese estere partecipate da investitori italiani si sono incrementate del 20.9% e gli addetti sono aumentati del 50.3%. Sempre in questo periodo si è manifestato un altro fenomeno molto importante: l’estensione della base multinazionale del nostro paese che ha provocato una crescita del 9.3% del numero degli investitori esteri. Va rilevato che la forte svalutazione della lira ha impedito la mancata ripresa degli investimenti diretti esteri in Italia, e questo per due motivazioni importanti: la prima di natura strutturale poiché imputa il suddetto fenomeno al deterioramento della situazione interna sia sotto il punto di vista della qualità dei fattori localizzativi e di economie esterne, sia per l’instabilità politico-istituzionale, che caratterizza il nostro paese; la seconda riguarda l’aspetto congiunturale, in quanto fa ricadere la colpa sulle numerose turbolenze che hanno influito sulla svalutazione della lira. Queste ultime hanno generato “un accumulo potenziale di investimenti pronti a materializzarsi non appena lo scenario si presterà a certe previsioni” [4].

Risultati tutt’altro che positivi provengono dalle nuove partecipazioni e dalle dismissioni che si verificano ogni anno; infatti fino la 1992 si è avuta una crescita costante di nuove partecipazioni (anche sotto l’aspetto del numero di addetti), che erano in grado di bilanciare il numero, sempre maggiore, delle dismissioni. La crescita delle imprese multinazionali nel nostro Paese ha subito una brusca frenata nel 1993 a causa della forte svalutazione della lira e della recessione che ha colpito l’Italia. Dal 1993 la situazione muta in modo repentino, le nuove iniziative passano da 325 a 136, con il conseguente calo del numero di addetti e parallelamente si incrementa il totale delle dismissioni. Questo fenomeno è stato causato anche dai processi di ristrutturazione attuati dai grandi gruppi privati e pubblici, quali CIR, PIRELLI e IRI e dall’esclusione dei potenziali investitori di alcune imprese che sono entrate a far parte dei gruppi multinazionali esteri (Cinzano Martini & Rossi, Società italiana Vetro e Telico Cavi). Si comprende, quindi, perché il saldo tra nuove partecipazioni e dismissioni tende a divenire sempre più negativo. Tra il 1994 e il 1995 la situazione è tornata ai livelli del 1993, con una riduzione, seppur minima, del numero delle dismissioni. Dal punto di vista geografico, il 67.3% degli addetti nelle partecipate estere appartengono all’Europa Occidentale, il 26.1% al Nord America, il 2.4% al Giappone e il 4.2% al Resto del Mondo. Bisogna anche considerare la ripartizione delle nuove iniziative sull’intero territorio nazionale, che, in questi ultimi anni, ha mostrato un relativo equilibrio; il 20.1% degli stabilimenti delle imprese a partecipazione estera risiedono nelle regioni centrali, il 12.6% in quelle meridionali, il 46.4% nelle regioni nord-occidentali, ed infine il 20.9% in quelle nord-orientali. Per rendere molto attuale in termini di dati molto recenti questa panoramica relativa ai processi di internazionalizzazione riguardanti l’Italia, si vogliono fornire alcuni elementi quantitativi e qualitativi relativi all’anno 1998 e desunti dalla "Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Generale dei Partecipanti del 31 maggio 1999". Per il 1998 il conto finanziario dell’Italia ha registrato afflussi netti per 6.000 miliardi di lire compresa la variazione delle riserve ufficiali con una posizione netta sull’estero complessivamente debitoria per 34.500 miliardi pari all’1,7% del PIL. In particolare gli investimenti diretti esteri hanno evidenziato deflussi netti per 17.200 miliardi di lire, risultato dovuto ad un forte aumento degli investimenti italiani diretti all’estero (pari a 21.700 miliardi di lire) che segnano un incremento di circa il 21% rispetto al 1997, mentre si evidenzia una forte riduzione degli investimenti diretti in Italia dall’estero che raggiunge un 28% in meno rispetto al 1997, con soli 4.500 miliardi di lire. In particolare gli IDE in Italia dall’estero sono diminuiti nel settore delle imprese da 4.000 miliardi del 1997 a 3.300 miliardi di lire del 1998 e quelli nelle imprese finanziarie ed assicurative sono scesi da 1.400 miliardi di lire a 1.000; va precisato, comunque, che la quasi totalità degli IDE in entrata è arrivata da paesi dell’area dell’Euro. Invece gli IDE italiani all’estero hanno visto un significativo incremento nelle imprese finanziarie, passando da 9.000 miliardi di lire del 1997 a 10.500 miliardi di lire del 1998, mentre nel settore non finanziario gli investimenti si sono ridotti da 5.800 miliardi di lire del 1997 a 3.900 del 1998; gli IDE in uscita hanno riguardato per 7.800 miliardi i paesi dell’UE (oltre la metà a società con sede in Lussemburgo) e altri 4.900 miliardi si sono indirizzati verso il Regno Unito; gli Stati Uniti infine continuano ad essere il paese fuori dall’area dell’Euro a forte attrattiva per gli IDE italiani in uscita (2.000 miliardi nel 1998 con un incremento di un terzo rispetto al 1997).

Il coinvolgimento delle PMI al processo di internazionalizzazione ha modificato anche la struttura settoriale. Da un lato si è accresciuta l’importanza delle attività tradizionali, dall’altro i settori a più elevato contenuto tecnologico hanno assistito al loro ulteriore indebolimento. Infatti il 67% degli occupati provengono dai settori ad elevate economie di scala, il 15% da quelli tradizionali e solo il 9% da quelli specialisti della meccanica e dell’elettromeccanica strumentale. La forte svalutazione della lira e la recessione interna, hanno fatto si che dal 1993 si è avuta una brusca e sensibile frenata della crescita multinazionale dell’industria italiana. Basti pensare che all’inizio del 1996, 478 imprese delle 622 multinazionali erano imprese con meno di 500 addetti; in più le aziende estere partecipate da queste ultime erano 685 dando lavoro a più di 76 mila addetti (Cfr Tab. 17).


[1] Banca d’Italia Assemblea Generale dei partecipanti, tenuta a Roma il 30/05/1998. Pag. 85

[2] “La definizione ufficiale di piccola e media impresa è quella stabilita dalla Commissione Europea nel 1993 e corrisponde ad un’impresa con meno di 250 addetti. Note in un primo momento come imprese satellite per la fornitura di componenti alle grandi imprese o come evoluzione di attività artigianali, le piccole e medie imprese, nel corso del tempo, si sono imposte come entità produttive autonome, capaci di dialogare non solo con il mercato interno ma anche con quello estero.”, L’Italia che produce, SIPI, Roma, op.cit. 1996.

[3] Si ricorda che “Il manuale di bilancia dei pagamenti del FMI definisce “diretto” l’investimento fatto per acquisire una “voce effettiva” (o interesse durevole) in un’impresa (direct investment enterprise) che opera in un paese diverso da quello in cui risiede l’investitore. Gli investimenti diretti assumono tre forme principali:

o acquisizione di partecipazioni azionarie o di altro tipo al capitale d’impresa esterna (equity);

o reinvestimento degli utili non distribuiti da parte dell’impresa estera;

o conferimento di altri capitali non-equity (prestiti intersocietari).

Il FMI include nel novero delle direct investment enterprise solo quelle società per le quali l’investitore acquisisce almeno il 10% delle azioni ordinarie o del potere di voto, ammettendo però la possibilità di utilizzare criteri complementari, atti a identificare la presenza o meno di un interesse durevole tra l’investitore e la controparte estera. Le direct investment enterprises sono ulteriormente suddivise in associates (società consolidate di cui l’investitore possiede fino al 49%), subsidiaries (società controllate, 50% o più) e branches (filiali, 100%)”. Banca d’Italia, Assemblea Generale Ordinaria dei Partecipanti, tenuta a Roma il 30/05/1998. Pag.101, 102.

[4] S. Mariotti, R. Caminotti, Italia Multinazionale, FrancoAngeli, Milano, 1996. Pag.40.