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Continente rebelde

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José Luis Fiori
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Professore all’Università di S. Paulo (Brasile)

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Il Brasile nel cambiamento mondiale: spazi in disputa

José Luis Fiori

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L’era Bush non ha abbandonato questo progetto di un nuovo imperialismo “accettabile dal mondo dei diritti umani”. Al contrario, nell’attaccare l’Afghanistan e l’ Iraq, inglesi e nord-americani hanno dimostrato che sono disposti ad applicare la “legge della giungla” con gli stati “pre-moderni” o fracassati. Ed in tutti gli sforzi internazionali o multilaterali, hanno insistito, con forza crescente, nella difesa del libero commercio e della deregolamentazione e apertura delle economie nazionali dei paesi in via di sviluppo, enfatizzando la necessità che i loro stati si aprano ed accettino la tutela degli organismi internazionali. E stato così, negli accordi con l’FMI, come nella maggior parte delle negoziazioni multilaterali sul tema del commercio e degli investimenti stranieri, come si è visto nel Giro di Ruota Doha di Negoziazioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e più recentemente, nella sua Riunione di Cancun, realizzata a settembre del 2003.

Il problema, in relazione al “mondo della giungla”, è che gli Stati Uniti non sanno che fare con i paesi bombardati e occupati... In campo politico-militare, aumentano di giorno in giorno le difficoltà americane in Afghanistan, dove non esiste praticamente governo centrale fuori da Kabul, e in Iraq, dove le truppe americane sono attaccate e il governo degli Stati Uniti sembra perplesso, senza poter rifiutare né sapere dove avanzare, resistendo al cammino di una politica coloniale esplicita.

Vorrebbero ripetere in Iraq la stessa strategia adottata dopo la II Guerra Mondiale, in Germania e in Giappone. E qualcuno già è arrivato a sognare un rifacimento dell’Unione Europea. Ma in pratica, si trovano ogni volta più compromessi in un progetto coloniale poco nitido e che non conta sull’appoggio della maggior parte delle potenze.

D’altra parte, nel mondo “dell’imperialismo volontario dell’economia globale”, i numeri e gli indicatori economici non lasciano nessun dubbio: la promessa della convergenza della ricchezza non si è compiuta, i tassi di crescita sono stati molto bassi e la rendita è concentrata ancora di più nei paesi che hanno accettato e adottato la “nuova teologia dell’aiuto”. Oltre a ciò, le crisi finanziarie si sono succedute in Argentina, in Messico, nell’Est Asiatico, nella Russia, in Brasile, e di nuovo in Argentina.

All’inizio del nuovo secolo pochi credono ancora nelle virtù delle ricette politiche del “consorzio mondiale degli organismi finanziari” guidato dall’FMI. E ancora, gli Stati Uniti guardano con sfiducia ai paesi che hanno avuto successo economico, perché non hanno seguito i cammini “volontari” dell’economia globale. Come dice John Mearsheimer, “la politica degli Stati Uniti in Cina è orientato male, perché una Cina ricca non sarà un potere che accetti lo status quo internazionale. Al contrario, sarà uno stato aggressivo e determinato a conquistare un’egemonia regionale. Non perché la Cina diventando ricca debba avere degli istinti malvagi, ma perché il modo migliore per qualsiasi stato di massimizzare le sue prospettive di sopravvivenza è di diventare egemone nella sua parte di mondo. Quindi, se è interesse della Cina essere egemone nel nord-est dell’Asia, non è interesse dell’America che questo succeda”. (2001; p.402) [1]

 

La tesi di Mersheimer è sulla Cina, ma può essere applicata all’India e a tutti i paesi che non appartengono al “mondo della giungla”, ma che non sono disposti ad accettare le regole imposte “dall’imperialsmo volontario dell’economia globale”. Sarebbe una quarta categoria di imperialismo, nella classifica di Richard Cooper. In questi casi, ciò che si proporrebbe sarebbe una specie di “attacco preventivo”, di natura economica, con l’obiettivo di bloccare lo sviluppo dei paesi che si propongono di cambiare la loro posizione nella gerarchia mondiale della ricchezza e del potere.

Questo progetto sintetizzato da Cooper e Mersheimer, può non essere stato appoggiato esplicitamente dalla maggioranza delle potenze economiche, ma già è in corso da qualche tempo. In questa nuova geometria proposta dagli anglo-sassoni, sono chiaramente definiti gli spazi che saranno occupati dai paesi che non appartengono al club delle Grandi Potenze. O essi accettano le premesse e le conseguenze “dell’imperialismo volontario dell’economia globale”, nonostante il suo reiterato fracasso, o affronteranno una lotta durissima nelle loro nuove negoziazioni internazionali, con gli organismi finanziari, e nei fori e organizzazioni multilaterali. Uno scenario ancora più difficile per paesi come il Brasile, che non hanno mai avuto una posizione di distacco nella geopolitica delle Grandi Potenze, ma che hanno un enorme potenziale di crescita e di mobilità, nella gerarchia geo-economica del sistema mondiale.

Oggi lo spazio mondiale che può essere occupato dal Brasile è soprattutto economico, ma ciò non sarà possibile senza un rafforzamento della posizione politica e dell’ amministrazione intellettuale ed etica del paese, nello scenario americano e mondiale. Questo presuppone che il Brasile rilegga la storia del suo inserimento mondiale e del suo sviluppo economico e cambi radicalmente la strategia adottata negli anni ’90, molto simile a quella seguita dal Brasile nel secolo XIX, e fino alla crisi del 1930.

 

3. Il Brasile nel mondo: inserimento e sviluppo

Il Brasile forse è stato il Paese pioniere nella sperimentazione della strategia proposta da Adam Smith. Primi furono i trattati di commercio, firmati dalla Corona Portoghese con l’Inghilterra, nel 1806 e 1810, e con la Francia, nel 1816; e subito dopo l’indipendenza, di nuovo con l’Inghilterra, il Trattato di Amicizia, Navigazione e Commercio, nel 1827, seguiti da accordi analoghi con Austria e Prussia, nello stesso anno, e con la Danimarca, gli Stati Uniti e i Paesi Bassi, nel 1829. Dopo il 1841, continuarono ad essere in vigore solo i trattati di commercio con la Francia e l’Inghilterra.

Insieme con gli Stati Uniti, il Brasile e la maggioranza dei paesi latino-americani, sono stati i primi Stati nazionali extra-europei. Al momento dell’indipendenza, nessuno d’essi disponeva di veri stati né di economie nazionali, né avevano o stabilirono relazioni tra di loro che gli permettessero di parlare dell’esistenza di un sistema statale o di un sistema economico regionale. Oltre a ciò, in nessuno dei nuovi Stati latino-americani l’indipendenza politica e la costruzione di una economia nazionale facevano parte di una strategia espansionistica (e bellica, in molti momenti), come nel caso degli Stati Uniti. Al contrario, gli Stati latini solo lentamente monopolizzarono e centralizzarono l’uso della forza, e le loro economie iniziarono a funzionare, sottomesse al libero-commercio e all’indebitamento estero, come produttori specializzati del sistema di divisione internazionale del lavoro, indicato dalle necessità dell’industrializzazione inglese ed europea e imposto dai famosi trattati commerciali lodati da Adam Smith. Come conseguenza, l’America Latina restò emarginata nel sistema interstatale di competizione tra le Grandi Potenze, e poté essere trasformata in un laboratorio di sperimentazione “dell’imperialismo di libero-commercio” praticato dall’Inghilterra, nella prima metà del secolo XIX. I nuovi stati latino-americani non erano di dominio anglo-sassone, come il Canada, l’Australia o la Nuova Zelanda, ma nonostante la loro indipendenza politica, nacquero come appendici o periferia del sistema economico capeggiato dall’Inghilterra.

Nel Brasile, anche dopo la proclamazione della Repubblica,lo Stato continuò ad essere una organizzazione nazionale fragile, con bassa capacità di incorporazione sociale e mobilitazione politica interna, e senza voglia, né pretese espansioniste. La stessa sopravivenza della nuova repubblica, nel momento della sollevazione dell’Armata, nel 1893, dipese dall’organizzazione e protezione della cosiddetta Squadra Legale presente nella Baia della Guanabara e organizzata dagli Stati Uniti con la partecipazione di quattro altre Grandi Potenze. Dal punto di vista economico, la nuova repubblica restò attaccata al modello “primario-esportatore”, per lo meno fino alla crisi mondiale del 1930. In questo periodo continuò ad essere un’economia sottomessa alle regole e alle politiche liberali imposte dal modello-oro, ma la sua crescita e modernizzazione non si limitò alle sue attività e alle esportazioni come in altri paesi latino-americani. In Brasile, l’attività esportatrice aiutò a creare un mercato interno di alimenti, di mano d’opera migrante e una rete di trasporti e commercializzazione che andò al di là della rete classica di esportazione, soprattutto nel caso del complesso delle piantagioni di caffè.

Questa forma di inserimento economico permise al Brasile di crescere fino agli anni 30, grazie alla complementarietà tra la sua economia interna e l’economia mondiale, e grazie all’integrazione del paese con le finanze inglesi che accentuarono il carattere ciclico di dipendenza estera dell’economia brasiliana. Nelle fasi espansive dell’economia mondiale, i banchieri inglesi finanziarono l’economia brasiliana e soprattutto l’espansione delle loro infrastrutture di trasporto e comunicazione. Ma nelle fasi di contrazione dell’economia mondiale, il paese fu obbligato a fare degli aggiustamenti periodici all’economia, o a dichiarare una moratoria, come successe nel 1897.

Tra la crisi economica mondiale del 1930 e l’inizio della II Guerra Mondiale, nel campo aperto dalla lotta tra le Grandi Potenze, il Brasile conquistò qualche spazio di manovra per la sua politica estera, e reagì allo “strangolamento economico” adottando politiche che rafforzarono lo Stato centrale e la sua economia nazionale. Ma la sua autonomia politica durò poco, e nel 1938, il Brasile già si era allineato a lato della nuova leader-ship mondiale nord-americana. Dal punto di vista economico, tuttavia, la risposta alla crisi degli anni 30, obbligò il Brasile ad un protezionismo pragmatico, per affrontare il problema della scarsezza di prodotti, che finì con lo stimolare un processo quasi spontaneo di “sostituzione d’importazioni”. Un processo embionale che diede impulso all’industrializzazione, ma che finì per affrontare limiti chiari ed immediati superati soltanto quando la restrizione esterna diede origine, a partire dal 1937/38, ad un progetto di industrializzazione gestito dallo Stato e indirizzato verso il mercato interno.

Dopo la II Guerra Mondiale, il Brasile non ebbe una posizione rilevante nella geopolitica della Guerra Fredda, ma venne collocato nella posizione di principale socio economico degli Stati Uniti, nella periferia sud-americana. Non ci fu Piano Marshall per l’America Latina, né il Brasile fu incluso nella categoria dei paesi il cui “sviluppo a invito”, (come successe con un “pezzo” di Asia), né fu stimolato fortemente, dall’accesso privilegiato ai mercati nord-americani. Anche così, il Brasile si trasformò in una esperienza originale di sviluppo accelerato ed “escludente”, sotto la leader-ship degli investimenti statali e del capitale privato straniero, proveniente da quasi tutti i paesi del nucleo centrale del sistema capitalista. Durante tutto il periodo di sviluppo, il Brasile mantenne uno dei tassi medi di crescita mondiale più elevato, alla pari dei tassi crescenti di disuguaglianza sociale.

Nonostante l’allineamento forzato per la Guerra Fredda, fu in questo periodo che il Brasile cominciò ad esercitare una politica estera più autonoma, combattiva e globale. Furono momenti importanti di questa nuova traiettoria le proposte dell’Operazione Pan-americana, nel 1958, e dell’Operazione Brasile-Asia, negli anni 1959-60, allo stesso tempo di una maggiore vicinanza dell’Europa e dell’Africa Nera. Nello stesso momento, il governo brasiliano rivedeva le sue relazioni economiche internazionali rompendo il suo Accordo con l’FMI. Non ci sono dubbi che il grande cambiamento accadde all’inizio degli anni ’60, con la politica estera indipendente inaugurata dal governo Janio Quadros, responsabile delle nuove relazioni del Brasile con America Latina, Asia e Africa, ma anche con il mondo socialista e con il Movimento dei Paesi Non-Allineati. Una strategia più autonoma in relazione agli Stati Uniti, più aperta alla maggior parte dei paesi del mondo, e più combattiva sul piano delle negoziazioni commerciali e finanziarie del paese, come fu chiaro dall’appoggio alla creazione dell’ALALC, e alla partecipazione brasiliana nella UNCTAT e nel gruppo dei 77, nei decenni ’60 e ’70. Questa posizione fu mantenuta, in grandi linee, dalla politica estera di quasi tutti i governi militari, a dispetto della loro posizione forte nei confronti della causa anti-comunista, e anche dopo la democratizzazione, con la politica estera del governo Sarney. È stato durante i governi di Fernando Henrique Cardoso che il paese si è allineato incondizionatamente al programma di politiche e riforme liberali che ricollocarono il paese nello spazio e nella posizione che ha avuto durante tutto il secolo XIX, e fino alla crisi del 1930.

A proposito dello sviluppo economico, alla fine degli anni ’60, e durante gli anni ’70, l’abbondanza di credito privato per i paesi in via di sviluppo permise un’accellerazione dei tassi di crescita e nel caso del Brasile, gli permise di avanzare nel processo di industrializzazione iniziato negli anni 50/70, completando la sua matrice industriale con la produzione di beni di capitale. L’altra faccia della medaglia di questo processo, è stato un indebitamento estero oltre le possibilità di bilancio dei pagamenti, essendo responsabile in gran parte per lo strangolamento della crescita, nel momento in cui l’economia brasiliana fu sottomessa - alla fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta - ci sono stati quattro choc fatali: elevazione dei tassi d’interesse internazionali; recessione nell’economia mondiale, deterioramento dei termini di cambio ed interruzione del finanziamento estero dopo la moratoria messicana. Sono stati questi i principali fattori che hanno sottoposto l’economia brasiliana a una grave crisi di bilancio di pagamenti e che hanno obbligato i governi degli anni ’80 a fare una politica di promozione attiva delle esportazioni e di controllo delle importazioni, per dar conto dei servizi dei debiti esteri. Come conseguenza, il paese ha vissuto una recessione seguita da una riduzione del tasso medio di crescita, alla quale si sommarono varie devalorizzazioni cambiali e una accelerazione dell’inflazione. In questo periodo, l’allontanamento dal mercato internazionale di capitali obbligò il Brasile a cercare l’appoggio del FMI e del BIRD, restando soggetto alle loro condizioni che confermano la tendenza stagnante del periodo.

All’inizio degli anni 90, la vittoria americana nella Guerra Fredda, la nuova utopia della globalizzazione e una base di liquidità internazionale hanno creato le basi materiali e ideologiche della nuova svolta liberale delle elite e dello Stato brasiliano. Dal punto di vista geopolitico, in particolare nel periodo FHC, il governo brasiliano, ha contato su un solido allineamento con gli Stati Uniti ed il suo progetto di globalizzazione liberale, accettando l’internazionalizzazione dei centri di decisione brasiliani e la fragilità dello Stato, in cambio di un progetto di governo globale utopico. Dal punto di vista economico, la disponibilità di capitali internazionali ha finanziato l’abbandono della strategia di sviluppo, il ritorno alle politiche economiche ortodosse e al libero-cambismo del secolo XIX. Oggi è assolutamente chiaro che l’onda espansiva degli investimenti esteri, negli anni ’90, non ha avuto lo stesso effetto dinamico del periodo dello sviluppo, perché si trattava soprattutto di capitali incostanti e attratti dalle privatizzazioni, promosse dal governo Cardoso. Come conseguenza, all’inizio del 2000, l’economia brasiliana era già stata riportata alla sua vecchia e permanente “restrizione estera”, una specie di segnale indelebile del Brasile, nell’impero Britannico e Nord-Americano.

Guardando in dietro, si distaccano, in questa storia, alcune “ricorrenze” importanti per il futuro: (I) tutti i grandi cambiamenti di rotta strategica del paese sono avvenuti in momenti di crisi o trasformazioni mondiali; (II) la posizione e l’appoggio dei capitali e governi anglo-americani ha avuto un ruolo decisivo nelle scelte brasiliane; (III) in tutti i casi, la “restrizione estera” economica e la fragilità monetaria hanno pesato sull’autonomia brasiliana e a favore di uno stato debole; (IV) le elite brasiliane non hanno bisogno dell’appoggio popolare per garantire la riproduzione e l’accumulazione della ricchezza patrimoniale o mercantile, che avviene attraverso i circuiti finanziari internazionali. E per questo sono opposte quasi sempre al nazionalismo e alle politiche economiche di taglio mercantilista.

Nel 2003, pochi credono ancora nel mito della globalizzazione, e come già abbiamo visto, la guerra è tornata al centro del sistema mondiale, dove gli Stati Uniti accumulano un potere finanziario e militare indiscutibile. L’asse geopolitico del sistema si mantiene lontano dall’America Latina, e l’economia mondiale oscilla sul precipizio dell’inflazione, se questo avvenisse ad essere globalizzata sarà la paralisi giapponese. La moneta brasiliana continua debole come sempre e la restrizione estera è tornata a bussare alla porta. Dopo otto anni di riforme liberali, lo stato appare, ancora una volta, debole, disarticolato e con bassa capacità di iniziativa strategica.


[1] MEARSHEIMER, J. (2001), THE TRAGEDY OF THE GREAT POWER POLITICS, Norton and Company, New York