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Eurobang. Il capitalismo italiano

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Joseph Halevi
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Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

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Declino o crisi del capitale. Uno “spauracchio” contro il movimento dei lavoratori

Joseph Halevi

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Da circa due anni in Italia si vanno moltiplicando interventi ed articoli concernenti un presunto declino economico del Paese. Può anche essere vero, solo che il declino viene visto in termini assoluti, come se fosse un fenomeno unicamente italiano. In tal modo ciò che appare come un atto di consapevolezza critica si trasforma in una mistificazione della realtà. In generale i ragionamenti sulla decadenza economica del Paese si basano su un’arbitraria unificazione della natura delle imprese con il quadro macroeconomico. Si dice ad esempio che l’Italia manca di grandi imprese di successo, cosa verissima, e la si contrappone ad altre nazioni ove le grandi imprese di successo esistono. Tuttavia non si dice che nelle nazioni ove risiedono molte grandi imprese di successo la situazione economica non è necessariamente migliore di quella vigente in Italia. Prendiamo ad esempio la Germania: non vi è alcuna relazione tra la performance economica del Paese e la performance economica delle sue grandi multinazionali.

Ancora più marcata è la situazione giapponese. Il grande successo internazionale delle imprese monopolistiche nipponiche è un fattore di prima importanza per il rifinanziamento del sistema bancario nazionale. Infatti il Giappone realizza due grosse eccedenze nei conti correnti con l’estero. La prima riguarda le esportazioni nette di merci e servizi, mentre la seconda concerne il flusso netto in entrata di redditi da investimenti effettuati all’estero. Ambedue le eccedenze sono, principalmente, il prodotto delle multinazionali del paese. Nel caso delle esportazioni nette di merci si nota come il Giappone riesca a combinare con notevole efficacia le attività delle filiali estere delle proprie multinazionali con le esportazioni. Contrariamente agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna, il Giappone - come pure, ma in minor misura, la Germania - non pone l’attività di investimento estero in conflitto con le esportazioni dal suolo nazionale. In realtà gli investimenti esteri nipponici hanno anche l’obiettivo di rafforzare le esportazioni. In primo luogo essi creano domanda estera per macchinario e tecnologia nipponica (quando una multinazionale giapponese investe in Thailandia o in Cina o negli USA deve comprare macchinari in Giappone che diventano quindi esportazini nipponiche verso i paesi di investimento) cui si deve aggiungere il flusso permanente di prodotti intermedi importati dalla casa madre. Le società giapponesi sanno benissimo che il miglior modo per minimizzare i trasferimenti di tecnologia e mantenere quindi un dominio oligopolistico nei mercati, è di conservare in casa propria la matrice tecnologica. Di conseguenza la produzione nazionale dei beni di capitale essenziali non viene messa in discussione. In secondo luogo gli investimenti esteri vengono effettuati per aumentare lo spazio di domanda finale più di quanto possa venire prodotto dalla filiale locale così da imporre il ricorso alle importazioni dalla madrepatria.

Su questi due terreni le multinazionali nipponiche sono, per il momento e per molti anni ancora, imbattibili. La capacità e volontà politica di controllare la propria matrice produttiva e tecnologica facendo perno sullo stato nazionale ha dato luogo, in Giappone, ad una controtendenza rispetto alla crescita netta del subappalto all’estero. La percentuale di produzione industriale nipponica subappaltata all’estero rispetto a quella nazionale è aumentata in misura inferiore agli altri paesi malgrado la vicinanza ed estrema apertura della Cina. La tendenza a non decentralizzare, almeno non nella misura degli USA e anche di altri paesi capitalisti europei, è, in parte sostenuta dal flusso in entrata di redditi da investimenti effettuati all’estero. Infatti la strategia delle multinazionali nipponche sebbne abbia avuto un notevole sucesso per le imprese stesse non ha però sollevato il paese dalla stagnazione nè ha impedito una stagnazione nella dinamica delle esportazioni epsresse in dollari. Quindi la difesa della posizione internazionale del Giappone nonchè del cash flow del suo sistema finanaziario ha dipeso, in misura non secondaria, dal rimpatrio di redditi prodotti da investimenti effettuati all’estero.

Nell’eccedenza della bilancia dei pagamenti nipponica tale flusso ha assunto un’importanza crescente a partire dal 1994 fino a tutto il 2002. Solo la recente ripresa delle esportazioni giapponesi collegate alla crescita cinese ha ridato fiato alla quota spettante alle esportazioni nette di merci. Il tutto è riassunto nella seguente tabella costruita su dati Ocse

Come si può osservare dalla tabella, il flusso in entrata di soldi proveniente da ‘redditi’ generati da investimenti effettuati sull’estero da residenti e/o società nipponiche è andato via via crescendo durante il decennio 1994-2003 soprattutto in rapporto alla calo del valore in dollari delle esportazioni nette dei beni e servizi. Ciò significa che il successo delle multinazionali non si è trasformato in un successo dell’economia nipponica la quale è vincolata dalle capacità di realizzo sia estere, vedasi il calo del valore delle esportazioni nette, che interne. Per chi conosca l’intensità degli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati dalle società nipponiche e per chi sia consapevole dell’enorme trasformazione dei prodotti giapponesi, la stagnazione della dinamica nipponica non ha nulla a che vedere con una mancanza di volontà ed azione innovativa. Ha invece tutto a che vedere con la crisi stagnazionistica dell’accumulazione mondiale e non a caso la ripresa delle esportazioni nette dell’ultimo anno è prevalentemente connessa alla crescita cinese.

La realtà del mondo capitalistico odierno è la stagnazione che dura da oltre tre decenni. Prendendo i dati forniti dalla Banca Mondiale si nota quanto segue [1]:

Facendo l’ipotesi che i dati siano più o meno affidabili, si vede immediatamente che il motore della stagnazione mondiale si situa nei paesi dell’OCSE, cioè nel nucleo dei paesi capitalistici avanzati. In tale contesto l’Asia orientale (Cina) e l’Asia meridionale (India) costituiscono territori di investimento come soluzione alla crisi dell’accumulazione che investe i paesi centrali. In questa prospettiva, è altresì evidente che i paesi centrali non possono che perdere in termini di peso relativo non solo in rapporto al tasso di crescita del prodotto interno lordo ma anche in relazione al commercio mondiale. Pertanto una delle critiche alla tesi del declino italiano - contrapposto a quale successo? quello dell’India? della Cina? - viene a cadere. Infatti la tesi in base alla quale il calo della quota italiana nel commercio mondiale è dovuta alla specificità del declino italiano non appare corroborata dai fatti. Tutti i paesi centrali perdono quote di mercato mondiale per via degli investimenti multinazionali in paesi terzi, soprattutto in Cina ed in Asia merdionale. Le quote delle esportazioni per alcuni paesi del gruppo OCSE sono riportate nella seguente tabella.

L’ultima colonna della tabella racchiude i dati più significativi in quanto misura la variazione della quota di ciascun paese in rapporto al dato iniziale del 1990. Nel 2003 l’Italia riteneva l’80% della quota di esportazioni mondiali ottenuta nel 1990. ma gli altri grandi paesi industriali europei subiscono grosso modo lo stesso andamento. Il calo maggiore va attribuito alla Germania la cui quota scende del 22%, quello minore alla Gran Bretagna che subisce un calo del 13%. Nell’area dell’OCSE il colpo maggiore lo riceve il Giappone la cui quota cala del 27%. Così l’esportatore mondiale per eccellenza è quello che se la passa peggio malgrado gli immani sforzi effettuati per mantenere la struttura produttiva nonchè la valanga di soldi investiti per innovare prodotti e tecnologia. Tutto sommato, Italia, Francia e Germania si situano nello stesso campo di valori statistici.

Quali sono le osservazioni che possiamo svolgere a partire da questa breve presentazione quantitativa? La prima, che è anche la più importante, riguarda l’unicità del declino italiano. Questa tesi è semplicemente falsa. Tutta l’area dell’OCSE è in perdita dal punto di vista della quota di esportazioni totali. L’effetto dei bassi e calanti tassi di crescita delle economie capitaliste è cumulativo. La domanda non tira e non tirano nemmeno le esportazioni. Per sfuggire alla caduta dei profitti insita in tale stato di cose le imprese, soprattutto quelle meglio organizzate aventi strutture di tipo oligopolistico, investono e subappaltano altrove cercando di riesportare direttamente o indirettamente verso i paesi a domanda matura. Ciò spiega il forte aumento della quota delle esportazioni afferente ai paesi asiatici extra OCSE tra i quali si situa la Cina oltre a Taiwan, alla Thailandia ed alla Malesia (la Corea meridionale fa invece parte dell’OCSE). Lo stesso processo avviene in parte all’interno dell’OCSE stesso con le rilocalizzazioni in Messico ed anche in Turchia. Infatti nell’ambito dell’organizzazione parigina dei paesi capitalisti, i minori aumentano la quota di esportazioni sul totale mondiale che passa dal 23,8% del 1990 al 27,1% del 2003. Complessivamente l’area dei paesi industrializzati perde sia in termini di esportazioni mondiali che in termini di quota delle importazioni mondiali benchè in maniera lievemente meno pronunciata. Fanno eccezione gli Stati Uniti che perdono meno di Germania, Giappone, Francia ed Italia nella quota di esportazioni, aumentando però sensibilmente la loro quota mondiale di importazioni (0,87 del 1990 per le esportazioni e 1,41 per le importazioni). Il punto focale del cambiamento dei flussi mondiali delle importazioni e delle esportazioni si trova nell’ Asia extra OCSE ove la quota di importazioni mondiali aumenta più o meno nella stessa proporzione delle esportazioni.

Esiste quindi un declino italiano? Certamente, solo che non è unicamente italiano, bensì coinvolge l’intera aerea del mondo capitalista sviluppato dall’Italia alla Germania, al Giappone. In altri termini esiste una crisi del processo di accumulazione e non un declino unilaterale dell’Italia. Evidentemente ogni paese ha una sua fenomenologia. Le multinazionali nipponiche combattono a denti stretti, innovando tecnologie e prodotti ma non ottengono risultati in relazione all’economia nazionale. I veri risultati derivano dagli investimenti effettuati all’estero ma ciò è di poca consolazione per i lavoratori nipponici i quali hanno visto la precarizzazione della forza lavoro passare dai livelli bassi dell’OCSE a livelli decisamente alti. Nel caso specifico dell’Italia le forme autoctone della crisi sono già state messe in evidenza da Luciano Gallino e da Vladimiro Giacchè [2]

Il merito di tali contributi consiste nel presentare la specificità italiana senza assolutizzarla. In tal senso i suddetti saggi hanno contribuito a rompere, speriamo definitivamente, il mito delle piccole imprese sempre furbe, svelte ed adattabili. Anche se così fosse, ma non lo è, non risolverebbe il problema della crisi dell’accumulazione in Italia perchè essa è connessa al calo sistematico dei tassi di accumulazione nei paesi centrali.

Semmai si potrebbe dire che la posizione italiana è gerarchicamente subordinata alle strategie dei paesi centrali all’interno dell’Unione Europea. Ma questa è una situazione strutturale ormai definita, nell’ambito europeo, da oltre un secolo. Il cuore della struttura gerarchica europea è la Germania la cui classe dirigente si trova in una crisi di orientamento molto profonda. È assolutamente impensabile che il capitalismo italiano possa svincolarsi dalla crisi tedesca. Tutta l’azione del centro sinistra, ma anche il pensiero della sinistra di opposizione (Rifondazione, Manifesto ecc) che ha accettato il progetto capitalistico per l’Europa, ha comportato la subordinazione non solo di fatto ma ora anche istituzionale del capitalismo italiano all’asse centrale costituito dalla Germania e dalla Francia.

Abbiamo detto che la Germania è in una crisi profonda malgrado tutta l’attività diretta alla ricerca ed allo sviluppo. Il capitalismo tedesco non sta uscendo dalla crisi però impone la sua egemonia in Europa. Sul piano economico tale egemonia si manifesta in un’enorme ripresa delle esportazioni nette che, tra il 2001 ed il 2003, ha frenato un po’ il declino della quota delle esportazioni tedesche sul totale mondiale senza minimamente risollevare il paese dalla stagnazione. La ripresa della crescita delle esportazioni tedesche iniziò con la convergenza verso i tassi di cambio di entrata nell’euro che implicarono una sostanziale svalutazione del marco. La ripresa dell’export tedesco ha delle radici neomercantliste ormai inattaccabili per via dei trattati Maastricht-Dublino e per via della itituzionalizzazione - attraverso il ruolo della Banca Centrale Europea - dei rapporti gerarchici tra le diverse componenti del capitalismo europeo. Ma la strategia tedesca non solleva nè la Germania nè l’Europa dalla crisi.

La questione diventa pertanto non tanto di come affrontare un declino solo falsamente tutto italiano ma di come affrontare l’insabbiamento nella crisi tedesco-europea. Niente di serio può venire dalla classe capitalistica italiana. Ed è qui che gli scritti già menzionati di Gallino e di Giacchè vanno ripresi perchè mostrano appunto la debolezza congenita della classe capitalistica nazionale. Cìò significa che non si posso prendere minimamente sul serio nuovi patti produttivistici dopo anni di austerità salariali e di tagli ella spesa pubblica sociale intrapresi per adeguarsi all’Europa di Maastricht-Dublino. Nello stato attuale del capitalismo italiano, ove, come argomentato da Gallino, imprese ad alta capacità tecnica sono state trasformate in organismi di tipo finanziario speculativo, un patto di rilancio produttivo signifca solamente bloccare salari ed occupazione, nient’altro. In declino assieme agli altri paesi centrali il capitalismo italiano non ha alcuna strategia da offrire al paese, ma solo ulteriore austerità.


[1] 1 Si veda anche Mark Weisbrot, Robert Naiman, and Joyce Kim, “The Emperor Has No Growth: Declining Economic Growth Rates in the Era of Globalization”, Washington: Center for Economic and Policy Research, may 2001. Accessibile presso:
http://www.cepr.net/globalization/The_Emperor_Has_No_Growth.htm

[2] Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino: Einaudi, 2003; Vladimiro Giacchè, “Il calabrone ha perso le ali”, Proteo, Gennaio-Aprile 2004, no.1, pp. 76-82. Si vedano anche gli articoli di Federico Merola e Nerio Nesi sulla crisi della Parmalat nello stesso numero.