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Eurobang. Il capitalismo italiano

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Federico Merola
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Esperto di finanza strutturata internazionale e docente di Statistica Economica alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università delle Tuscia di Viterbo

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La crisi economica e il capitalismo italiano alla ricerca di una nuova identità

Federico Merola

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Un quadro congiunturale più vicino alle imprese industriali lo si ricava dalla consueta indagine di Mediobanca relativa all’andamento delle prime 1.945 imprese italiane. Il 2003 risulta un anno di totale ristagno, con una crescita complessiva nominale del fatturato del 3% (poco più dell’inflazione) nonostante nel medesimo anno le grandi imprese abbiano pagato il 30% del reddito in tasse contro il 42% dell’anno precedente. Anche gli utili non sono andati benissimo per l’industria italiana, che ha segnato perdite complessive per 4 miliardi di euro, contro i 9 miliardi di utili del terziario e i 5 delle utilities (acqua, luce, gas, energia).

Infine le esportazioni, un dato rilevante per un’economia trainata dalla domanda estera come la nostra. Nel 2003 il commercio mondiale è cresciuto del 4,5% ma in Italia entrambi i flussi dell’interscambio commerciale con l’estero hanno registrato una variazione negativa. Il valore delle esportazioni ha subito una contrazione enorme, pari al 4% (era stato -1,4% nel 2002), mentre le importazioni si sono ridotte dell’1,6% (-1% nel 2002). Il calo delle esportazioni di merci è più accentuato sui mercati dell’Ue (-4,6%), per i quali non c’è problema di cambio, che su quelli extra-Ue (-3,4%). Il surplus della bilancia commerciale ha quindi subito un’ulteriore riduzione, a causa dell’ampliamento del disavanzo nei confronti dei paesi Ue e del ridimensionamento dell’attivo verso i paesi extra-Ue.

Questo è il quadro congiunturale che da ormai quasi tre anni viene negato, sminuito, interpretato, giustificato e, infine, riconosciuto ma come in rapido e sicuro superamento. Per capire di più, tuttavia, i dati congiunturali non bastano. Devono essere incrociati con almeno altri tre elementi fondamentali: 1) le dinamiche di lungo periodo; 2) la politica economica del governo in carica; 3) la politica economica degli ultimi dieci anni.

5. Licenziare i padroni: il declino industriale dell’Italia

Per salvare l’Alitalia sarà probabilmente necessario licenziare qualche decina di migliaia di lavoratori. Non farlo, viene chiaramente detto, è contrario alle “leggi dell’economia” e incoerente con la situazione generale dell’azienda, che rischia il fallimento (ovvero il “tutti a casa”) e la perdita di indipendenza. Oggi, probabilmente, tutto questo è vero. Perciò lo Stato italiano, azionista di controllo dell’azienda, ha approntato un prestito-ponte di 400 milioni di Euro che la Ue ha approvato a condizione che l’Alitalia venga privatizzata per almeno il 50% del capitale sociale. L’attuale presidente dell’Alitalia, Giancarlo Cimoli, ha detto che la situazione è grave e che presenterà dei documenti “non negoziabili” sul riassetto organizzativo del personale, con riduzione del costo del lavoro e l’introduzione di maggiore flessibilità. Sempre Cimoli ha chiarito che occorre “mettere in campo tutte quelle operazioni strutturali che sono state rimandate nei tempi passati”. In Italia, quando si parla di “operazioni strutturali”, raramente si fa riferimento all’aumento dei ricavi. Più spesso ci si riferisce a tagli e riduzioni di personale, da realizzare in condizioni di emergenza. Soluzioni che magari riportano i conti in ordine, ma molto raramente riescono anche a rafforzare la capacità competitiva dell’azienda. Il caso dell’Alitalia è, sotto questo profilo, eloquente. È vero, infatti, che dopo l’11 settembre 2001 tutte le compagnie aeree hanno dovuto fronteggiare una profonda crisi (tanto che in alcuni paesi, come quello della Svizzera, non esiste più la compagnia di bandiera). Ma l’Alitalia è uno splendido esempio, se comparata ai propri concorrenti, di come la battaglia sia stata persa sul fronte dei ricavi e della capacità di competere e creare sviluppo. Non su quello del costo del personale. Appena pochi mesi fa, del resto, l’ex amministratore delegato dell’azienda Francesco Mengozzi ha denunciato pubblicamene che il problema per il risanamento della compagnia non è stato tanto il sindacato quanto l’azionista!

Per molti versi quella dell’Alitalia è una storia che si ripete. Analoga a quella della Fiat, della Parmalat e, se vogliamo andare oltre i confini nazionali, della Enron. I lavoratori pagano gli errori di manager e azionisti che, spesso, si sono però speculativamente arricchiti con l’azienda. Nel caso dell’Italia, sembra qualcosa di più di un problema contingente. Appare, piuttosto, come l’ennesima evidenza di un declino che si trascina da tempo. Negli anni ’50 e ’60 il PIL reale pro-capite italiano è cresciuto al ritmo incredibile del 5% medio annuo. Il ritmo di crescita dell’economia italiana rallenta poi negli anni ’70 (+3,6% medio annuo di crescita del PIL reale nazionale) e ’80 (+2,2%). Dopo la crisi di tangentopoli, che ha visto nel 1993 il PIL reale addirittura ridursi dello 0,8%, la crescita degli anni ’90 (1994 - 2000) è stata del 2% circa, ma inferiore a quella dell’Ue che, a sua volta, ha perso colpi rispetto agli USA. Dal 2001 al 2004 l’aumento medio annuo del PIL nazionale è inferiore all’1% (+0,875%). Nel complesso, il PIL pro-capite, dato significativo quale indicatore di qualità della vita, vede l’Italia davanti solo a Spagna, Grecia e Portogallo nell’ambito dei 15 paesi originari dell’Ue. Ma il dato forse più importante che riguarda l’ultimo decennio, è che anche quando il PIL è cresciuto, l’occupazione ne ha beneficiato solo minimamente rispetto al passato.

Gli anni ’90, quindi, hanno posto ciascuno di noi di fronte all’innegabile evidenza di una crisi economica straordinariamente lunga e complessa. Questo, almeno, ci dicono i dati statistici esaminati in serie storica. Indubbiamente, cogliere gli elementi di una crisi strutturale è decisamente difficile. Dato che le economie sono in costante trasformazione, alcuni cambiamenti negativi dei quali ci rendiamo conto potrebbero essere controbilanciati da elementi positivi che sfuggono alla nostra osservazione, magari ancorata a parametri di valutazione e giudizio divenuti col tempo inadeguati a cogliere la nuova realtà. Del resto la storia insegna che un paese non può declinare velocemente. E, tuttavia, un paese come il nostro - che importa modelle e calciatori ed esporta scienziati - qualche domanda ha il dovere di porsela sulle proprie prospettive di medio-lungo periodo. Cominciando da un dato sempre poco richiamato per quanto evidente. Il declino della grande industria manifatturiera in Italia.

L’elenco delle prime 1000 società del mondo per valore di mercato pubblicato da Business Week all’inizio di agosto sui dati 2004, è abbastanza eloquente in proposito. La vetta della classifica è dominata da società industriali: General Electric, Microsoft, Exxon-Mobil e Pfizer. Tra le prime 50 società, ben 36 sono industriali. Il primo gruppo italiano in classifica è l’ENI, al 37° posto (nel 2003 era 50°). Una società ancora controllata dallo Stato che ha una posizione di monopolio naturale sul nostro territorio. Tra l’86° e il 105° posto seguono Enel (ancora controllata dallo Stato), Tim e Telecom Italia. Tutte società che erogano servizi in regime di quasi monopolio. Per trovare le prime imprese industriali italiane operanti in effettivo regime di concorrenza occorre arrivare al 750° posto con Edison, che potrebbe diventare presto francese, e Luxottica. La Fiat è all’841° posto mentre la Finmeccanica (pubblica) è all’850°. Immerse tra una serie di società che non appartengono ai primi paesi industrializzati del mondo (messicane, tailandesi, ecc.). Insomma, tra le prime 1000 società del mondo c’è un solo imprenditore privato italiano che non beneficia di rendite di posizione: Leonardo Del Vecchio (primo produttore di occhiali al mondo). Che però ha un fatturato 17 volte inferiore a quello della Fiat! Nel complesso, tra le prime 1000 società del mondo ne abbiamo 23, ma solo 9 sono industriali (le altre sono finanziarie, come le Generali, ed hanno in gran parte un’operatività ancora largamente nazionale). Meno del 50% dunque, a differenza di GB, Francia e Germania. Per di più, di queste 9 società industriali, 4 sono tra le prime 100 e le altre 5 in fondo alla classifica, dietro centinaia di società appartenenti a paesi meno sviluppati dell’Italia. Analogamente, se prendiamo la classifica delle prime 500 società del mondo ordinate per fatturato 2003 anziché per valore di mercato 2004, pubblicata dalla rivista americana Fortune, la musica non cambia di molto. Su 500 società, l’Italia - che resta la 7° economica del mondo - ne ha solo 8 di cui appena 4 industriali. Con le riserve espresse su Eni, Enel e Telecom Italia, l’unica società industriale che appare, dunque, è la Fiat, che meno di un anno fa era sull’orlo del fallimento. E questo elenco di società italiane è da circa 20 anni sempre lo stesso. La differenza appare evidente con gli anni ’50 e ’60, quando l’Italia era invece ben posizionata in tutti i principali settori industriali: macchine per ufficio e informatica (Olivetti che fino a metà degli anni ’80 contendeva a Compaq il primato della produzione di PC); automobili (Fiat); chimica e farmaceutica (Montedison); aeronautica civile (Finmeccanica); e così via. Anche se siamo sempre rimasti fuori da comparti importanti come l’elettronica di consumo e l’high tech, negli altri settori avevamo un ruolo importante. Si potrebbe argomentare che questo è l’effetto della terziarizzazione dell’economia, per cui è normale che all’industria si sostituiscano i servizi. Ma qui le statistiche possono essere fuorvianti perché la terziarizzazione dell’economia si è dimostrato un processo funzionale all’industria, che ha espulso funzioni e processi prima svolti internamente, anziché indipendente da essa. Per cui la crescita dei servizi non riesce a sostituire l’industria che, invece, può accompagnare [1]. Né si può onestamente dire che ai vecchi settori di sviluppo industriale l’Italia abbia saputo sostituirne dei nuovi. Al contempo, la dimensione media ridotta delle nostre imprese le rende vulnerabili, spesso poco competitive a livello internazionale e poco inclini all’investimento in ricerca, sviluppo e innovazione. Non è quindi un caso se nel 2001 l’Eurostat ha dovuto registrare l’Italia al 12° posto su 15 paesi per numero di domande di brevetto per milione di abitanti presentate all’European Patent Office (Epo). Sono state, precisamente, appena 74 contro le 366 della Svezia, le 337 della Finlandia, le 309 della Germania, le 242 dell’Olanda, le 211 della Danimarca, le 174 dell’Austria, le 151 del Belgio, le 145 della Francia e le 133 del Regno Unito. Per non aggravare ancora la situazione, tralasciamo volutamente le classifiche che misurano la dotazione infrastrutturale di ogni paese, che vedono l’Italia in declino da ormai 15 anni anche rispetto a molti paesi di nuova industrializzazione.

Come nota Luciano Gallino, “non è un’impresa da poco aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si è stati tra i primi nelle classifiche internazionali (...).Tale complessa operazione è stata condotta da imprenditori, top manager, uomini politici affiancati dai loro consiglieri economici”. Di fronte alla vastità di questi problemi, che invocano a gran voce il ripristino di un’azione lungimirante di politica industriale, il paese si trova invece immerso in uno scenario di politica economica alquanto distante dai temi di ampio respiro che abbiamo richiamato.

6. Il presente come storia: la “supply side economics”

Era il 1979 quando il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, sotto l’ombrello culturale dei liberisti-monetaristi della scuola di Chicago, lanciava la cosiddetta “supply side economics” o economia dal lato dell’offerta. Il paradigma di questo nuovo credo ideologico era semplice. La crisi economica di fine anni ’70 non dipendeva, come quella del ’29, da una scarsità di domanda ma da una serie di strozzature che impedivano all’offerta di espandersi. Semplice l’analisi, semplice la ricetta. Detassazione (per favorire i consumi privati), deregolamentazione e liberismo a piene mani (per favorire l’offerta) e risanamento del bilancio pubblico (per limitare lo piazzamento dei mercati finanziari). Una ricetta che ricorda nella sua sostanza, e nelle sue contraddizioni, quella annunciata e seguita dall’attuale maggioranza di governo italiana. Sappiamo bene, oggi, come finì la “supply side economics” americana. La riduzione delle imposte produsse un sistema fiscale sostanzialmente regressivo, divaricando la distribuzione del reddito tra classi o ceti sociali. E poiché la propensione al consumo si riduce con l’aumentare del reddito, l’effetto positivo sui consumi privati non ha assunto una dimensione effettivamente percepibile per l’effettivo rilancio del paese. Per questo il Governo presieduto da Reagan produsse un deficit pubblico colossale che solo l’attuale governo americano, forse, riuscirà a superare. Non solo e non tanto per effetto della riduzione delle imposte. Quanto, piuttosto, perché sotto mentite spoglie mise in atto una delle più classiche e mastodontiche politiche keynesiane “dal lato della domanda” che si siano mai viste. Insomma, un rilancio della domanda interna a scapito del bilancio pubblico, con deficit e debito in crescita verticale. Quanto alla deregulation, anche se il termine è senza dubbio seducente e molto spesso evoca provvedimenti utili per l’economia, sappiamo com’è finita. L’estremismo con cui fu attuata negli anni ’80 ha reso necessario negli anni ’90 un processo di re-regulation la cui onda lunga è arrivata fino a noi, oggi, con le nuove leggi volte a limitare i conflitti di interesse emersi con lo scandalo Enron e a quelli legati all’attività delle banche. Insomma, la storia ha dato ragione a Tobin, premio Nobel per l’economia, il quale diceva dei monetaristi che volevano “sostituire alle vecchie teorie e politiche economiche [cfr quelle Keynesiane], nuove 50 anni fa, delle nuove teorie e politiche economiche, già vecchie 50 anni fa”.

Nonostante la lezione della storia, l’attuale governo di centro - destra sembra aver rispolverato per l’Italia una ricetta analoga a quella suggerita dalla “supply side economics”. Infatti ci è stato spiegato durante l’ultima campagna elettorale che una diminuzione delle tasse, un risanamento del bilancio pubblico [2], una deregolamentazione dell’economia e una devolution politico-amministrativa avrebbero rilanciato l’economia dal lato dell’offerta. Il rilancio dell’economia avrebbe finanziato la riduzione delle tasse e il risanamento del bilancio pubblico. E la riduzione delle tasse avrebbe anche favorito i consumi. Purtroppo, però, il nostro Governo, a differenza di quello americano degli anni ’80, non ha potuto fare ricorso alla spesa pubblica (come pure avrebbe voluto). E si è accorto strada facendo che la ripresa di un paese votato all’esportazione come l’Italia dipende molto da quello che succede nel resto del mondo. Così, ci è stato ampiamente spiegato perché non è stato possibile ridurre subito le tasse (il fantomatico “buco” lasciato dal centro-sinistra) e perché non è stato possibile farlo affatto (la guerra e la crisi economica internazionale). In questo scenario, il principale strumento di politica economica del Governo è stato ancora una volta quello delle aspettative (ovvero l’invito pubblico ai cittadini a consumare e alle imprese a investire). Abbiamo visto quanto un simile “provvedimento” possa essere di per sé efficace. Purtroppo va anche registrato che al contempo l’opposizione non è riuscita a spostare l’attenzione su temi di maggiore spessore e rilevanza ed in particolare uno su tutti: quale forma di capitalismo si può prefigurare per il nostro paese.


[1] In un recente documento sulla “Politica industriale in un’Europa allargata” persino la Commissione della Comunità Europea denuncia la “diffusa ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella società dell’informazione e dei servizi, l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale”.

[2] L’ex Ministro dell’Economia Tremonti affermò che se non fosse riuscito a pareggiare i conti dello Stato entro il 1° gennaio 2004 si sarebbe dimesso.