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Eurobang. Il capitalismo italiano

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Federico Merola
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Esperto di finanza strutturata internazionale e docente di Statistica Economica alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università delle Tuscia di Viterbo

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La crisi economica e il capitalismo italiano alla ricerca di una nuova identità

Federico Merola

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1. Il “governo” delle aspettative come strumento di politica economica

Era l’ottobre del 1929 quando il neo eletto presidente degli Stati Uniti d’America, Herbert Clark Hoover (repubblicano come G.W.Bush), annunciò pubblicamente agli americani l’imminenza di uno dei periodi più prosperi della loro storia. Pochi giorni dopo, ebbe luogo quel crollo fatidico che mise in ginocchio l’economia e si diffuse a macchia d’olio in tutti i paesi industrializzati. Con una certa similitudine, nel 2001 il neo eletto Governo italiano ha annunciato all’Italia un immediato e forte rilancio dell’economia che, è stato fatto intendere, dipendeva unicamente dalle nostre forze e dalla capacità di formulare le giuste politiche economiche. In coerenza con il messaggio del nuovo governo, all’inizio del 2002 il Governatore della Banca d’Italia - un tempo figura tecnocrate ma ormai divenuto attore politico di primo piano - annunciò pubblicamente e ufficialmente agli italiani che il paese era “alla vigilia di un nuovo boom economico”. Non sappiamo su quali elementi (diversi da quelli politici) il nostro Governatore fondasse quella previsione. Sappiamo, però, che cos’è successo: abbiamo dovuto fronteggiare una delle crisi economiche più lunghe e difficili del dopoguerra. Una crisi a lungo negata o sminuita dal mondo politico e istituzionale, troppo spesso sedotto dall’idea che lo sviluppo economico si possa creare solo governando le aspettative, anziché il paese.

2. Si può negare una crisi?

Può sembrare strano che si possa negare l’esistenza di una crisi economica o non ci si metta d’accordo sulla sua natura, congiunturale o strutturale. La crisi dovrebbe in qualche modo essere un fatto oggettivo. O c’è o non c’è. Eppure non è sempre così facile ed evidente. Innanzitutto perché si ha a che fare con problemi complessi, come l’identità e l’evoluzione del tessuto produttivo di un moderno paese industriale. Peraltro multiforme e disomogeneo nel caso dell’Italia. Aggiungiamo a questo anche il fatto che la maggior parte dei dati macroeconomici di cui disponiamo derivano da informazioni solo parziali e campionarie. Insomma, il lavoro di analisi è complesso di per sé. A rendere le cose ancora più difficili, però, ci si mette spesso la politica. Quando un tema diventa centrale nel dibattito sulla “cosa pubblica”, finisce inevitabilmente per arenarsi nelle secche della retorica elettorale e della logica di potere, altrimenti detta “real politick”. Solo in questa particolare ottica diventa comprensibile il dibattito pubblico italiano degli ultimi anni, che in materia di “crisi economica” ha proposto un contraddittorio accademico e istituzionale tanto accanito quanto confuso e spesso incerto persino nell’ufficializzare formalmente agli italiani quelle difficoltà che le loro tasche quotidianamente gli suggerivano. Fino al momento in cui, finalmente, il contraddittorio sul “se” è definitivamente tramontato, mortificato non solo - e forse non tanto - dall’innegabile serie storica negativa inanellata dai dati macroeconomici nazionali o dalle crescenti difficoltà quotidiane di milioni di cittadini quanto, piuttosto, dal crollo dei simboli.

3. Il crollo dei simboli

La cronaca degli ultimi anni ha proposto all’attenzione di tutti noi episodi ai quali forse mai avremmo immaginato di assistere. Il crollo della Fiat, azienda simbolo del capitalismo italiano anche se negli anni ’90 ha ricevuto dallo Stato trasferimenti “pubblici” esattamente pari ai dividendi distribuiti ai propri azionisti “privati”. E che dire della Parmalat, esempio luminoso della laboriosità emiliana e del successo del capitalismo familiare, uno dei marchi nazionali più noti all’estero anche grazie alla costante presenza sulle magliette di tanti trionfi sportivi del paese. Non è stato da meno, sotto il profilo simbolico, neanche il fallimento del più giovane gruppo Cirio, soprattutto in ragione della sua appartenenza al settore agroindustriale - nel quale gran parte del paese ancora si identifica - e del suo radicamento sportivo nel campionato di calcio italiano, sul quale molti italiani misurano l’andamento reale del paese. Ma per molti versi il culmine simbolico lo si è raggiunto con la crisi dell’Alitalia, compagnia “di bandiera” - come si usa dire - classico esempio di orgoglio italico permanete affermativo e senza ambizione. Analogo, potremmo dire, a quello di ipertrofica affermazione dell’Io di un bambino nei confronti degli adulti dai quali dipende.

Casi come questi possono essere esaminati sotto diverse prospettive. Lo abbiamo sottolineato in un precedente articolo. C’è il capitalismo pubblico o familiare italiano, più incline a comandare che a governare le aziende. C’è la crescente dimensione globale dei gruppi, industriale e finanziaria, che favorisce la “distrazione” di fondi dal processo produttivo e la realizzazione di falsa contabilità. C’è la struttura collusiva e marcatamente domestica del nostro sistema economico e creditizio, che mantiene il paese confinato nel proprio provincialismo senza ambizione. C’è l’inafferrabile rete dei conflitti di interesse: tra banche e imprese, imprese e società di revisione, banche e piccoli risparmiatori e persino tra autorità di vigilanza. C’è la commistione più deteriore tra affari e politica. C’è una struttura di vigilanza “sacralizzata” nel tempo, e quindi rimasta indietro rispetto alle nuove sfide poste dai cambiamenti degli anni ’90. C’è un sistema di regole inadeguato, che non ha ancora fatto i conti con l’innovazione tecnologica e la globalizzazione dei mercati. Ma soprattutto c’è l’inefficienza di manager e azionisti che spesso hanno radicalmente sbagliato strategie di gestione e posizionamento.

In ogni caso, il crollo a catena di questi simboli ha probabilmente contribuito più di qualsiasi altra cosa alla presa di coscienza collettiva della profonda crisi economica che attraversa il paese. Non solo sul fronte della grande impresa ma anche e soprattutto in quella dimensione produttiva piccola e media meno presente sulla prima pagina dei giornali. Questo perché esiste una sorta di dipendenza psicologica inerziale dal paesaggio che ci circonda, bello o brutto che sia. Un moto dell’animo che produce negli uomini turbamento quando il sottofondo quotidiano si trasforma improvvisamente e radicalmente. Qualcosa di simile sembra verificarsi nei confronti dei riferimenti economici o istituzionali della nostra identità. Di fronte ad un impatto emotivo così forte, negare la crisi economica è diventato impossibile. Molto meglio puntare su qualcosa di diverso. Sulla sua identificazione con uno sfortunato fenomeno congiunturale (l’11 settembre, la guerra, il terrorismo, e chi più ne ha più ne metta) che, stringendo i denti, presto passerà.

4. Una crisi veramente congiunturale?

Che l’Italia stia vivendo una drammatica crisi congiunturale è fuori di dubbio. Tutti i dati, per quanto imprecisi e indicativi possano essere, lo confermano. Che la crisi dell’Italia si risolva in una crisi congiunturale, invece, è assai opinabile. Per capirne di più, cominciamo ad esaminare il prodotto interno lordo in termini reali (PIL con base 1995), cioè il principale indicatore della produzione di beni e servizi di un paese. Nel 2003 il PIL reale italiano è cresciuto appena dello 0,3%. In altre prole è rimato fermo, a fronte di una previsione iniziale del governo di crescita dell’1,8%. Nel corso dello stesso anno il PIL reale mondiale è aumentato del 2,7%; quello degli USA del 3%; quello cinese del 10% e quello europeo nel suo complesso dello 0,4%. Il sostanziale allineamento della crescita italiana a quella europea, tuttavia, ha l’aria di essere solo una accidentale coincidenza. Nel 2002, infatti, il PIL reale del nostro paese era cresciuto dello 0,4%, a fronte di quasi l’1% dell’Unione Europea. E le cose non sembrano destinate ad andare meglio nel 2004. Per l’anno in corso, infatti, le previsioni di crescita del PIL reale formulate dal FMI sono del 3,5% per gli USA, del 2% per l’Ue e dell’1,2% per l’Italia (previsione ora accolta anche dal Governo italiano che invece nella manovra di fine 2003 aveva indicato una crescita dell’1,9%). Dopo due anni di stagnazione, quindi, la crescita prevista per il PIL nazionale è pari alla metà di quella europea e ad un terzo di quella americana. Nel suo outlook di maggio, peraltro, l’OCSE ha ridimensionato ancora queste già modeste aspettative, attribuendo all’Italia una crescita del PIL reale dello 0,9% per l’anno in corso. Previsione in parte confermata dall’Istat, che a sua volta prevede una crescita del PIL reale italiano non superiore all’1,1% (contro il 2% della Ue, il 3% degli USA, il 9% della Cina, il 3,7% della GB, l’1,7% del Giappone e il 2% di Francia e Germania).

Secondo l’Istat, nel 2003 “il rallentamento dell’attività produttiva riguarda tutti i principali settori, ad eccezione delle costruzioni, cresciute ancora ad un ritmo significativo. Risulta in flessione il valore aggiunto del comparto agricolo, in forte caduta per il quarto anno consecutivo, e, in misura più contenuta, quello dell’industria in senso stretto. Il contributo alla crescita del settore dei servizi rimane positivo, segnando tuttavia un’ulteriore riduzione”. Un aspetto particolarmente sfavorevole della crisi del 2003 “è costituito dalla dinamica negativa del processo di accumulazione del capitale. Dopo essere aumentati dell’1,2% nel 2002, gli investimenti fissi lordi diminuiscono nel 2003 del 2,1% (il risultato peggiore dal 1993)”. (Rapporto annuale 2003 - Dati sintetici).

Il riflesso di queste tendenze sull’occupazione non ha mancato di farsi sentire. Sempre secondo i dati forniti dal principale istituto di statistica nazionale, in un solo anno, tra maggio 2003 e maggio 2004, le grandi imprese hanno perso circa 16.000 posti di lavoro. È vero che nel 2003 il numero di occupati in Italia è aumentato dell’1% (+225 mila), ma “l’incremento ha riguardato le fasce d’età più anziane a causa di fattori demografici e del progressivo innalzamento dei requisiti di età e di contribuzione per l’accesso alle pensioni di vecchiaia o di anzianità”. Nel complesso, il tasso di occupazione italiano (56% con riferimento alla popolazione tra 15 e 64 anni) rimane ampiamente al di sotto della media europea mentre il tasso di disoccupazione, sceso nel 2003 all’8,7% (era il 9,0% nel 2002), è rimasto per anni cronicamente introno al 9-10%, contro una media europea sempre ampiamente inferiore, anche se nell’ultimo biennio ha raggiunto questo stesso valore.

Le cose non sono andate meglio sul fronte dei prezzi dato che l’indice nazionale al consumo per l’intera collettività ha registrato nel 2003 un aumento del 2,7% (2,5% nel 2002), contro l’1,8% dell’area Ue (nel 2003 il differenziale d’inflazione con gli altri paesi europei è salito allo 0,9% contro lo 0,4% del 2002). L’effetto Euro, quindi, ampiamente additato come responsabile dell’inflazione, non spiega pienamente il differenziale accumulato rispetto agli altri paesi aderenti alla moneta europea. Per quanto riguarda l’anno in corso, il dato di luglio 2004 per l’Italia è di un aumento dei prezzi su base annua (luglio 2003 - luglio 2004) del 2,2%, contro il 2,3% della media europea (mentre l’obiettivo di inflazione programmato dal Governo è dell’1,6%). Questo valore, però, ha risentito di favorevoli elementi contingenti (nell’anno in corso si è avuto il più basso livello di consumi dal 1996) e rischia di essere presto smentito dall’andamento del prezzo del petrolio. Con un PIL reale stagnante, le contestuali pressioni inflazionistiche richiamano lo spettro della cosiddetta “stagflazione” (stagnazione + inflazione), con cui abbiamo già avuto tristemente a che fare negli anni ’70.

Al cospetto di questo andamento dei prezzi, la dinamica salariale ha segnato nel 2003 una moderata accelerazione nominale, nell’ambito della quale gli incrementi più elevati riguardano la pubblica amministrazione. In generale, tuttavia, dal 2001 ad oggi gran parte dei lavoratori italiani ha subito una forte riduzione del potere d’acquisto reale del proprio salario dovuta al sistematico ed ampio differenziale tra il tasso di inflazione programmata dal Governo (Tip), utilizzato per gli adeguamenti annuali delle retribuzioni, e il tasso effettivo d’inflazione.

Un altro elemento fondamentale per valutare lo stato di salute della congiuntura economica è la situazione dei conti pubblici. L’Italia ha di recente evitato l’avvertimento formale dell’Ue solo grazie ad una manovra d’emergenza di entità tale come non la si vedeva da almeno 7 anni, quando il paese aveva dovuto affrontare la sfida dell’euro. Quella che il governo presenterà in autunno è una manovra ponderosa sia per la sua entità (24 mld di Euro, ai quali occorre aggiungere le risorse necessarie a finanziare gli sgravi fiscali, pari al 1,2-1,4% del PIL) sia per la sua composizione (17 mld di Euro sono misure strutturali di taglio delle spese). Una manovra in assenza della quale, secondo l’OCSE, a fine 2004 l’Italia avrebbe registrato un rapporto deficit/PIL pari al 3,1%, contro il 2,9% previsto dal Governo (il tetto fissato dalla disciplina Ue è del 3%). E che secondo le stesse previsioni della ragioneria generale del Ministero dell’Economia sarebbe arrivato al 4,4% nel 2005, rimanendo sopra il 4% fino al 2008 (le previsioni si fermano lì). Sul fronte del rapporto debito / PIL le cose vanno meglio solo in apparenza, nonostante la riduzione dal 108% del 2002 al 106,2% del 2003. Infatti il debito pubblico italiano registra ancora il livello assoluto e relativo più elevato in ambito Ue (solo Grecia e Belgio superano col debito il 100% del PIL). Inoltre, il contenimento del debito rispetto al PIL ha avuto luogo ad una velocità notevolmente inferiore a quella degli anni ’90. Una ricostruzione storica consente di inquadrare meglio l’evoluzione di questo particolare indicatore. Il debito pubblico italiano nel 1982 era il 64% del PIL mentre 10 anni dopo, alla vigilia di tangentopoli, era passato al 111% circa, con il deficit annuale pari al 10% del prodotto interno (il massimo è stato toccato nel 1985 con il 12,3%). Nel corso degli anni ’90 il rapporto deficit/PIL è diminuito costantemente (con la sola parentesi, statisticamente rilevabile, del breve governo Berlusconi del 1994 - 1995) arrivando al 7% del 1997 e al 2,7% del 1998, in linea con il parametro di Maastricht per l’ingresso nell’Euro. Nel 1999, con il centrosinistra che girava la boa dell’ultimo anno di governo, il rapporto deficit / PIL era arrivato all’1,9% (con una riduzione di 7,5 punti percentuali in 5 anni, dovuto all’aumento dell’avanzo primario e alla riduzione della spesa per interessi). Per quanto riguarda il rapporto debito / PIL, nei 5 anni di governo del centro - sinistra (1996 - 2001) si è passati dal 125% al 110%, con una riduzione del 15% (3% l’anno di media). Dal 2001 ad oggi, invece, il contenimento realizzato è stato pari al 3%, che potrebbe diventare a fine 2004 il 4% (con una media dell’1% l’anno) se il Governo riuscisse ad effettuare 20 mld di Euro di privatizzazioni per dicembre. In uno scenario di riduzione della pressione fiscale “centrale” (quella locale è aumentata del 178% in dieci anni), il Governo ipotizza di portare il rapporto debito/PIL sotto il 100% in 4 anni, grazie però ad un piano di privatizzazioni di circa 100 mld di Euro [1].

Ma anche indicatori più complessi non annunciano nulla di buono. Secondo il superindice messo a punto dall’OCSE per misurare lo stato di salute e l’evoluzione delle economie dei paesi membri, la maglia nera della prima metà dell’anno 2004 spetta proprio all’Italia, in fase negativa da 8 mesi consecutivi, in controtendenza con la Ue e i vicini paesi di Francia e Germania.


[1] Anche l’avanzo primario dello Stato (surplus tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi) ha subito negli ultimi anni un duro colpo, passando dal 5% del 2000 a meno del 2,5% del PIL.