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Dario Stefano Dell’Aquila
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Dottorando in Istituzioni, Ambiente e Politiche per lo sviluppo economico, Università di Roma III

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L’economia politica della pena

Dario Stefano Dell’Aquila

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Premessa

La scrittura, in ogni sua forma, presenta sempre delle difficoltà. Queste difficoltà fanno parte dell’esperienza di ogni ricercatore, e per quanto possa essere oscuro il campo di una ricerca, è sempre consentito a chi scrive e racconta una via d’uscita, metodologicamente valida. Eppure accade che quando si scrive di una istituzione totale i dubbi e le perplessità si moltiplichino. Perché quando scriviamo di o sul carcere parliamo, in ultima analisi, di corpi, di persone, di uomini e donne che patiscono la pena più grande che il nostro codice prevede, la privazione della libertà. Quando un corpo diviene prigioniero una prima e importante mutazione lo coglie. Da quel momento non sarà mai più soggetto. Oggetto di un potere giudiziario, di uno amministrativo, di uno medico, di uno sociologico, quel corpo avrà un numero di matricola, un fascicolo, un trattamento, ma non avrà più voce. Per lui parleranno avvocati, magistrati, psicologi, educatori, direttori d’istituto, agenti di polizia, volontari, ed eccezionalmente anche giornalisti o ricercatori, ma la sua voce, il suo racconto diretto si perderà, inesorabilmente, nelle pieghe di una istituzione totale. Poco importa se dopo quella persona detenuta potrà parlare, quando parlerà da persona libera non sarà più la stessa cosa. Parlerà della propria esperienza, ma non del proprio presente. Perché il carcere è questo: l’alterazione dello spazio, del tempo e delle relazioni, per un racconto senza parola. Ai detenuti è data scrittura, ma non parola. Chi scrive è consapevole di questa situazione e ne è impotente vittima. L’unico piccolo e illusorio sollievo è rappresentato dal fatto che queste parole, scritte per altri, possano essere, in qualche modo, un piccolo passo nella direzione della libertà e del superamento delle istituzioni totali così come oggi le concepiamo.

1. Introduzione: da Poggioreale allo Stato penale

Il carcere di Poggioreale, a Napoli, è a pochi centinaia di metri dal Centro Direzionale, che ospita importanti uffici, tra cui il consiglio regionale e i suoi organismi. Dai piani alti è possibile distinguere con chiarezza i profili della struttura, che imponente si staglia per centinaia di metri. All’interno i padiglioni, tutti con il nome di città (Genova, Salerno, Milano, Avellino, etc.), disegnano una struttura ottocentesca che ben si adatta alle nuove esigenze della pena. Il numero dei reclusi oscilla, fino ad arrivare a punte di 2.500 (su una capienza di 1.400 posti), con celle che ospitano sino a 18 detenuti, con letti a castello impilati per tre. Nell’istituto altri 2.000 agenti badano alla sicurezza, una trentina di persone alla parte amministrativa, e c’è un via vai di magistrati, avvocati, parenti in visita, nuovi ingressi. In un giorno almeno 5.000 persone hanno a che fare con il carcere, la suo eco, le sue voci, accompagnate dal rumore dei cancelli.

A Secondigliano, nella periferia della città, il nuovo carcere, costruito nel 1991, ospita altre 1.600 persone, in condizioni strutturali certo più umane (celle a due o quattro posti), ma non con meno tensioni. Dal giorno della sua inaugurazione l’istituto è stato al centro di due processi per maltrattamenti e di storie non proprio limpide. Anche qui, intorno alla struttura si muovono gli umori di migliaia di persone, ogni giorno.

Se volessimo proseguire la nostra immaginaria visita, potremmo poi vedere, nel breve giro di qualche chilometro i due Ospedali Psichiatrici Giudiziari, a Napoli e Aversa, il carcere femminile di Pozzuoli, l’istituto minorile di Nisida. Se volessimo poi vederli tutti gli istituti di pena della regione avremmo il nostro bel girare, perché in Campania di carceri ve ne sono ben 18, ognuno con le sue particolari caratteristiche.

Ma quella campana, per quanto particolare, non è un’eccezione. Nel nostro paese vi sono circa 230 istituti e circa 44.000 agenti di polizia penitenziaria.

In Campania, nell’ultimo anno, il 2003, si è registrata una punta di circa settemila detenuti [1]. La seconda regione d’Italia. Il dato, in costante crescita, è in linea con quello nazionale. Nel 1990 in Italia vi erano circa 25.000 detenuti, nel 2003 il dato sfiora le 60.000 presenze, per un terzo immigrati e per un altro terzo tossicodipendenti. Di questi oltre la metà proviene da regioni meridionali. Solo il 4% della popolazione detenuta è condannato per reati legati alla criminalità organizzata.

Quello che Pierre Bourdie [2] ha definito il passaggio dallo stato sociale allo stato penale non è una caratteristica italiana. Anzi. Il tasso di detenzione in Italia è ormai pari a quello degli altri paesi cosiddetti sviluppati. Su tutti svettano gli Stati Uniti d’America, che saranno anche il paese della libertà, ma contano circa 3.000.000 di abitanti incarcerati. La politica della tolleranza zero, ormai a livello globale, dà i suoi poveri frutti.

Sarà una considerazione banale, ma meglio farla. In carcere, in Campania come in Italia, ci sono soprattutto disoccupati, immigrati e tossicodipendenti. Su una rilevazione pari al 46,4% della popolazione, 1.772 (25,5%) erano disoccupati, 153 (2,2%) in cerca di occupazione, 846 (12,19%) occupati, 180 studenti (2,2%). Per le donne (campione dell’80%) il 12,08% (32) era occupato, disoccupato il 19,25% (51), casalinga il 27% (72), in cerca di occupazione il 16,23% (43).

Complessivamente, gli stranieri internati a livello nazionale sono 17.004, il 30% dell’intera popolazione detenuta. La Campania, con 744 detenuti stranieri, ha una media del 10,7%, di gran lunga inferiore a quella nazionale, che è pari al 30% della popolazione detenuta.

I detenuti tossicodipendenti sono 1.556, il 22,4% della popolazione detenuta. Per le donne la percentuale di tossicodipendenti è del 15,8% (42), mentre per gli uomini è del 23,3% (1.514). Sono in trattamento metadonico 32 uomini e 2 donne, pari rispettivamente al 2,10% per gli uomini e al 4,7%, per le donne della popolazione tossicodipendente. Sono tossicodipendenti 124 stranieri (di cui due donne), pari al 16% del totale degli stranieri reclusi in Campania, e all’8% del totale dei tossicodipendenti uomini [3].

Con un importante libro, Nils Cristhie [4] ha interpretato uno degli effetti della pan-penalizzazione, introducendo, nell’analisi sociologica, il paradigma del business penitenziario.

In effetti i legami tra le tipologie della pena e i rapporti economici sono stati oggetto di una celebre analisi da parte di autori [5] della Scuola di Francoforte che, già nel 1936, ne individuavano le connessioni con la disponibilità della forza lavoro, aprendo il filone di pensiero dell’economia politica della pena.

Negli ultimi anni, nonostante le aspettative illuministe, il carcere è emerso non solo in tutta la sua funzione classista, ma le politiche penali hanno sostituito quelle pubbliche, determinando un progressivo incarceramento di alcune fasce della popolazione.

Ma il carcere produce anche una propria economia, nelle settore dell’edilizia penitenziaria così come in quello degli agenti preposti alla sicurezza.

Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra, si è già avviata una fase di privatizzazione degli istituti di pena, sia nella loro costruzione che nella loro gestione. Inevitabilmente le condizioni di vita penitenziaria sono notevolmente peggiorate.

Nonostante ciò il ministro della giustizia italiano si è recato personalmente negli Stati Uniti per rimanere entusiasta di quel sistema di esecuzione della pena. Ed ecco che anche in Italia si è avviata la fase delle privatizzazioni, che seppure in fase embrionale designa un nuovo modello di business penitenziario. Quello dell’edilizia. In questo campo di potere si inserisce anche una linea di sottopotere, dettata dalla particolarità politica del partito del ministro della Giustizia, Roberto Castelli, che come è noto non ama il sud, nemmeno quando si parla di carcere.

2. La finanza creativa e il detenuto in leasing

Si è molto parlato, nel dibattito italiano, dell’utilizzo spensierato delle risorse statali, elaborato dall’ex ministro Giulio Tremonti e che va sotto il nome di finanza creativa. Poco si è scritto e detto sul fenomeno che riguarda l’applicazione di questi strumenti (più che di finanza creativa potremmo definirla onerosa) che introducono un nuovo modello di business penitenziario.

2.1 Un programma a misura di Lega

Come abbiamo detto i detenuti in Italia sono circa 60.000. La capienza tollerabile, stima che il Ministero di volta in volta cambia in base a misteriosi criteri, è di 42.000 posti.

Gli esperti insistono sulla necessità di una depenalizzazione, opzione cui persino la Lega Nord, almeno per i reati di opinione, tempi addietro si era mostrata favorevole. Poi si è compreso che la costruzione di nuove carceri, con gli strumenti della finanza creativa non è meno conveniente degli anni passati, in cui i vincoli di bilancio si violavano senza tanta fantasia. Anzi. Un bel carcere fa contenti gli amici costruttori e la gente si sente più sicura. E così il piano straordinario, che è anche un buon motivo di campagna elettorale in terre amiche, indica come obiettivo prioritario la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia.

Il piano straordinario per l’edilizia penitenziaria prevede infatti la costruzione di nuovi istituti di pena a Varese (43 milioni di euro) e a Pordenone (32 milioni), più la ristrutturazione di Milano Bollate (17 milioni di euro) con lo strumento della locazione finanziaria, meglio noto con il nome inglese, leasing. Un modo elegante per dire che lo Stato prenderà in fitto le prigioni da un privato, per poi riscattarle al termine del contratto. Ma cosa si nasconde dietro questo insolito modello di economia della pena?

Per sapere dove ci porta il futuro bisogna, come sempre, dare uno sguardo al passato.

Nonostante le gravi condizioni in cui versa la maggior parte degli istituti di pena italiani, nel nostro paese la spesa per l’edilizia penitenziaria non è mancata. Tutt’altro.

2.2 Le carceri d’oro: 5600 miliardi in 30 anni

Nel corso di 30 anni, dal primo piano ordinario di edilizia penitenziaria del 1971 alla legge finanziaria del 2000, sono stati investiti circa 5.600 miliardi di lire.

Ultimo in ordine di tempo, lo stanziamento complessivo di 800 miliardi di lire, ultimo atto del centrosinistra prima del governo Berlusconi.

Di queste somme rimane oggi ben poco. Rimangono circa 330 milioni di euro già impegnati e un passato di scandali, tangenti e corruzione, in qualche caso messi in luce dalla magistratura. Una gestione disinvolta sul piano finanziario, che spesso, per ammissione della stessa amministrazione penitenziaria, rende difficile seguire le tracce contabili delle risorse, impegnate in un capitolo e poi spese per altre voci.

Gli ultimi fondi disponibili serviranno a completare i lavori di ristrutturazione in 10 istituti (in tutta Italia ve ne sono 230) e a costruirne altri 9. Poi basta, a meno che non si proceda a nuovi stanziamenti.

Uno degli ultimi istituti di pena frutto del residuo di risorse lascito del centrosinistra, è stato inaugurato dal Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, nel proprio collegio elettorale e nella propria città natia, Lecco. Dopo, a leggere i bilanci, solo lacrime e sangue.

2.3 La Finanza Creativa e il detenuto in leasing

Eppure il ministro Castelli non appare affatto scoraggiato e annuncia la costruzione di nuove carceri, a cominciare da Varese e Pordenone, annunciando il ricorso alla finanza creativa.

Nel caso in questione si farà ricorso alla locazione finanziaria o leasing. Il leasing prevede il pagamento di un canone mensile e l’opzione di acquisto finale del bene. Anche questa opzione è purtroppo un lascito maldestro del centrosinistra, una legge (la 388/2000) che prevede la possibilità che l’amministrazione penitenziaria, per l’acquisizione di nuovi istituti di pena, faccia uso della locazione finanziaria e della finanza di progetto. Ipotesi che di fatto inseriscono il capitale privato nella gestione e nella valorizzazione dell’investimento pubblico. La finanza di progetto, o project financing, prevede infatti che il privato partecipi, insieme al capitale pubblico, alla realizzazione di un’opera di interesse collettivo. In cambio ne manterrà la gestione per tutti gli anni necessari a recuperare i capitali investiti e i relativi interessi.

Le idee insomma erano lì e al buon Castelli non è rimasto altro che metterle in pratica, inserendo la questione dell’edilizia penitenziaria nella più generale dismissione del patrimonio pubblico, ideata dal Giulio Tremonti e gestita attraverso la Patrimonio Spa, la società che il governo controlla.

2.4 La giustizia privata, la Dike Spa e una partita di giro di 530 milioni di euro

Nel maggio del 2003 il consiglio di amministrazione della Patrimonio Spa, la società controllata dal Ministero del Tesoro e nata allo scopo di gestire il processo di dismissione del patrimonio pubblico, deliberava la costituzione di una nuova società per la realizzazione dei piani di edilizia penitenziaria. Dopo appena due mesi, il Ministro della Giustizia presentava alla stampa la Dike Aedifica Spa, società per la realizzazione dei programmi di edilizia carceraria, controllata, appunto, dalla Patrimonio SpA. A presiederla è stato chiamato il professore Adriano De Maio, rettore dell’Università LUISS. Il consiglio d’amministrazione è formato dai rappresentanti dei ministeri della Giustizia, dell’Economia e della stessa Patrimonio Spa.

Tra tutte spicca, in quanto brillante sintesi dei nuovi indirizzi governativi, la nomina a consigliere delegato di Vico Valassi, che è stato il presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (ANCI). Lo scopo della società, recita lo scarno comunicato ufficiale, è “di contribuire allo sviluppo del sistema carcerario utilizzando l’edilizia penitenziaria storica quale leva di finanziamento per le infrastrutture carcerarie moderne, riducendo così anche gli oneri a carico della finanza pubblica” [6] e non c’è dubbio che l’ex presidente dell’ANCI sia l’uomo giusto.

In questa frase tutto il senso dell’operazione. Lo stato venderà il proprio patrimonio immobiliare (e relativi terreni edificabili), per affittare (e poi forse poi rilevare un giorno) nuovi istituti di pena. La Dike infatti consegnerà alla Patrimonio circa ottanta istituti di pena. Compito della Patrimonio sarà quello di venderli per finanziarie l’affitto dei nuovi istituti, i cui appalti saranno determinati dalla Dike. Al momento sono undici (Casale Monferrato, Novi Ligure, Mondovì, Elusone, Ferrara, Frosinone, Avigliano, Velletri, Pinerolo, Susa e Verona) gli istituti che la Dike ha già conferito alla Patrimonio. Gli altri, a quanto risulta già individuati dal Ministero della Giustizia, saranno ceduti dopo aver sentito il parere del ministero dei beni culturali e degli enti locali coinvolti.

Al momento la prima stima attendibile di questa fase è di circa 530 milioni di euro, la somma che la Patrimonio Spa ha ottenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti per la realizzazione dei nuovi progetti di edilizia penitenziaria.

Poche, ma fondate le critiche delle opposizioni. Si legge nell’interrogazione parlamentare presentata alla Camera il 31 luglio del 2003, dai deputati Giuseppe Fioroni e Giuseppe Fanfani che “a tutt’oggi si rileva una sostanziale assenza di controlli sulle scelte che tale società andrà a compiere e che non è contemplato alcun obbligo di relazionare alle Commissioni parlamentari competenti, né viene previsto un organismo di indirizzo e verifica dell’attività della società, mentre, essendo società privata a totale capitale pubblico e operante sui beni pubblici, essa dovrebbe dare conto del suo operato, con particolare riguardo alla gestione, valorizzazione ed eventuale alienazione del patrimonio demaniale” [7].

Al Senato, in commissione giustizia, analoghe critiche sono state mosse da altri deputati, di fronte ad un imperturbabile ministro Roberto Castelli che si nasconde dietro i vincoli di bilancio e la ragioni dell’efficienza.

3. Conclusione

Le argomentazioni del Ministro non sembrano fondate. Lungi dall’essere uno strumento conveniente il leasing è molto più oneroso della semplice acquisizione di un bene immobile o della contrazione di un normale mutuo.

Il vantaggio infatti è tutto sul piano finanziario. Il leasing consente di iscrivere in conto corrente spese che altrimenti andrebbero iscritti in conto capitale, simulando così minori uscite.

Non è affatto uno strumento che migliora l’efficienza, e non diminuisce i costi. Lo sanno benissimo quelle centinaia di migliaia di persone che ogni anno acquistano la propria casa con un mutuo e non in leasing. È uno strumento finanziario conveniente quando non si ha intenzione di rilevare il bene finale, ma molto oneroso in caso contrario. È poi notoriamente uno strumento che si utilizza per beni mobili, ma il suo utilizzo per l’acquisizione di beni immobili lascia perplessi. È poi immaginabile che al termine del leasing il Ministero dica, no grazie questo carcere non ci serve più?

In realtà, come Reagan ha insegnato, non è affatto detto che la destra al governo riduca la spesa pubblica, semplicemente ne riduce la qualità, tagliando le spese di welfare a beneficio di altre voci. In questo caso l’esempio è tanto più significativo in quanto riguarda un settore delicatissimo, quello della privazione della libertà personale.

Nel caso si fosse ancora titubanti basta dare un’occhiata ai numeri. Il carcere di Pordenone, previsto dal Ministro nel piano straordinario, era stato inizialmente pensato con il finanziamento ordinario e il costo stimato era di 20 miliardi di lire. Nel 2003 il Ministero ci ha ripensato e ha deciso di inaugurare la stagione del leasing. La stima prevista, con grande gioia degli imprenditori edili, è adesso di 32.462.000 milioni di euro, circa tre volte tanto, per un carcere dalla capienza di un centinaio di detenuti. Chissà chi ci guadagna di più, lo Stato o gli amici costruttori?


[1] Risultano detenuti in via di una condanna definitiva il 53,8% dei detenuti (3.735 persone), la media nazionale è del 58,45%. Sono in attesa di giudizio il 24,33% (689), appellanti l’11,42% (793 condannati in primo grado), il 6,4% (444) ricorrenti in cassazione. Definitive il 51,7% delle detenute, in attesa di giudizio il 30,57%. Sono appellanti l’11,7 e ricorrenti il 6,04%. Il 27% delle donne sconta una pena inferiore a tre anni.

[2] Cfr. A. Giorgi, Zero Tolleranza, DeriveApprodi, 2001. Inoltre sul carcere in Italia cfr. S. Verde, Massima sicurezza, Odradek, 2002.

[3] Per comodità ed uniformità di confronto si fa riferimento ai dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2003.

[4] N. Cristhie, Il business penitenziario, Eleuthera, 1997.

[5] G. Rusche e O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, 1978.

[6] Comunicato stampa del Ministero della Giustizia, http://www.giustizia.it/, (corsivo nostro).

[7] Interrogazione parlamentare dei deputati Giuseppe Fioroni e Giuseppe Fanfani, seduta della Camera dei Deputati del 31-07-03, http://www.margheritaonline.it/.